Film > The Amazing Spider-Man
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Autore: Pachiderma Anarchico    25/08/2015    6 recensioni
Il suo sguardo è una promessa di guerra.
Sembra sibilare nell'oscurità come il gelido vento del Nord, sussurrare come sussurrano gli amanti.
Le sue parole cadono come petali di rose sul campo di battaglia.
"Piangerò ma la maschera lo nasconderà,
laverò le mie mani dal tuo senso di colpa,
spezzerò il mio cuore e lo ricomporrò come un puzzle,
fuggirò dal nostro passato: farò in modo che non ritorni.
e il sangue ribollirà come se avessi febbre nelle vene.
Sveglierò l'inferno e avrà luci verdi."
Genere: Azione, Dark, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Felicia, Harry Osborn, Peter Parker, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Ci vuole una premessa.
Qui ci vuole una premessa. 
Non avrei mai pensato di scrivere nel fandom di Spider-man neanche una one shot di 50 parole e invece eccomi, con una storia per il quale sto vedendo i folletti verdi (letteralmente) e che mi sono messa a pensare e a ripensare e a cambiare e a scrivere su qualunque superficie scrivibile tanto che la mia mente è una bufera di neve in Alaska e ho fogli (e tovaglioli di carta) sparsi per tutta la casa.
Mi sono messa a cantare le canzoni di High School Musical gente. 
La situazione sta precipitando più velocemente di Gwen... okay okay, di Albus Silente dalla Torre di Astronomia.
Niente sarcasmo! 
So che siete ancora tutti scioccati per la tragica morte della Stacy.
E tutto questo a causa di The Amazing Spider-man 2.
In ogni caso spero che questo inizio di percorso (sembro un parroco) vi porti alla luce (eh) e vi piaccia, soprattutto. 
Se così non fosse prendetevela con le seguenti persone:
•Peter Parker per essere shippabile con qualsiasi cosa meno cucciolosa di lui e perchè mentre guardavo il film aveva una complicità con il Signor Osborn da urlare "Shippaci dannazione, shippaci!"
• Harry Osborn perchè mi fa il duro e l'autoritario e poi è bastato uno sguardo (occhi da cerbiatto potenza 10) del Peter Parker per sciogliersi come il mio budino alla vaniglia fuori dal frigorifero;
Megara X. Lei è l'incolpabile numero 1.
È lei che mi spinge a scrivere certe cose con i nostri vaneggiamenti quotidiani.
E' lei che tenta di mettere ordine nel chaos dei miei personaggi che si prendono le ferie anticipate.
Ed è a lei che dedico questa storia, perché senza di lei probabilmente avrei ammazzato Peter nel secondo capitolo realizzando che è un ragno e che dopo la fine di quel maledetto film è brutalmente incazzato con Harry. 
(Non si può essere incazzati con Harry.)
Ma questo Megara X non vuole che lo dica perchè sostiene che io debba essere imparziale nel mio Harem di protagonisti, e per questo l'ho messo tra parentesi.
E il titolo è suo, altra parentesi.
Non so cosa ho scritto e non so perché, ma io non ho potere sui miei personaggi.
Loro fanno quello che vogliono quando vogliono e come vogliono e io devo andarmene in giro a tentare di scendere a compromessi con tutti e a soddisfare le loro richieste se non voglio che mi boicottino la fan fiction.
Chiunque abbia mai detto che lo scrittore decide qualcosa della sua storia ha mentito.
Pachiderma Anarchico
 
PS: il banner è stato creato dalla bravissima HilaryC
PS2: la storia inizia dopo 6 mesi dalla fine di The Amazing Spider-man 2.
 
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 Double Mirror
 
 
 di

Pachiderma Anarchico




Megara X,
la Felicia Hardy della mia vita, 
cerca sempre di dare un contegno alle mie oscene turbe mentali e
sostiene le mie idee anche quando era meglio non farlo.
 
