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Autore: justhevidence    26/08/2015    5 recensioni
[Tsugumi ]
La storia nasce come interpretazione di un passaggio del libro "Tsugumi" dal punto di vista di un altro personaggio.
Dal testo: E se dovessi peggiorare e addormentarmi per sempre? Sarebbe successo. Era l’amara condizione in cui viveva, quell’incertezza. Quel continuo camminare in punta di piedi su cocci di vasi in frantumi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Quando la pioggia odora di sale.
 
 
Erano passati diversi minuti da quando Maria aveva lasciato la sua stanza, fingendo di non aver prestato attenzione alle sue futili richieste.
Il ticchettio delle gocce piovane sulle finestre della pensione scandiva ogni secondo e, man mano queste procedevano nella loro ritmica danza, Tsugumi combatteva febbricante sotto il chiaro lenzuolo che la copriva, raggomitolata nel suo futon.
In giornate come quelle, ne era certa, così colmi di nulla fare e vocii sommessi, i gomitoli di pensieri di ogni uomo, donna, bambino e forse addirittura animale iniziavano pian piano a srotolarsi, sciogliendo dolcemente i malinconici nodi lasciati da passato.
Doveva essere per forza così.
E poi, come onde di un mare in tempesta, tanto velocemente come erano giunti a riva si facevano trasportare nuovamente a largo, per dissolversi nella loro forma naturale. Impalpabili come l’acqua.
La bravata della sera precedente con Maria – se intrufolarsi sul tetto della pensione Yamamoto, residenza appartenente alla loro famiglia, a notte fonda poteva considerarsi tale – le era costata diverse linee di febbre. D’altronde, il suo debole fisico si era sempre dimostrato succube del gran peso della sua apparentemente avventata ed impulsiva personalità, tanto che spesso si era scoperta a domandarsi come fosse possibile che lei fosse ancora lì, tra i vivi, a respirare a stento.
In quella giornata uggiosa si era rifiutata categoricamente di avere un qualunque contatto con i membri della sua famiglia. Solamente Maria, sua cugina, era riuscita a farsi strada nella tempesta incalzante che era stata Tsugumi, guadagnandosi una breve chiacchierata in cui quest’ultima l’aveva chiamata a se e, scoprendo che stava per recarsi in libreria, aveva iniziato a stilare una lunga lista di cose che avrebbe voluto le venisse portata.
Avrebbe potuto continuare all’infinito, dando vita ad un’innumerevole quantità di cibi e bevande che, in fin dei conti, non avrebbe nemmeno consumato – le sue forze non glielo avrebbero permesso – pur di guadagnare un minuto, anche solo un secondo, con l’unica persona con cui avrebbe gradito passare del tempo. Perché, in fin dei conti, era proprio quello che le mancava: il tempo.
Non poteva mai avere la certezza di averne abbastanza a sua disposizione per concedersi di non fermare la cugina mentre sgattaiolava fuori, diretta al centro del paese.
E se dovessi peggiorare e addormentarmi per sempre?
Sarebbe successo. Era l’amara condizione in cui viveva, quell’incertezza. Quel continuo camminare in punta di piedi su cocci di vasi in frantumi.
E da quando Maria si era trasferita a Tokyo con i suoi genitori per iniziare i suoi studi all’università, la sua mancanza alla pensione – assieme a quella frustrante sensazione – si era trasformata in un enorme fardello, almeno per Tsugumi, e si era fatta sentire sempre di più.
Era diventata, dunque, sua unica responsabilità quella di portare Pochi a passeggiare in riva al mare e anche lui dava a dimostrare la malinconica mancanza di una terza figura, nelle loro serate al profumo di salsedine.
Alcune sere, la tristezza si faceva talmente profonda ed insostenibile che l’esile ragazza trascinava a forza il cane dei vicini fino alla piccola casetta in legno usata da lei e sua cugina ai tempi dell’infanzia, la loro “Posta degli Spiriti”, a dispetto di qualunque condizione climatica o fisica tentasse di ostacolarla.
Lì, sedeva per lungo tempo e parlava. A volte scriveva persino delle lettere che, con cura, imbustava e sigillava. Entrambi questi riti non avevano destinatario, ma in sé, a Tsugumi piaceva immaginare che, magari in un brivido, in un battito di ciglia o in un fugace tocco di uno sconosciuto sul tram, Maria la sentisse vicina. Che ricordasse d’un tratto del legame che cingeva le loro vite assieme, com’era sempre stato.
Quando, però, si ritrovava faccia a faccia con quei grandi occhi scuri, non poteva fare a meno di ergere un grande muro, a tratti crepato, di fare scontroso. Quasi a cercare di limitare la cagionevolezza del suo corpo con una fortezza fittizia del carattere che, purtroppo per lei, non le apparteneva.
Il suo turbinare smanioso in quei pensieri si era appena fatto simile ad una dispersione consapevole e senza resistenza ad una forza maggiore, che l’abbaiare grave di Pochi la interruppe bruscamente, costringendola ad alzarsi controvoglia e raggiungere la finestra.
In una sorta di sorpresa iniziale, che prese poi a mutare in pura ansia, la ragazza si accorse che la cugina stava facendo ritorno. Al suo fianco, una figura mascolina slanciata sorreggeva una borsa della spesa resa bitorzoluta dal contenuto.
