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Autore: __DearHeart__    26/08/2015    1 recensioni
Ci fu un attimo di silenzio, poi si udì la voce flebile e debole del riccio:"Anche tu te ne andrai. Perché dovresti essere diverso dagli altri?"
Calum fece un altro passo avanti, adesso solo un metro a distanziarlo da Ashton, "Perché ti amo."
 
[Cashton]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood
Note: Otherverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Faceva caldo.

Non un caldo afoso, arido, insopportabile, asfissiante. Era un caldo umido, generato dai respiri ammassati delle persone che affolavano la casa, dai movimenti dei loro corpi, dal sudore sulle loro pelli, dall'atmosfera generale che si respirava in ogni angolo di pavimento.

 

Non aveva senso. Aveva smesso di averlo dopo il sesto bicchiere di tequila pieno fino all'orlo.

Tutto ruotava, rimbombava forte, ma allo stesso tempo era come se fosse lontano anni luce.

C'era odore di alcool ed ormoni, e faceva fottutamente caldo.

Ashton avrebbe voluto strapparsi quella camicia di dosso, o gettarsi in una vasca piena di cubetti di ghiaccio, ma il briciolo di razionalità che gli restava, assieme alla sua coscienza, gli stava sussurrando di non farlo.

 

C'erano pelli, bicchieri di plastica, odori forti e quello strato subdolo ed impenetrabile di calore, attaccato alle spalle e alle clavicole come una membrana invisibile, come un velo che ricopriva ogni stanza di quella casa.

C'era il basso pulsante della musica, il pavimento che sembrava scosso da mille tonfi, uno dopo l'altro, che solleticavano le piante dei piedi di Ashton, risalendo per i suoi polpacci, fino a raggiungere il cervello.

Ed aveva caldo, troppo caldo.

 

Si sentiva soffocare, non respirava più, era insensibile per colpa delle troppe emozioni che affollavano il suo petto, e si sentiva scoppiare.

Non aveva voce, non aveva fiato, non aveva nulla.

Non si sentiva le dita, né le piante dei piedi, o la testa che pesava sulle spalle. Era vuoto e strabordante allo stesso tempo.

 

Era la sera di Capodanno. Tra esattamente un'ora e un quarto sarebbe inziato un nuovo anno, e tutti erano su di giri, ma Ashton non ne capiva il motivo.

Si sentiva solo stanco. Stanco di tutto: di quel caldo morente, della musica che lo stordiva, del drink che continuava a sorseggiare senza recepirne veramente il sapore.

La gente sembrava euforica, emozionata, felice. Vedeva i sorrisi sui loro volti, il modo disinvolto in cui ballavano, le chiacchiere animate che facevano tra di loro.

Ma lui non riusciva a muoversi, a respirare, a collegare gli impulsi che inviava il cervello con i muscoli del corpo.

Era immobile, appoggiato ad una parete sudicia, senza la forza per camminare, senza aria da inalare.

 

Doveva uscire da quel posto, doveva andarsene immediatamente.

Si staccò con fatica dalla parete e si trascinò barcollando tra la massa di gente, fino ad appoggiarsi con una mano tremante allo stipite della porta che dava sulla strada, l'uscita del locale.

Si piegò leggermente su se stesso, sorreggendosi la testa pulsante con una mano, mentre l'altra si stringeva con disperazione alla maniglia che doveva spingere per aprire la porta.

Non aveva la forza neppure per fare quello.

 

Si appoggiò di peso alla barriera che lo separava dalla libertà, e rischiò di cadere a terra quando essa si aprì con uno scricchiolio acuto e fastidioso.

Sbuffò, traballando sulle sue gambe, nel tentativo di rimettersi in piedi e di camminare.

 

Sapeva cosa doveva fare, sapeva dove doveva andare.

Era da più di una settimana che ci stava pensando, che ci rifletteva giorno e notte, che non dormiva per rielaborare se quella fosse davvero la scelta giusta.

Ed era arrivato alla conclusione che sì, lo era.

 

Si tirò su con uno sforzo e costrinse i quadricipiti a contrarsi a dovere, per portarlo settecento metri più avanti, ad Archway Tower.

 

Il contrasto tra l'interno rovente del locale e la neve che cadeva lentamente per le strade di Londra, con una leggerezza invidiabile per le gambe gonfie di Ashton, era quasi insopportabile.

Non aveva con sé un giubbotto, bensì indossava solamente la sua felpa nera con sotto una maglietta degli Spliknot e dei jeans stretti, così stretti da non far passare il sangue.

Ma non aveva freddo. Non riusciva a percepire neppure quello sulla pelle, neppure i fiocchi di neve candidi che gli si posavano sopra leggiadri.

 

Le palpebre erano pesanti, gli occhi probabilmente arrossati, e le labbra così screpolate che riusciva a sentirle pizzicare ogni volta che sfregavano tra loro.