 

Capitolo 1

 TIME WILL TELL 


 

 
 
 
Il Ravencroft è silenzioso.
Il Ravencroft è estremamente silenzioso.
Come se avvertisse che qualcosa è cambiato.
Come se potesse avvertire il dolore.
È qui grazie a Spider-man. Grazie alle sue conoscenze; grazie al fatto che nessuno può dire di “no” a Spider-man.
E’ Spider-man quello forte.
E’ Spider-man quello che ha tentato di salvarla.
E’ Peter Parker che li ha persi. Entrambi. 
Vorrebbe urlare così forte che è strano che le guardie che lo scortano attraverso questi corridoi di luce artificiale non lo sentano. 
Si meraviglia persino che Spider-man non corra a rimproverarlo: “c’è sempre un prezzo.” 
E’ troppo alto… è troppo alto.
“Signor Parker ha 15 minuti.”
Spider-man aveva fatto in modo che sarebbero rimasti soli.
Perché è Spider-man quello potente.  
Non lui.
Chi è lui?
Solo un diciottenne che ha perso due delle persone più importanti della sua vita. E la cosa peggiore è che una di loro è ancora qui. 
Ma Peter, le mani bloccate da corde invisibili e la voce che fatica a fingersi integra, non può raggiungerla.
Non è pronto e non vuole esserlo. Non vuole essere responsabile. Non stavolta.
Ma dopotutto Spider-man ha mosso mari e monti per vederlo e permettere a Peter Parker di dirgli quello che deve dirgli. 
Lo scortano dentro, una sedia si sposta, lui si ci lascia cadere. Non che Peter lo stia guardando. 
Se lo stesse guardando potrebbe certamente dirvi che le occhiaie sono così evidenti da lasciare voragini sul suo volto, che la bocca è spaccata in più punti, che la pelle è più bianca del bianco stesso. 
Ecco, ora lo sta guardando.
“Peter Parker.”
“Harry Osborn.”
Quanto può essere familiare un semplice scambio di battute? Quanto può far male? 
“Sei in isolamento, ho saputo.”
“Hai ottime fonti.” 
La sua voce. Un paio di manette, un paio di brillanti occhi blu; segni, bruciature e aloni neri, questo è tutto quello che rimane del suo migliore amico. 
"Se non avessi le mani legate mi uccideresti?”
“Non mi servono le mani per ucciderti Peter.”
C’è una sorta di insofferente divertimento nella sua voce. 
“Godi nel sapere che soffro?”
“Godo nel sapere che finalmente anche tu sai cosa significa morire.”
Non guardarmi, non con quel viso così familiare, non dopo quello: ne hai perso il diritto. E se tu mi guardassi non potrei sopportarlo. Sarebbe difficile, molto più difficile rimanere lucidi davanti al volto di Harry Osborn.
Lo è sempre stato.
“Siediti”, dice l'uno.
“Non darmi ordini” risponde l'altro.
“Allora non sederti” continua.
“Stai continuando a darmi ordini” continua a rispondere.
“Allora fa’ ciò che vuoi.”
“E’ comunque un ordine implicito.”
Si muove sulla sedia come se fosse ad una delle sue importanti riunioni, accomodato sulla sua poltrona dallo schienale alto, con indosso un vestito d'argento creato su misura per lui e quell'aria da gran signore piuttosto che in carcere con manette ai polsi e un’accecante tuta arancione che non mostra niente del suo corpo se non gli avambracci rovinati.
Peter ricorda che è questo uno degli aspetti di lui che non ha mai dimenticato: la sua infallibile capacità di sembrare il padrone anche quando sono gli altri a comandare.
“E quindi sei venuto fin qui, ottenendo un permesso speciale di 15 minuti per incontrare un detenuto tenuto in isolamento da una prigione di massima sicurezza solo per poter fare l’analisi logica delle sue frasi?” il sorriso si spezza, diventa un ghigno malconcio. 
“In realtà è più lungo di 15 minuti” dice Peter sedendosi. “Ti porto via da qui, per due ore, domani.”
Harry assottiglia lo sguardo, gli occhi sono come saracinesce abbassate per metà, da cui spicca un limpido pezzo di cielo turchese.
“Come hai fatto a…”
“Ti sorprenderebbe cosa riesce a fare un diciottenne in tuta di latex.”
“E questo diciottenne in tutina di latex cosa vuole esattamente da me?”
Le manette tintinnano. Le sue mani tremano. E più tremano più il suo sguardo si fa sinistro.
Peter finge di non notarle. Lui fa lo stesso.
“Fare un patto.”
Il cigolio di una sedia è quello di un uomo che si sposta. Lui si avvicina a al diciottenne, sporgendosi sul tavolo che li divide. 
“E perché dovrei voler fare un patto con lui?”
Peter è come roccia sferzata da rapide di lava incandescente, ma resiste.
“Perché può farti uscire di qui.”
 Il cigolio torna al suo posto, e anche lui.
“C’è ancora chi ti chiama Peter Parker?”
“C’è ancora chi ti chiama Harry Osborn?”
Si guarda i bracciali di ferro. Strisce rosse sono vivide sulla sua carne. Sorride, annuisce, non solleva lo sguardo.
“C’è ancora gente che crede che l’assassino sia io?”
B A N G . Come una pallottola spuntata. 
Peter temeva sarebbero arrivati a questo punto. Solo non credeva che ci sarebbero arrivati così in fretta.
“Cosa intendi dire?”
“Beh… mi hanno detto che eri al suo funerale… piangevi sulla sua tomba… la sua morte… Cosa si prova a sapere che è stata colpa tua?”
Scatta. Dalla sedia. Dalla rabbia. Dal dolore. 
Peter scatta e sbatte le mani sul tavolo, palmi aperti e cuore dolente. 
“Dovresti dirmelo tu visto che l’hai uccisa.”
“Aaa…” alza gli occhi, un sorriso rotto sul suo bel viso. 
Questo mondo è una partita persa.
“Ma non l’ho uccisa io… l’hai uccisa tu.”
Gli parte la mano. 
Forte, molto forte.  
Doloroso, Peter lo spera.
L’aveva sulla punta delle dita, proprio qui. 
Poteva trattenerlo. Non l'ha fatto.
Ma lui l’ha fatto apposta. 
Nell’istante in cui la mano del diciottenne dai grandi occhi marroni collide con la faccia del ventenne dalle iridi in tempesta e lo schiaffo graffia sulla sua guancia, la sedia perde equilibrio e lui perde stabilità: si alza, i muscoli tesi, l’espressione folle.
“Signori! Fermi!!”
Grosse mani e sodi muscoli si interpongono tra loro. Dividono l'indivisibile. Evitano l’inevitabile. Rimandano il peggio.
Sono otto gli uomini grossi quanto un fuoristrada e non sono sicura che riusciranno a fermarli.
“Signor Parker se ne vada, è meglio.”
Peter riprende il controllo di se quanto basta per arretrare da solo senza che debbano strattonarlo.
“Harry... Harry!" Grida. "Ti devo vedere domani!" 
E mentre le guardie lo forzano a camminare l’ultima cosa che Peter sente è l’ultima cosa che vorrebbe sentire. Il grido lontano di una chimera che si mangia a pezzi i resti del suo cuore: “Si dice Signor Osborn, non siamo amici.”
 