Si scoprì tremante nel momento in cui riconobbe il ragazzo.
Era Kyoichi, il giovane ragazzo che avevano incontrato giorni prima sul bagnasciuga e che, per pura coincidenza, la sera prima Tsugumi aveva scorto a passeggio nei pressi della pensione.
Rapidamente le fluirono alla mente le parole che aveva gridato lui dall’alto della terrazza.
“Era giorni che speravo di incontrarti. Ti va di rivederci?”
Le era risultato talmente spontaneo che, nell’attendere la risposta, si era pentita di quel suo comportamento poco signorile nei confronti di un uomo. Impressione che, anche dopo la riposta positiva di quest’ultimo, non era certo svanita nel vento.
Corse repentinamente davanti allo specchio della toletta, ma pregò di non averlo fatto.
I capelli erano spettinati e appiccicosi del sudore febbrile, gli occhi circondati da aloni scuri di lotte notturne tra dolori e insonnie, la pelle così sottile da rivelare ogni piccola vena violacea.
Si stropicciò le palpebre e si pizzicò le guance, sperando in un po’ di collaborazione da parte della sua pelle, nella ricerca di un colorito più sano. Il suo sospiro rassegnato echeggiò nella stanza, illuminata soltanto dalla flebile luce pomeridiana ovattata dalle nuvole color ardesia.
Non poteva presentarsi in quel modo, non se lo sarebbe mai permessa. Così, prese a camminare velocemente, nel modo più silenzioso che poteva, verso l’unico posto in cui, pensò, nessuno sarebbe stato capace di trovarla.
Aprì la porta finestra e si intrufolò agilmente tra il pavimento dello stenditoio e il tetto del terzo piano, com’era abituata da bambina, quando giocava a nascondino.
Il rumore del grande portone di legno d’entrata la raggiunse, seguito dalla voce gioiosa di Maria e Kyoichi in saluto.
Poi, sentì il rimbombare dei passi di entrambi in direzione della sua camera da letto e lo strusciare tra pavimento e soffitto del fusuma.
“Tsugumi, hai ospiti!”
Si strinse le ginocchia al petto.
Maria era sempre stata una figura riflessiva, perché diavolo aveva portato Kyoichi con se? Tsugumi si chiese se davvero sperava che farsi trovare in condizioni simili da un ragazzo che, per di più, le piaceva, le avrebbe fatto piacere.
La pioggia, fredda e odorosa di sale, aveva iniziato a farsi strada dai suoi capelli corvini alla sua nuca, giù per la spina dorsale, fino ad infradiciarla del tutto.
La differenza di temperatura tra il suo corpo e quelle piccole perle argentee le fece temere che, se si fosse trattenuta in quel luogo ancora per molto, il contatto tra esse avrebbe provocato la vaporizzazione delle ultime.
Maria è una stupida, non avrebbe dovuto farlo. Se Kyoichi mi trova conciata così non vorrà mai più rivedermi. E lei cercherebbe di convincerlo che ne vale la pena. Sarebbe una scena penosa.
Ed eccola lì, mattone dopo mattone, la parete riprendeva a formarsi, incentivata dal vociare preoccupato di sua madre, sua cugina e del giovane malcapitato.
Facevano sempre così, se non la trovavano dove avrebbe dovuto essere. Si spaventavano e, come diceva Tsugumi, “davano di matto e preparavano immediatamente il kimono del lutto”. Come se il fatto che lei avesse delle necessità dissociate da quelle fisiche fosse un fattore a loro estraneo.
Chiuse gli occhi.
Un giorno li chiuderai, senza riaprirli più. A quel punto, Kyoichi sarà soltanto un granello di sabbia, parte dell’immensa battigia scura caratteristica di questo paesello di mare. Forse, nemmeno piangerà per te. Povera sciocca, in cosa speravi? E in cosa sperava Maria, poi? 
Tentò di scacciare quelle parole, ma erano più dure e potenti del suo volere.
Li farai soffrire tutti. Tutto questo per colpa tua. Tanto vale farti odiare, così puoi morire in pace. Nessun peso sulla coscienza.
Era ormai abbastanza immersa nel suo dialogo interiore, che non si accorse di una figura che l’aveva raggiunta e stava sbirciando tra le travi.
“Eccola!” la voce di Maria era stravolta.
Tsugumi si costrinse ad alzare il capo, fissando la cugina attraverso una fessura.
“Mi avete scoperta!” disse con fare divertito, sebbene reduce di un gran conflitto.
Rientrata e cambiatasi, scese a prendere del tè con la cugina e Kyoichi, agendo normalmente, come se nulla fosse accaduto. Scoprendosi occasionalmente dell’alta muratura interiore che era ormai di routine.
Sul tavolo, posate ordinatamente, c’erano tutte le sue richieste esaudite.
Mentre sorseggiava la tiepida bevanda matcha dalla piccola tazza in porcellana chiara, sussultò lievemente.
“Tua mamma è davvero buona. Non ti ha sgridata per niente”. Kyoichi teneva le sue iridi color caffè fisse verso il suo viso.
Pregò di non arrossire, ma si lasciò sfuggire un lieve sorrisetto spavaldo.
“Sai” rispose, “il suo amore nei miei confronti è più profondo del mare.”
Si rese conto che, per Maria, quell’affermazione poteva essere sembrata una bugia ma, nel profondo, lei era consapevole che fosse veritiera.
Tutti, in quella famiglia, l’amavano incondizionatamente. A dispetto di tutto. E magari, un giorno, anche Kyoichi avrebbe provato per lei quel genere di affetto e avrebbe alleviato, forse notevolmente, forse in piccola parte, quel pesante fardello che Tsugumi avrebbe definito “essere Tsugumi”.
 