Si strinse le braccia al petto e fece gli ultimi passi, prima di fermarsi sotto all'immenso edificio che aveva davanti.

 

Archway Tower misurava una sessantina di metri da terra. Le sue numerose finestre appartenevano agli uffici che vi risiedevano, e la sua sagoma era così oscura e svettante che metteva inquietudine anche solamente osservandola.

Ashton sollevò il capo e fissò la cima, così lontana ed indistinta, i contorni sfocati e distratti.

Dalle sue labbra fuoriuscì un sospiro tremulo, prima che si dirigesse verso la scala interna senza farsi notare.

 

Il luogo era praticamente deserto, per cui non ebbe problemi ad infiltrarsi e ad arrivare fino in cima.

Lassù faceva ancora più freddo, ma, ancora una volta, Ashton non se ne lamentò.

Le luci erano così scintillanti, belle, migliaia e migliaia di luccicanti puntini indistinti. Il cielo appariva così vicino, insieme al suo colore blu intenso e le delicate nuvole che lo ricoprivano.

Ashton però sapeva che quello fosse solamente un inganno.

Il mondo era fatto così: ti illudeva con la sua bellezza di essere uno spettacolo, un meraviglioso tesoro da ammirare e custodire intrappolato nella retina.

Ti faceva credere che ci fosse tanto da vedere, da scoprire, da amare. Ma poi si rivelava sempre e solo una facciata ingannevole, la copertina accattivante di un libro che aveva una trama disgustosa.

 

Un altro sospiro. Ashton abbassò lo sguardo e lo puntò avanti a sé, verso il cornicione sporgente del palazzo, così ripido da far venire le vertigini anche solo a pensarci.

Fece qualche passo incerto in avanti, fino ad arrivare al bordo più estremo, con le punte dei piedi penzolanti nel vuoto ed il cuore in gola.

 

Aveva deciso di ubriacarsi prima di recarsi lì perché sapeva che non sarebbe stato affatto facile. Neppure con l'alcool nelle vene e il suo stordimento gli appariva semplice, mentre guardava in basso e si sentiva come se fosse sul punto di vomitare tutto ciò che aveva ingurgitato, compresa l'anima.

Dio, aveva così tanta paura.

Ma non voleva tornare indietro, non voleva scendere da quel palazzo. O meglio, voleva farlo, ma senza usare le stesse scale da cui era salito.

 

Non aveva più senso continuare. La sua vita era andata precipitando giorno per giorno, fino a che non lo aveva schiacciato e distrutto, privandolo di ogni cosa.

Si sentiva così frustrato, sbagliato, confuso, complessato, indeciso.

Aveva solo voglia di smettere di pensare a tutto quello, a tutto ciò che non andava, ad ogni singolo evento che era andato storto sin dalla sua nascita.

 

Non sapeva neppure chi incolpare, se il mondo o se stesso. Forse era solamente la successione di una serie di eventi devastanti e compromettenti, o la vita che aveva deciso di prenderlo per il culo dal primo istante in cui aveva aperto gli occhi.

A volte si sentiva così inutile, senza alcun valore, sprecato, usato, disprezzato da ogni persona o cosa che lo circondava.

La sua esistenza traballava, in bilico tra l'odio e la disperazione, così come il suo corpo in cima ad Archway Tower.

Il venticello leggero che si respirava là in cima gli sferzava il volto delicatamente, come se gli stesse lasciando sulle guance una carezza consolatoria, e gli stesse sussurrando che sarebbe andato tutto bene, che avrebbe smesso di soffrire.

 

Ashton voleva davvero smettere, smettere con tutto. Era arrivato a quel limite invalicabile, e che lui era riuscito comunque ad oltrepassare; aveva gettato anni, giorni, ogni singolo istante della sua insulsa vita per degli ideali inesistenti, per dei sogni incendiari e polverosi.

Non aveva senso continuare, restare ancorati a qualcosa di cui si erano perse le tracce già da prima che ce ne rendessimo conto.

Era come inseguire i colori dell'arcobaleno, e poi rendersi ingenuamente conto di non riuscire più a vederli perché scomparsi nella luce tenue del sole che s'irradia.

Ma Ashton aveva fatto uno sforzo e non aveva mollato subito, perché gli appariva così dannatamente necessario continuare, anche se non sapeva più dove andare, anche se la strada era finita e non c'era nessun bivio, anche se era calato il buio e non riusciva più a distinguere dove stesse vagando.

Arrancava, si aggrappava alle superfici di oggetti sconosciuti per non inciampare, con la cieca e vana speranza di riuscire a toccare la mano del destino, l'unico che avrebbe potuto aiutarlo, quella stessa mano che non era riuscito a stringere abbastanza forte per non lasciarla andare via.