 
 
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“Signor Parker, il Signor Osborn ha accettato di usufruire del permesso di uscita speciale dalle 17.00 di questo pomeriggio sino alle 19.00 dello stesso giorno, per un tempo massimo di 2 ore. Il Signor Osborn non indosserà le manette e\o alcun tipo di ferro ma un localizzatore che permetterà all’istituto di supervisionare la sua uscita e rintracciarlo dovunque egli sia. Se allo scoccare del 120esimo minuto il Signor Osborn non sarà entro l’area interna del Ravencroft entrambi sarete ritenuti responsabili e gli ufficiali si metteranno immediatamente sulle vostre tracce.
 Durante l’uscita il Signor Osborn non potrà:
 
- entrare in possesso di un’arma da fuoco;
- oltrepassare i confini della città di New York;
- parlare e\o entrare in contatto con persone che non siano lei -Signor Parker-    o i familiari di lei -Signor Parker-;
- bere alcun tipo di alcolico e\o super acolico;
- fumare tabacco e\o qualunque altra sostanza;
- commettere atti ritenuti potenzialmente pericolosi per sé stesso e\o per altri.
 
E’ presente una penale riconoscibile come reato per qualsiasi violazione di suddette norme.
All’eventuale insorgere di problemi chiami all’istante il contatto di Emergenza del Ravencroft.”
 
