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Autore: Shomer    02/02/2009    8 recensioni
«E poi è morto, sai, sul letto, proprio lì. E c’erano le luci e la televisione accesa. Sì, mi ricordo bene, era sul letto, quello che gli avevo preparato io, con le luci e la televisione. Proprio lì.»
«Lo rifaresti?» «Mille volte. Lo rifarei anche se le mie spalle non fossero più capaci di portare un tale peso.»
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dedicata al mio più caro amico.


Bianco

Il bianco era accecante. Sembrava che si espandesse sempre più e mi trascinasse dentro di lui. Pensai di esserci riuscita. Pensai che avrei rivisto gli occhi di Derek una volta ancora e poi l’avrei salutato. Pensai a tutte le cose che avevo ancora da dirgli: che mi dispiaceva di non essere stata in grado di aiutarlo, che ci saremmo rivisti quando mi sarei sentita pronta e poi che l’amavo e l’avrei sempre amato.
Non gli dissi niente di tutto questo. Non vidi Derek, neanche per un attimo. Cercai i suoi occhi nel bianco accecante, ma non c’erano. Iniziai a sentire il rumore di una macchina, di ingranaggi che si muovono. Immaginai di sentire il rumore di una rotella che saltava e lo paragonai al rumore che aveva fatto la mia rotella nel mio cervello, quando era saltata, tanto tempo prima.
Piano piano il bianco scomparve. Iniziai a distinguere gli oggetti e le persone nella stanza. Pensai che ero viva. Volevo piangere.
Ero sdraiata in un lettino stretto e distinguevo chiaramente la sagoma di mia madre troppo lontana da me. Quando si accorse che ero sveglia la sua espressione non cambiò di una virgola.
La sagoma sottile di mia madre era inquietante e non aveva niente che facesse anche solo lontanamente pensare che potesse crescere dei figli. Le sue labbra strette e i suoi occhi chiari mi facevano paura.
Lei era bellissima e la sua intelligenza era brillante. Avevo sempre desiderato essere come lei e avevo sempre desiderato che lei fosse orgogliosa di me. Non ero mai stata accontentata.
«Ciao» mormorai. Mia madre non rispose. «Sono sveglia.»
«Lo so.»
«Sto bene.»
«Me l’ha detto l’infermiere.»
Mia madre era composta e sembrava un grande pezzo di ghiaccio. Mi accorsi che era stranamente bianca. Molto, molto più bianca del solito. Mi chiesi se fosse stata in pena per me. Se avesse avuto paura che non tornassi. Mi diedi mentalmente della stupida. Ero sempre stata convinta che mia madre non provasse sentimenti, che avesse sposato mio padre solo perché, di solito, la gente si sposa, e che avesse avuto me solo perché, di solito, la gente ha figli.
Quando vidi il suo viso che combatteva furiosamente, pur restando immobile, contro qualcosa – una lacrima, forse – pensai di essere impazzita, e rischiai seriamente di svenire.
«Non sei felice, bambina mia. Non lo sei mai stata. Mi dispiace.»
Deglutii. Aprii un paio di volte la bocca senza riuscire a rispondere. Poi ce la feci.
«Lo ero, giuro che lo ero. Anche se dicevi continuamente che stavo sbagliando. Mi faceva stare male, ma allo stesso tempo non m’importava. Capisci? E’ strano, ma è così.»
«Capisco.»
«Non è colpa tua, mamma, ma neanche colpa mia. Spesso però pensavo che tu non volessi per me tutta quella felicità, e ti odiavo.»
Mia madre sorrise. Probabilmente fu l’unica volta che la vidi sorridere con un sorriso sincero.
«Sbagliavi» disse. «Io non avrei mai voluto vederti distesa in un lettino di ospedale, come adesso. Lui non era quello giusto per te, bambina mia. Non lo sai? La felicità, quando è troppa, crolla. E’ impossibile raccoglierne i frammenti, poi. Pensi che ne valga la pena?»
«Non lo so, mamma.»
«Vuoi dirmi cos’è successo?»
«Ero andata a portargli le medicine. Me l’aveva detto lo zio, di portargli quelle. Roba per aiutarlo a disintossicarsi. Non voleva andare in nessuna clinica, Derek, ti ricordi?»
«Sì, mi ricordo.»
«La sua casa l’avevo pulita io quella mattina stessa, però non profumava più. Era esattamente come il giorno prima. Pensavo di averlo sognato, sai, e di non averla mai pulita, in realtà. Il pavimento della sua stanza era tutto sporco e c’erano macchie di sangue, aghi, pezzetti di carta... lui era sdraiato sul letto e mi fissava.»
«E poi?»
«E poi è morto, sai, sul letto, proprio lì. E c’erano le luci e la televisione accesa. Sì, mi ricordo bene, era sul letto, quello che gli avevo preparato io, con le luci e la televisione. Proprio lì.»
Mia madre mi guardò e compresi subito ciò che volesse dire il suo sguardo.
«No, no, era proprio morto. Sono brava con queste cose, sai? L’ho sentito, che non respirava. E il suo cuore non batteva. Poi gli ho chiuso gli occhi. Erano così bianchi... Più bianchi, molto più bianchi del solito. Te li ricordi, no, com’erano bianchi i suoi occhi.»
«Lo ricordo.»
«Però non brillavano più, e io volevo vederli brillare ancora una volta. Come prima. E ho chiuso anche i miei. Qualcuno verrà a salvarmi, ho pensato. Non volevo veramente seguirlo. Volevo vederlo solo un altro po’. Non volevo veramente morire.»
Mia madre sospirò e sembrò che stesse inghiottendo tutta l’aria nella stanza. Per un attimo mi sentii soffocare, poi pensai che era impossibile, e che l’aria c’era ancora.
Ricominciai a respirare regolarmente e mi chiesi come apparivo alla gente che passava fuori, davanti alla stanza dell’ospedale con delle vetrate al posto dei muri, le tendine non tirate e quel letto minuscolo in cui io stavo raggomitolata a sperare che, per favore, tutto finisse presto e che mia madre rimanesse lì, e magari che mi abbracciasse per sempre, per l’eternità, e mi dicesse che andava tutto bene e che ero ancora la sua bambina con le trecce bionde e le ginocchia sporche di fango.
Poi mia madre parlò ed ebbi l’impulso di strozzarla. Pensai che tanto eravamo in un ospedale, e che quindi non sarebbe morta.
«Te l’avevo detto.»
«Lo so, lo so mamma, me l’avevi detto, avevi ragione, hai sempre avuto ragione, ma non è colpa mia, capisci? Non è colpa mia.»
Mia madre sospirò e poi si alzò. Mentre parlava all’infermiere con un eleganza che le avevo sempre invidiato, presi lo specchio dal comodino e vi cercai la mia immagine riflessa. Non la trovai. Quello che vedevo era solo una sagoma sbiadita con la pelle chiarissima, una fata che piangeva perché la strega aveva appena mangiato un altro bambino. Non avrei voluto essere la fata. Avrei voluto essere la strega che rideva chiedendosi quale sarebbe stata la sua prossima vittima. Una ragazza senza sentimenti, una persona vuota che non avrebbe mai pianto, ma avrebbe riso senza sapere cosa fosse una risata. Avrei voluto essere cattiva per non soffrire, ma ogni tanto mi chiedevo se il gioco valesse la candela. Nonostante dire addio alla sofferenza sia facile, non lo è altrettanto dire addio alla felicità. Volevo essere come mia madre, ma allo stesso tempo volevo rimanere me stessa. Non riuscivo a scegliere quale delle due opzioni fosse la migliore e mi disperavo cercando di capire perché la felicità e la sofferenza dovessero andare di pari passo.
In quel momento capii di aver definitivamente perso me stessa, e riposi lo specchio sul comodino.
Mi chiesi cosa avrebbe fatto Derek al posto mio. Non trovai una risposta.
Mi chiesi come mi sarei comportata cinque anni prima.
Mia madre tornò a sedersi di fianco al letto e mi disse che dovevo restare in ospedale per un po’. Disse che mi avrebbero ricoverato in una clinica e avrei seguito dei programmi di recupero. Dopotutto, avevo tentato il suicidio. Stronzate. Volevo soltanto rivedere Derek per un po’.
«Lo rifaresti?»
Probabilmente non avrebbe dovuto chiedermelo. Era passata poco più di un’ora dal mio risveglio, e non ci avevo ancora pensato. Non ci avevo pensato neanche prima. Nel lasso di tempo in cui avevo chiuso gli occhi di Derek, chiamato l’ambulanza e inghiottito le pillole che mio zio mi aveva dato, non avevo mai pensato neanche solo un attimo che non avrebbe funzionato. Ero assolutamente sicura di rivedere i suoi occhi, solo per un po’. In quel momento la consapevolezza di non rivederlo mai più mi strinse come un serpente e si avvicinò cautamente per mordermi. Non potevo sopportarlo. Mandai mentalmente al diavolo la fata e la strega. C’era ancora tempo per decidere da quale parte stare, c’era ancora tempo per decidere se essere me o essere mia madre. O, ancora, essere come mia madre mi avrebbe voluto.
«Mille volte. Lo rifarei anche se le mie spalle non fossero più capaci di portare un tale peso.»