E sarebbe volentieri tornato indietro nel tempo, anche solo di un istante, per rendersi conto che le sue dita non c'erano più, che il suo calore non c'era più, che l'essenza a cui aveva vissuto abbracciato si era disintegrata come cristallo al suolo.

 

La fine non è una certezza che possiamo permetterci di avere.

A volte, incombe già su di noi, ma non ce ne rendiamo conto, perché siamo illusi e sciocchi, perché fingiamo di non vedere quella linea netta che sembra tagliare anche noi stessi a metà.

Fingiamo di avere ancora le forze e le speranze necessarie per non gettare tutto al vento, per non scaraventare al suolo ciò che abbiamo costruito con orgoglio e fatica.

E' una questione di dignità, di illusa tristezza, di ingenuo inconscio.

 

Ma è così ridicolo tenersi stretti a tutto ciò, trascinandosi dietro l'anima come un bagaglio vuoto, i ricordi come zanzare, che ti pungono, uno dopo l'altro, succhiandoti via la forza vitale dal corpo, spingendoti alla pazzia.

Provare sulla propria pelle com'è vivere, è un po' come bere del vino: il primo sorso è buono, gustoso, a tal punto da invitarti a prenderne un altro, poi un altro ancora, fino a quando diventa una dipendenza subdola, fino a quando si va avanti a sorseggiarlo solo per gola. E alla fine ti ubriachi, e da ubriachi si sta relativamente bene, perché nulla ti sembra più lo stesso, tutto appare stranamente divertente, surreale, fantasmagorico.

Poi, però, il vino finisce. E di tutto questo ti rimane solo un retrogusto amaro sulla lingua e una lancinante sbronza che ti porta a vomitare tutto ciò che hai ingurgitato.

 

La vita è bella finché si vive ancora avvolti da quel sottile velo d'ingenuità ed illusioni, di sorrisi e promesse. E' bella finché c'è ancora qualcosa da scoprire nel mondo, da osservare con stupore e meraviglia, da immagazzinare nella memoria.

Ma poi tutto cessa di avere la sua bellezza, nel momento in cui ci rendiamo conto che non c'è più nient'altro, che tutto ciò che avevamo immaginato era reale quanto la consistenza delle nuvole.

E la delusione è talmente tanta da portarti alla rassegnazione, all'inermità, all'abbandono.

 

E ti chiedi cosa ci fai ancora vivo nell'oblio.

 

Ashton guardò nuovamente in basso, sentendo l'effetto dell'alcool diminuire ed il terrore aumentare.

Inspirò violentemente una quantità abnorme d'aria, mentre faceva un altro passo pericolante nel vuoto. Alla minima sferzata d'aria più forte, sarebbe precipitato.

 

Non riusciva a vedere il fondo, oscurato da una nebbia insensata e densa, causata dalla tempesta di neve che incombeva su Londra il 31 di Dicembre.

Aveva scelto proprio quel giorno perché avrebbe segnato la fine dei suoi turbamenti, invece che l'inizio di nuove sofferenze.

Era fiducioso nella morte e disperato nei confronti della vita.

 

Ma non riusciva a buttarsi.

Non riusciva a lasciarsi andare al vuoto, al precipizio, alla caduta imminente e alla cessazione inesorabile di ogni cosa.

Non riusciva a muoversi, a respirare regolarmente, a percepire il mondo attorno a lui.

Non riusciva a capire perché fosse così difficile, perché non fosse già morto, perché stesse aspettando ancora.

 

Basta, doveva farlo.

Non c'erano più scuse, non c'era più tempo, non c'era più niente.

Chiuse gli occhi e cercò di non pensare a nulla, assolutamente nulla.

Strinse forte le dita delle mani e cercò di trovare quel sollievo che cercava da sempre, quel confortante potere della morte liberatrice.

 

Ma tutto ciò che sentì fu solamente un "Scusa?"

 

Riaprì gli occhi di scatto e si voltò col cuore a mille, così velocemente che rischiò di cadere e perdere l'equilibrio veramente.

Il suo piede sinistro scivolò giù dal parapetto e le sue braccia si aggrapparono istintivamente ad esso, ma la presa gli sfuggì a causa dei fiocchi di neve ormai sciolti che avevano inumidito la superficie.

Un urlo gli morì sul fondo della gola, mentre pensava ormai che fosse giunta la sua ora.

Forse, era davvero destinato a morire quella sera.

 

Quando però riaprì gli occhi, non era morto.

Bensì, era tornato al sicuro sul tetto del palazzo, stretto in una presa salda e tiepida, rassicurante, non troppo soffocante.

Sollevò le palpebre che aveva strizzato per la paura ed incontrò immediatamente un paio di occhi marroni, così scuri e profondi, sgranati di fronte ai suoi.

Rimase a fissarli per quelli che gli parvero secoli, senza pensare a nulla, senza ricordarsi di essere su un fottuto tetto, nella notte di Capodanno, di aver appena tentato il suicidio e di trovarsi, proprio in quel momento, tra le braccia di un ragazzo.