La donna che sta parlando meriterebbe tutta l'attenzione dei sette cieli, ma dopo aver capito che una volta usciti di qui è già tanto se potranno respirare senza essere arrestati, c’è ben poco da stare attenti, e la razionalità di Peter si perde nell'attesa.
 Non gli metterò armi da fuoco in mano, non parlerà con nessun altro che non sia io, non si ubriacherà e quindi non cadrà in coma etilico e non fumerà. Questo non basterebbe comunque a fermarlo.
“Se acconsente ad ogni parola firmi qui Signor Parker.”
“Sì, sì.”
Peter vorrebbe solo che lo facessero uscire. Tipo adesso.
“Non appena avranno finito di applicare il localizzatore al Signor Osborn potrete andare.”
Non ci vuole molto. Alle 17.00 precise un ragazzo di vent’anni gli va incontro.
Ci sono uomini con lui, ma alla fine lo lasciano andare. 
“Andiamo” dice Peter, soltanto.
Cammina avanti ed Harry cammina dietro. Sono vicini, ma non abbastanza. Si conoscono, ma non abbastanza. 
Harry non indossa altro che una felpa nera. Il cappuccio gli ricade sulla fronte. 
Non vuole essere riconosciuto. 
E in ogni caso Peter dubita che qualcun altro vedrebbe in lui il ricco e abbagliante figlio di Norman Osborn, giovane erede di un’azienda bilionaria, con la messa in piega perfetta e le lucide scarpe marchiate Versace.
No… ora sono altri i marchi che si porta addosso: botte, caos e il suo odio.
Per un attimo Peter ci crede davvero che avrebbe potuto odiarlo. Così, semplicemente. Come si odia l’autista dell’autobus che fa ritardo; come si odia la professoressa di matematica quando ti mette D; come si odiano i mostri sotto al letto quando da bambino il buio ti fa paura.
“Dove stiamo andando?”
“Cammina.”
Fa un altro passo prima di insistere.
“Vorrei saperlo.”
“Io vorrei che tenessi la bocca chiusa.”
“Rettifico: io voglio saperlo.”
Ah non ve l’ho detto? Harry è la persona più testarda che Peter abbia mai conosciuto. Più di… di lei. Più di suo padre. E suo padre era testardo eh. Penso che devi esserlo quando hai intenzione di trasformare la gente in lucertole giganti pur di salvarti la vita.
Più di Peter. 
Il che è tutto dire.
Per questo si ferma in mezzo al marciapiede, rifiutandosi di fare un altro passo, con quel broncio testo e infantile e quelle labbra di rosa arricciate.Perché è testardo. E orgoglioso. Ed è un fottutissimo maniaco del controllo. E ama gettare i resti della logica in pasto al caos.
“Cammina.”
“Ah-ah.”
“Cammina.”
“No.”
A mali estremi, estremi rimedi. E’ così che si dice no?
Peter sa solo che con mali estremi ci vuole roba forte e mente salda, ossa ferme e nessun passato a fissarti da lontano con i suoi brillanti occhi accusatori.
Ecco perché lui tende a sbagliare.
La sua mano si chiude sul grosso bracciale di plastica e metallo sul polso di Harry, imprimendoglielo sulla pelle. Il localizzatore.
“E io ho detto: cammina.”
“Che... merda lasciami!”
Peter ubbidisce. Ma a metà, perché continua a tenerlo. Continua a scaldarsi. Continua a tirarlo senza delicatezza,
“Ora non c’è la tua scintillante armatura verde smeraldo a pararti i colpi, eh?”
La voce è più rabbiosa, gratta al suolo come gli artigli affilati di un gatto rosso su un divano di cristallo verde.
Lo lascia, si volta, per Peter la conversazione é finita e…
“Credi davvero abbia bisogno di un’ armatura per ferirti? A me non serve una maschera per essere coraggioso, Peter.” e Peter continua a dargli le spalle. 
Non osa. Non si volta. Se osasse anche solo guardarlo sarebbe la fine. Peter vedrebbe trionfo e rancore nei lineamenti di Harry ed Harry vedrebbe dolore ed incubi in quelli di Peter e Peter, diamine, non può permetterselo.