 
 
 
“L’amore è una battaglia: 
non si possono rivelare i propri punti deboli,
 nemmeno alla fine”.
– Banana Yoshimoto, Tsugumi.
 
 
|One-Shot, 1511 words|
 
 
Author’s Corner:
Salve a tutti, cari lettori.
In questo trafiletto, oggi non ho molto da dire. Ho iniziato da poco il libro “Tsugumi” dell’autrice giapponese Banana Yoshimoto – consigliatami da diverse persone della mia famiglia – e me ne sono subito innamorata. Ho riscontrato un modo di scrivere lievemente differente da quello che conosco nella scrittura occidentale e questo mi ha intrigata molto, soprattutto l’uso davvero frequente di similitudini e metafore legate a elementi naturali, tanto che ho deciso di scrivere questa One-Shot proprio mentre leggevo il libro. Le parole hanno iniziato a raggiungermi a flotte, non ho proprio potuto tenerle a bada!
A differenza del libro, la cui voce narrante è Maria e dunque ogni descrizione e situazione è raccontata dal suo punto di vista, ho deciso di immedesimarmi nella fragile Tsugumi, raccontando un evento descritto a grandi linee nel libro, considerando il suo punto di vista.
Detto questo, spero che ciò che ho scritto vi piaccia!
Vi ringrazio per la lettura,
a presto,
 
justhevidence.
  
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