 

In lontananza, si udivano le urla delle persone per strada che cantavano gioiose, festeggiando l'ormai imminente arrivo della mezzanotte.

Ashton non riusciva a muoversi, a parlare, a smetterla di fissare quei pozzi caldi e sicuri in cui si era perso, da cui era rimasto ammaliato, mentre riusciva distrattamente a sentire il fatidico conto alla rovescia intonato da un coro di gente euforica.

 

Dieci, nove, otto.

 

Annaspò, liberandosi velocemente dalla stretta del ragazzo per tornare barcollante sui suoi piedi.

Cercò di annullare qualsiasi sorta di contatto col corpo a cui appartenevano quegli stupendi occhi castani, ma fu costretto a poggiarsi nuovamente alle sue spalle solide per non cadere rovinosamente a terra quando lo colse un giramento di testa.

 

Sette, sei, cinque.

 

Ashton si passò nervosamente una mano sul viso, arruffandosi i capelli già mossi dal vento e tastando la sua pelle come se non riuscisse ancora a realizzare di essere vivo.

Poi sollevò lo sguardo, posandolo esitante sul volto del ragazzo che lo aveva appena salvato.

I suoi capelli scuri, quasi neri, s'intonavano perfettamente con le macchie dense delle sue iridi; la mascella squadrata era serrata in un'espressione seriosa, quasi preoccupata, leggermente imbarazzata; le sue labbra non troppo piene si perdevano sotto le luci della città, avvolte da un'ombra proiettata dall'angolazione sbagliata dei lampioni; aveva le narici leggermente dilatate, mentre inspirava lentamente l'aria fresca della sera; le sue sopracciglia folte e scure quanto i capelli se ne stavano appollaiate in cima, quasi coperte dalla frangia spettinata; indossava un giubbotto blu, lasciato aperto, con sotto una maglietta bianca sgualcita, abbinata ad un paio di jeans neri strappati sulle ginocchia e decisamente non adatti alla stagione invernale.

 

Quattro, tre, due.

 

Ashton notò che anche l'altro ragazzo lo stava scrutando da capo a piedi, studiando ogni dettaglio del suo corpo, e si sentì improvvisamente a disagio.

Rimosse timorosamente i suoi occhi dal volto dello sconosciuto e si fissò la punta delle scarpe innevate.

"Mi d-dispiace se ti ho... disturbato. Non credevo ci fosse qualcun altro quassù." disse il moro con voce insicura e nervosa. Probabilmente Ashton non era l'unico a sentirsi in imbarazzo.

Non rispose, senza sapere cosa dire o fare.

"Volevo solo... Beh, volevo sapere se ne hai ancora per molto. P-perché dovrei..." proseguì il moro, facendo un cenno col capo in direzione del parapetto.

"Oh, i-io... No, beh... Vai prima tu, se vuoi." rispose Ashton arrossendo.

"Vorrei... vorrei essere da solo, se non ti dispiace."

Ashton abbassò il capo, ancora più imbarazzato, "Va b-bene. Allora... allora vado."

 

Uno.

 

Si riavvicinò tremante al parapetto e si sporse rabbrividendo, poi cercò nuovamente di chiudere gli occhi e di lasciarsi andare, ma sentiva le iridi castane dell'altro ragazzo perforargli la schiena.

Non riusciva a rilassarsi, non riusciva a smettere di pensare a ciò che era successo, a ciò che stava per succedere.

Sbuffò frustrato e si voltò nuovamente verso il ragazzo, fermo qualche metro dietro di lui, le braccia strette al petto e gli occhi fissi sulla figura di Ashton.

 

"Potresti... Non so, girarti?" chiese, sentendo ogni nervo a fior di pelle e l'ansia trapassarlo come la lama di un coltello.

"Oh..." mormorò il moro, guardandosi velocemente intorno.

"Così va bene?" chiese, dandogli le spalle.

"Decisamente meglio."

Ashton sospirò e tornò a fissare il vuoto sotto di lui. Il cuore iniziò a colpirgli ripetutamente la gabbia toracica, come se fosse intenzionato a sfondarla e a saltare giù dal palazzo prima del resto del corpo.

Allargò lentamente le braccia, sentendo il venticello leggero sorreggerlo cautamente. Si voltò un solo istante per controllare, aprendo un solo occhio e trovando lo sconosciuto ancora di spalle.

 

Auguri! Buon Anno Nuovo!

 

"Non ci riesco. Non va bene." disse Ashton, facendo voltare il moro sorpreso.

"Vuoi che me ne vada e torni tra dieci minuti? Credi ti possano bastare?"

"No, cazzo. Non dovevi salvarmi qualche minuto fa." borbottò, scendendo dal parapetto ed accucciandosi a terra, sul pavimento lurido, freddo e bagnato.