“Di qui." il più piccolo entra in un vicolo.
E’ abbastanza buio, è abbastanza grande. 
Harry lo segue senza obbiettare, ma solo perché è fuori di prigione dopo 6 mesi ed è momentaneamente troppo stanco per reagire. 
Momentaneamente.
Può farcela. 
“Non è Montecarlo…” l'ironico sarcasmo dell'altro si guarda intorno, “ma potrei abituarmici. Cosa devi dirmi?”
“Aspetta, non qui.”
è spazientito. “Sei tu che mi hai portat—“
Sempre più in alto, i grattacieli fanno a gara col sole per il monopolio del cielo, e nessuno dei due può fare a gara con Peter.
L’ultima ragnatela si spezza sul tetto della NY Times Building. 
New York s’nchina ai loro piedi.
“Qui.”
Lo tiene ancora per la vita quando poggiano i piedi sul tetto del mondo. 
Probabilmente lo sta stringendo troppo, Harry ha il respiro mozzo e la voglia di prenderlo a calci.
Questo non lo dice né lo da a vedere, ma non potrebbe essere altrimenti. Lo lascia andare.
“Che ti succede? Volavi con tanta disinvoltura su quell’aeroplano in miniatura..”
“E’ un aliante e sì, lo sono, quando guido io.” borbotta scuotendo il capo. “Chi ti ha dato la patente…”
Solo adesso se ne accorge Peter, con la luce del tramonto negli occhi e il vento fra le ossa, di quanto Harry sia stanco. Ombre nere sugli zigomi e piccoli tagli rossi sul collo. Capelli spettinati e indomiti sulla fronte chiara, labbro spaccato e occhi assenti, quasi come se nulla potesse più interessargli. 
Questo è un lato di lui che Peter non aveva mai visto, ma d’altronde sono successe cose che non erano mai successe.
Quando il corso degli eventi decide di prendersi gioco di te devi affilare coltelli che avevi giurato di non impugnare mai.
“Non è Monte Carlo… ma peso che possa andar bene comunque.” 
L'Uomo Ragno imita il suo sarcasmo e si siede, non saprebbe dire se accanto a lui o no. Ma non vuole toccarlo. 
“E ora che abbiamo anche la location perfetta puoi, in nome di Dio, dire quello che devi dire? Stai per chiedermi di sposarti?”
“Qualcosa di molto peggio.” Il localizzatore ticchetta come une bestia addormentata.
“Come ho detto ieri, voglio fare un patto con te. Anzi non voglio… devo, perché tu hai bisogno di me e... io ho bisogno di te.”
Il ragazzo più grande osserva in silenzio il suo interlocutore, con quel suo fare inquisitore, con il luccichio negli occhi di chi ha il mondo in mano, nonostante tutto e dopotutto. 
Ma come fa?
“A costo di far sembrare tutto un grande deja-vu devo chiederlo.” Si schiarisce la voce come se dovesse dire qualcosa di molto importante. In un film starebbe per dire la battuta che racchiude tutta la storia. “Tu hai bisogno di me?”
So già dove vuole andare a parare. “Del tuo aiuto, s’intende.” Peter si difende.
“Hai bisogno del mio aiuto, quindi hai bisogno di me. E ciò comporta un mio interesse alla questione… o sbaglio?”
“Hai interesse nell’uscire dal Ravencroft?”
“Sì.”
“Eccolo trovato.”
Sbatte le palpebre. Le ciglia si toccano.
“Tu puoi farmi uscire di lì?”
“In cinque giorni. Quattro se non fai cazzate.”
Il vento diventa gelido sulla cima più alta, la diffidenza di Harry è palpabile nel riflesso ombroso delle nuvole.
“Ho avvocati eccezionali dalla mia, potrei comunque uscire—“
“Ah lo so che potresti… ma che dico, puoi... ma in quattro giorni?”
Neanche lui può negare che niente conta di più della libertà di andarsene in giro nelle sue macchine di prima classe e stare seduto nell’ufficio vetrato del grattacielo che porta il suo nome e bersi quante bottiglie di Cognac vuole. Niente conta di più della libertà… e della vendetta. 