Sono passati due anni. Sono entrata e uscita da studi psichiatrici, ho frequentato diligentemente la terapia e finto di prendere tutti i farmaci che mi hanno prescritto. Ho raccontato la mia vita a qualcuno che prendeva appunti e ho finto di ridere per una battuta neanche lontanamente divertente. Ho pianto nonostante non mi sentissi triste.
Mi guardo allo specchio e non vedo niente. Ho già chiamato l’ambulanza. Questa volta funzionerà.
Non ho ancora deciso da che parte stare. Lo farò dopo.















*****
Spazio Autore

Come ho ripetuto fino alla nausea prima di pubblicare questa cosa, è la mia prima originale, e sono emozionata. Non credo sia un buon lavoro, comunque. Non so cosa di preciso nella mia testa mi abbia spinta ad abbandonare anche solo per un attimo i fandom di Bleach e Naruto per scrivere questa schifezzuola ma, in ogni caso, grazie, qualunque cosa tu sia.
Vorrei i vostri pareri, vorrei sapere se continuare o se lasciar perdere le originali e tornare a Sakura che piange disperatamente perché Sasuke l’ha mollata mentre Naruto si riempie di ramen.
Una cosa, però, la devo dire: se ho scritto questa storia, l’ho scritta per te, che hai rotto tanto affinché scrivessi qualcosa di mio.
Anche se probabilmente non te la farò mai leggere. Grazie, grazie, grazie.

   
 
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