"Se ti avessi lasciato cadere non sarebbe stato un suicidio. Il suicidio deve essere volontario." spiegò l'altro.

"Ma almeno sarei morto." mormorò Ashton, poggiando la fronte contro le ginocchia e rannicchiandosi ulteriormente su se stesso.

 

"Senti, ormai Capodanno è passato. Avrei preferito ammazzarmi stasera, ma è andata così." disse il moro, inginocchiandosi accanto ad Ashton per dargli una pacca sulla spalla.

"Vaffanculo." sputò quest'ultimo, portandosi le braccia a coprire la testa e cominciando a singhiozzare, le spalle sussultanti e la mano dello sconosciuto sempre più insopportabile contro la sua pelle.

"Sono stato un cretino a scegliere il palazzo più famoso di Londra per i suicidi nel giorno più famoso per i suicidi." mormorò ancora, desiderando solamente di sparire.

 

Udì il ragazzo al suo fianco sospirare, poi fare una pausa, come se stesse riflettendo su qualcosa, ed infine dire:"Vieni, ti accompagno a casa."

Ashton sollevò immediatamente la testa e si asciugò frettolosamente le lacrime morte sugli zigomi, "Cosa?"

"Andiamo."

"Non so neanche come diavolo ti chiami, e ti aspetti che ti segua?"

"Calum. Avanti, adesso alzati."

Si sollevò in piedi e tese la mano ad Ashton, che la fissò sconcertato ed allibito.

"Vaffanculo." ripeté, tornando nella posizione di prima, affondando la fronte tra le ginocchia.

"Non puoi restare qui per sempre."

"Ho detto vaffanculo."

"Va bene, come vuoi. Addio."

Ashton udì dei passi e poi la porta che dava sul tetto chiudersi con un tonfo, segno che Calum se ne fosse veramente andato.

Sollevò il capo lentamente e sospirò, lasciando che altre lacrime gli scorressero lungo il viso, mentre alzava lo sguardo al cielo e si abbandonava al freddo di Londra.

 

***

 

Aveva iniziato a nevicare più forte, come se il cielo lo stesse punendo per essere ancora vivo, ancora in piedi sulle sue gambe, mentre arrancava faticosamente per il marciapiede innevato, coperto interamente di soffice neve candida.

In quel momento, Ashton voleva solamente che la tempesta lo sotterrasse.

 

I suoi capelli erano ormai zuppi d'acqua, le guance infuocate per il freddo e la neve che le aveva sferzate, le mani gelide e rigide, strette disperatamente nelle tasche dei jeans.

Sperava che almeno il freddo riuscisse ad ucciderlo, anche se non sarebbe stato come si era immaginato.

 

Ma - come se davvero ci fosse una forza superiore che lo stesse costringendo a restare ancorato alla vita contro il suo volere - un clacson inaspettato gli perforò i timpani, facendolo sobbalzare e voltare di scatto.

Una macchina nera, lucida e particolarmente elegante, che non credeva di aver mai visto prima, rallentò fino ad accostarsi al marciapiede.

Ashton, sorpreso, si fermò ed attese che il finestrino oscurato si abbassasse, rivelando l'ultima persona al mondo che avrebbe voluto incontrare ancora quella sera.

 

Si era giurato che non avrebbe mai più rivisto quel ragazzo, che tutto ciò che era successo su quel tetto sarebbe stato eclissato, che avrebbe dimenticato i suoi occhi così accoglienti e sinceri.

Ed invece eccoli di nuovo qui, puntati dentro i suoi, come a volergli scavare dentro, anche se non intenzionalmente.

Lo studiavano, lo accarezzavano in un modo tanto piacevole quanto scomodo, come se fossero determinati a scoprire segreti che Ashton non avrebbe mai detto a nessuno.

Lo facevano sentire così piccolo, nudo, a disagio. Ma, allo stesso tempo, era come se gli stessero silenziosamente promettendo che poteva fidarsi, che poteva abbassare le sue barriere, che non aveva nulla di cui temere, che sarebbero sempre rimasti su di lui, a guardarlo durante ogni suo passo.

 

"Sali." ordinò Calum, il moro di prima, con un tono tra lo stizzito ed il rassegnato. Un tono che ad Ashton non piacque per niente.

"No."

"Non ti lascerò a morire sul ciglio della strada."

"Non deve importarti."

"Sto solo cercando di essere gentile."

"Mi ci pulisco il culo con la tua gentilezza, grazie tante." Ashton fece una smorfia che sarebbe dovuta apparire come un sorriso e riprese a camminare.

 

Qualche istante dopo, sentì il rumore di uno sportello che sbatteva e dei passi affrettarsi dietro di lui.

"Ascolta" la voce di Calum adesso era quasi supplicante, "Non so per quale fottuto motivo fossi su quel tetto, poco fa, o cosa cazzo ti stesse passando per la testa. Ma so perché c'ero io su quel tetto, e cosa cazzo mi stava passando per la testa. E non era niente di bello, credimi."