Per Harry Osborn la vendetta ha avuto un valore più alto della libertà.
“D’accordo... supponiamo che sia interessato. Tu cosa vuoi in cambio?”
“E’ un patto, quindi io do a te e tu dai a me. Quello che voglio io da te e che tu torni ad essere il capo della Oscorp.” Peter si ferma un attimo, giusto il tempo di adocchiare l’immensa torre difronte a loro E’ così alta che solo a guardarla gli viene la nausea. E le vertigini. “Quindi ti sto chiedendo... semplicemente... di tornare ad essere Harry Osborn.”
So che “semplicemente” non è il vocabolo più adatto, che è tutto meno che semplice, che la sua scelta lessicale non è delle migliori, ma mentre Spiderman è quello audace e sfrontato che si butta dai palazzi di New York (e sottolineo: i palazzi di New York) Peter Parker non vuole pensare al domani, e a quanto tutto questo sarà difficile. 
Il ragazzo che un tempo era il suo migliore amico lo osserva con due occhi così azzurri che sembrano uno scherzo della sera o di una qualche magnetica illusione ottica; probabilmente è colpa delle occhiaie che gli stanno mangiando la pelle o del pallore eccessivo, ma non sono mai stati così azzurri. 
Fino ad ora.
Non risponderà, sta valutando la questione, ed evidentemente non lo convince.
“E voglio questo… perché nella Oscorp e con la Oscorp stanno accadendo cose strane… sospette. Gente che scompare, ricerche occultate... Nasconde più di quello che sappiamo, e i fatti insoliti che stanno capitando, ci scommetto le mie ragnatele, derivano tutte da lì. Nessuno sa far sparire le persone meglio della Oscorp.”
Perché Harry lo sta guardando come se fosse un povero scemo?
“Cosa scommetti..? Okay e io cosa dovrei scommettere, il mio Aliante?”
“Aspetta, stai parlando del piccolo aeroplano… vero?”
Doveva aspettarselo che avrebbe alzato gli occhi al cielo. L’ha sempre fatto in risposta al suo essere… Peter. Ma dopo sorrideva. Sorrideva sempre, alla sua goffagine, alla sua seplice voglia di vivere al massimo delle sue capacità, all'umile timidezza di chi ha una bufera dentro ma agli altri dona sempre il sole. Gli sorrideva Harry, con quel fare indulgente e amabile, come quel sorriso alla Osborn. 
Adesso non sembra sappia più come si faccia a sorridere.
“Sono dentro per omicidio Parker. Come posso tornare ad essere uno degli uomini più importanti della ricerca scientifica mondiale se—“
“Farò sparire le prove.” butta lì Peter prima che lui stesso possa fermarsi. Tirandosi un pugno in testa magari. “Tutte. Le nasconderò dove nessuno possa trovarle.”
Peter Parker non ricorda bene quando è giunto a questa conclusione: se nelle sue continue visite al Cimitero Centrale o nel letto, sveglio e sudato dopo uno dei suoi ormai amichevoli incubi notturni di una figura sfocata e nitida, vicina e lontana che sfoggia il suo ultimo addio in una caduta libera verso la morte. Ma gli era sembrata la soluzione migliore, allora. 
Adesso vorrebbe aver fatto tutto -tutto- ma non questo. Non funzionerà. 
Intendiamoci, è un piano perfetto. Sono loro che non lo sono. 
La sera si affaccia sul tramonto ormai morente. Le stelle non ci sono. 
Sì che ci sono, ma a New York è impossibile scorgerle tranne che in pochi punti che come Spider-man Peter ha scoperto e imparato a memoria. Uno di questi è il grattacielo della Oscorp. L’edificio è così alto che le stelle non solo ci sono, ma ti sbattono negli occhi ed è… meraviglioso. 
Non si rende conto che Harry si è alzato fino a quando non lo vede già in piedi, a parlare con una delle sue mille voci, questa volta un suono basso e ambiguo.
“E tu faresti questo perché…”
“Perché, come ho già detto, mi serve Harry Osborn.”
“E se io ti tradissi?”
“Ti farei sbattere di nuovo dentro, e se ciò non bastasse, ti ucciderei.”
Fa un passo indietro, si alza anche Peter. Lo conosce troppo bene. Adesso, lo conosce per davvero. Sa fin dove arriverebbe per raggiungere i suoi scopi.
Harry Osborn sarebbe disposto ad uccidere pur di provare di avere ragione.
O peggio.
“Tu non mi uccideresti...”
Un passo indietro e uno avanti. Sembra una danza ma è una guerra.
“Tu non mi ucciderai.”
“Smettila..”
“So chi sei Peter Parker…”
“Harry.”
“E per tua sfortuna… lo sa anche lui.
E si lascia cadere.
Così.
Lascia che le sue gambe sprofondino nel vuoto oltre il cornicione. La gravità vince per un secondo prima che i riflessi del ragno vincano su tutto il resto. 
Le ragnatele lo portano da lui, sono mani traslucide che lo afferrano per un braccio, rapide e insaziabili. Il cappuccio cade indietro quando cozza contro di lui. Il cuore gli sbatte contro il collo. Quello di Peter è finito da qualche parte nelle gengive. 
Ma se Harry sapeva che Peter lo avrebbe afferrato e Peter sapeva che ci sarebbe riuscito, allora perché diamine sbattono così? 
Un braccio stringe la vita dell'altro. E’ sottile. Più di quel che Peter si sarebbe aspettato, e le labbra sono screpolate ma del colore dell’uva fresca nella penombra, e la carne della guancia destra è tranciata da una cicatrice provocata da un ingranaggio spaccatosi nella Torre dell’Orologio nella notte in cui il tempo si è spaccato. 
E sembra quasi che il suo ex- migliore amico si stia spaccando pure fra le le sue braccia.
Ma poi Peter gli guarda gli occhi, e Times Quare sembra una stanza da letto buia al confronto. 
E Peter sa che il suo ex- migliore amico non può spaccarsi fra le sue braccia perché lui è Harry Osborn, e potrebbe morire, ma non spaccarsi.
Potrebbe spegnersi tutto a un tratto ma non smettere di sfolgorare.
E se non avesse avuto davanti, a colpo di respiro, le sue labbra da bambola avrebbe capito che c’era qualcosa che non andava, che la sua voce era… difficile, simile a unghie appuntite su una lavagna arrugginita dal tempo, e che i suoi occhi non avevano abbandonato quelli di Peter neanche quando lui aveva abbandonato lo sguardo da qualche parte fra il mento e il labbro superiore di Harry.
Peter avrebbe capito che c’era qualcosa che non andava da come Harry non sbatteva le palpebre, dal respiro sottile e silenzioso di un ladro in una banca blindata, dagli occhi improvvisamente soddisfatti.
Ma aveva quelle labbra davanti e Peter non capì niente, niente, di tutto questo.
“Devo portarti indietro.”
Ammette soltanto, allontanandosi con una sorta di fredda malinconia sulle fronde giovani del suo volto mai troppo adulto.
“Sì, devi.”
Risponde l'altro, senza muoversi. Senza facilitargli le cose. Senza smettere di avere le luci della città riflesse negli occhi.
È solo Settembre. Settembre e la sua malinconia e i suoi ricordi e le sue luci.
Harry sente nuovamente una presa forte cingergli la vita, e lui si lascia avvicinare, docilmente. Ma è teso, Peter lo sente dalla rigidità della schiena. Può avvertire l’osso dell’anca sui polpastrelli.
“Potrebbe essere un grosso errore Spider-man…”
Il cielo lo sente sussurrare. Sulla lingua di Harry sa come un dato di fatto, come la rovina di un impero.
“Allora lascia che sia Peter Parker a farlo.”
Scendono giù senza guardarsi, mentre il cielo minaccia di crollare loro addosso.
  
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