Ashton rallentò istintivamente il passo, rapito dalle parole di Calum che, nonostante stesse cercando d'ignorare, era altrettanto curioso di ascoltare e captare con ogni senso possibile.

 

"E so anche che se adesso stessi camminando lungo un marciapiede ricoperto di neve, con solo una misera felpa addosso, vorrei che qualcuno mi offrisse un passaggio." continuò, mentre Ashton si fermò del tutto, restando però di spalle.

Sentì i passi veloci di Calum rallentare, poco più dietro di lui, e poi il suo respiro leggermente affannoso per la corsa. Si prese tra i denti il labbro inferiore screpolato, insicuro se continuare a camminare o voltarsi.

 

Non voleva più sentire la sua voce, non voleva più vedere il suo volto o ricordarsi di ciò che era stato sul punto di fare poco più di qualche minuto prima.

Voleva solo restare da solo, com'era sempre stato. E magari morire, una volta per tutte.

La presenza di Calum era così fastidiosa, così indesiderata ed inappropriata. Eppure non riusciva a mandarlo via, a ripetergli quel vaffanculo che era già scivolato fuori dalle sue labbra.

Non riusciva a staccarsi dal corpo quell'assurdo ed ossessivo bisogno di qualcuno che lo compatisse, che si prendesse cura di lui, che capisse davvero il suo dolore, e che gli desse finalmente un po' di conforto.

 

Ma lui non aveva mai voluto tutto ciò. Perché adesso si aspettava di trovare un briciolo d'aiuto in un ragazzo completamente sconosciuto che non aveva fatto altro che prolungare le sue sofferenze?

Perché non era ancora corso via? Perché si stava lentamente voltando, per poi trovarsi ad un metro di distanza dalla figura del moro che lo fissava speranzoso?

 

Ashton si morse ancora più forte il labbro, il cappuccio calato sopra la sua testa, ormai ricoperto anch'esso di neve leggera.

Adesso sentiva il freddo.

Adesso che Calum era così vicino e così caldo, riusciva a percepire la differenza, il fastidio provocato dall'aria contro i suoi gomiti doloranti, ad infilarsi prepotentemente in ogni angolo del suo corpo.

 

Sollevò esitante gli occhi per incontrare ancora una volta quelli castani e dolci del ragazzo di fronte a lui.

Si sentiva così sciocco.

 

Sospirò.

 

***

 

La macchina di Calum profumava di lavanda, come suggeriva anche il deodorante appeso allo specchietto retrovisore.

Era davvero una gran bella auto. Probabilmente anche costosa.

Ashton se ne stava seduto in netto silenzio sul sedile del passeggero, accanto a Calum.

Non aveva ancora detto nulla. A dire il vero, non aveva aperto bocca da quando aveva sospirato e poi si era avviato a testa bassa e rassegnato verso la Mustang del moro.

 

Anche Calum era rimasto in silenzio, nonostante apparisse leggermente sollevato.

Guidava con una mano ferma sul volante, l'altra stretta attorno alla leva del cambio e lo sguardo fisso avanti a sé.

Si era sfilato il giubbotto blu che indossava, rivelando una maglietta a maniche corte che lasciava intravedere qualche tatuaggio. Ashton li studiò uno per uno, con dedita concentrazione, chiedendosi il significato di ognuno di quei disegni intricati e bellissimi.

 

Ad Ashton non erano mai piaciuti i tatuaggi, a differenza della maggior parte dei ragazzi della sua età; non sentiva il bisogno di macchiare la sua pelle con qualcosa d'indelebile, però l'idea che la gente lo facesse per raccontare qualcosa, o per ricordare, lo affascinava.

Forse, l'idea di farsene uno non gli era mai passata per la testa anche per il fatto che non avrebbe saputo cosa incidersi. La sua vita non meritava di essere raccontata, tantomeno ricordata, perché non credeva ci fosse nulla di positivo in essa.

 

"L'indiano l'ho fatto quando è morto mio nonno. Lui amava i pellerossa, le loro usanze, i loro miti. Aveva la casa ricoperta di quadri raffiguranti la loro vita, o di copricapi e totem." disse Calum, spezzando quella quiete quasi surreale, come se avesse letto le silenziose domande che affollavano la mente di Ashton.

Quest'ultimo sollevò gli occhi, spostandoli dal bicipite del moro al suo volto.

Teneva ancora gli occhi incollati alla strada, la mascella serrata e ben squadrata come se fosse concentrato al massimo su qualcosa di cui Ashton ignorava l'esistenza.

 

In quel momento, si sentì ancora una volta a disagio, perché non faceva parte della vita di Calum, in nessun modo. Lo aveva incontrato poco più di un'ora prima, ed era totalmente estraneo ai suoi pensieri, ai suoi sentimenti, ai suoi ricordi, ai suoi modi di essere e di fare.

Avrebbe voluto affondare ancora di più nel sedile, fino a sparire. Ma, al tempo stesso, avrebbe voluto scoprire tutta la storia di quel ragazzo che gli aveva salvato la vita, ogni suo più piccolo segreto, sia per curiosità che per fascino.

 

Tutto ciò che Calum gli faceva pensare lo confondeva, perché s'interponeva esattamente tra ciò che Ashton era abituato ad essere da sempre, e ciò che invece sarebbe voluto diventare.

Lo destabilizzava, lo sconquassava dall'interno, come un turbine inaspettato che porta scompiglio e lascia un disordine confuso in tutto ciò che tocca.

Ashton si sentiva pronto a spiccare il volo, ma c'era sempre qualcosa a tenerlo ancorato al suolo: forse paura, forse diffidenza, forse l'insengamento ottenuto da tutte le delusioni che la vita gli aveva dato.

 

"Quanti tatuaggi hai?" chiese, senza pensarci troppo.

"Sedici."

"Qual è il tuo preferito?"

"Ognuno per me è importante allo stesso modo. Sono come pezzi di puzzle che vanno a costituire momenti significativi della mia vita." spiegò il moro.

 

Ashton avrebbe voluto vedere i suoi occhi, mentre ne parlava, perché era sicuro che avrebbero scintillato d'emozione, come attraversati da frammenti di ricordi che rotolavano nella sua mente in modo così burrascoso che diventava impossibile trattenerli, e si manifestavano, in tutta la loro sofferta bellezza e riservatezza.

 

"Dove devo girare?" domandò Calum, riscuotendo Ashton dai suoi pensieri e rammentandogli che fossero diretti a casa sua.

"Oh" soffiò, "Io... Non credo di voler tornare a casa."

 

Calum si voltò solo a quel punto, "E dove, allora?"

Ashton fece spallucce, "Non so. E' l'una e trentasette, sono ancora leggermente ubriaco, e ho voglia di morire. Dove suggerisci di andare?"

Il castano avrebbe potuto giurare di aver visto un mezzo sorriso affiorare sulle labbra di Calum, che però si era voltato, tornando a guardare la strada, per mascherarlo.

 

"Abito da solo, in un appartamento a Holloway Road." disse quest'ultimo.

"Mi stai invitando a casa tua?" Ashton quasi rise, "Gesù, ti conosco da due ore! Sei pazzo."

"Lo dice anche il mio psicologo."

Il castano scosse la testa con un sorriso, "Hai delle birre?"

"Meglio. Ho dello Champagne."

 

Calum si voltò verso Ashton con le labbra leggermente incurvate verso l'alto ed una scintilla speranzosa nello sguardo, nonché divertita.

Ashton si sistemò meglio sul sedile, poggiando la testa contro lo schienale e rilassando finalmente ogni muscolo, non più teso come poco prima, "Allora torna indietro. La traversa per Holloway Road era quella prima."

 

***

 

Ashton si pentì di non essere tornato a casa sua nel momento in cui Calum aprì la porta dell'appartamento.

Anche con le luci spente e le sagome dei mobili sfocate, Ashton riusciva a vedere uno sfarzo immenso trapelare da ogni angolo, da ogni mensola, da ogni tegola del parquet perfettamente pulito.

L'ingresso era grande come la sua camera da letto; su ogni lato della porta c'era una pianta molto curata, con dei vasi così belli che dovevano esser stati fatti a mano. Un lungo tappeto con un motivo a forme geometriche, disposte senza alcun senso apparente, sembrava indicargli di proseguire ed addentrarsi ulteriormente nell'appartamento.

 

Calum si era già diretto verso la scala che s'intravedeva solo parzialmente dall'ingresso - con sicurezza e familiarità all'interno dell'ambiente -, ed aveva cliccato l'interruttore della luce, illuminando gran parte della casa, facendo sentire Ashton solamente ancor più a disagio.

Solo allora riuscì a notare anche i piccoli faretti posti sul soffitto in modo simmetrico, a formare delle file ben allineate, e notò che una di esse - quella più in fondo - avesse le lampadine di un colore diverso, un blu tenue e rilassante, che andava a riflettersi proprio sopra i due divani in pelle nera, paurosamente lunghi.

Nel mezzo di essi, c'era un tavolino in vetro, con un poggiapiedi ugualmente in pelle nera che, da quanto era pulito, sembrava inutilizzato.

 

"Non entri?"

La voce di Calum riscosse Ashton dalla sua ispezione silenziosa. Puntò immediatamente gli occhi sul volto del moro, che gli rivolse un sorriso gentile, e si decise finalmente a varcare la soglia.

 

Una cosa che i suoi sensi percepirono all'istante, fu il profumo inaspettato, incredibile e delicato di Violetta di Parma.

Preferire uno storico profumo italiano a qualunque profumo francese à la mode la diceva lunga su chi abitava tra quelle mura.

L'interno era un singolare connubio tra il tradizionale calore dato dal legno che rivestiva il pavimento, i mobili e il battiscopa, e la pratica originalità derivata dall'intonaco chiaro e dagli arredamenti sobri. Lo stile era pulito, strano e tuttavia accattivante; dava un'immediata impressione di spazio, che non veniva intaccato dai pochi fronzoli appesi alle pareti, o che abbellivano quella libreria, o questo armadio.

 

"Vieni." gli disse Calum, ed Ashton si ritrovò a seguirlo come immerso in una specie di trance, sconvolto e leggermente oppresso dall'ambiente inaspettatamente elegante e costoso.

 

Raggiunse Calum nella sala da pranzo, sulla sinistra, e più lasciava vagare lo sguardo, più si sentiva disorientato da tanta ampiezza, abbondanza, profusione.

Ashton era abituato alla sua topaia che aveva a malapena un bagno funzionante e spazzatura sparsa per ogni stanza; aveva sempre vissuto in spazi ristretti, col minimo indispensabile, e vedere tanto sfarzo e tanta ricchezza in un unico appartamento lo faceva sentire un escluso, un poveraccio, un puntino nero ad intaccare la perfezione di un sottile e pulito foglio bianco.

 

Eppure - nonostante la meravigliosa disposizione di quella casa e di ogni singolo arredo posto nel punto più esatto perché non stonasse, e dell'innegabile costosità della maggior parte degli oggetti presenti -, non sembrava che chi l'aveva arredata volesse mettere in risalto a tutti i costi l'opulenza, il pregiato, la maestosità di ogni singola stanza.

Bensì, c'era una - seppur quasi del tutto impercettibile - aria di familiarità, di accoglienza, di calorosità. Non c'era vanità, arzigogolata eleganza che sfociava nell'esagerato, arroganza tipica della nobiltà, un senso di superiorità onnipresente.

Era una casa normale, come le altre, molto curata e studiata nei minimi dettagli per puro interesse personale, non per renderla un gioiellino da mostrare a chiunque.

 

Gli arredi della sala erano pregevoli ma equilibrati; i colori erano distribuiti con sapienza ed evitavano di dare un effetto pacchiano, pur essendo dislocati ovunque; l'oggettistica era varia, stravagante, stonata a primo impatto, tipica di quando possedeva un valore particolare e non importava che facesse a pugni col resto.

Gli archi nelle intercapedini, le volte dei soffitti, le rifiniture avevano un che di rinascimentale, un'architettura dall'apparenza classica, ma con qualche tratto barocco, particolarità bizzarre e insolite, che però creavano un complesso coerente, una manifestazione chiara di forte personalità.

 

Ashton aveva probabilmente la bocca spalancata, mentre si guardava intorno con uno stupore ed una meraviglia genuini, sinceri, toccati.

Se in un primo momento si era sentito fuori posto, adesso si stava lentamente abituando a tutto ciò che lo circondava. Forse era proprio lo scopo principale di quella casa: stupire con leggerezza, affascinare con moderazione, fino a farti abituare alla singolarità di essa, come se stesse facendo un silenzioso incantesimo sul tuo stato d'animo.

 

Calum era girato di spalle, rivolto verso il frigo in metallo lucido e leggermente opaco, mentre probabilmente cercava lo Champagne che aveva promesso.

Quando si voltò, aveva due calici scintillanti in una mano, stretti tra le dita per non farli cadere, e una bottiglia costosa nell'altra.

Poggiò tutto sul tavolo in legno di ciliego - probabilmente -, e poi prese un cavatappi dal cassetto sulla destra.

 

"Non mi hai ancora detto il tuo nome." disse, mentre un sonoro schiocco risuonava nell'abitacolo quando rimosse il tappo in sughero.

Ashton parve ricordarsene solo in quell'istante, "Oh, giusto. Mi chiamo Ashton."

"Ashton." disse il moro a bassa voce, come per provare il modo in cui quel nome accarezzava le sue labbra, ed Ashton non poté fare a meno di rimanerne incantato.

Era un suono così sublime, così delicato e leggero; era una sinfonia di vocali, di armonie non intenzionali, di ammaliamento casuale e perfetto.

Le labbra di Calum sembravano fatte di velluto, mentre si muovevano con una coordinazione singolare ed un'eleganza rara.

 

Ashton si ritrovò intrappolato in quell'istante, sospeso sul confine del tempo, che si sarebbe potuto spezzare da un istante all'altro, come una lastra di ghiaccio sotto il calore di un sole cocente.

Il suo nome non gli era mai apparso così bello.

E non capiva come solamente la voce di una persona potesse trasmettergli tanto, a partire dai brividi sulla pelle ai tumulti in luoghi di cui si era dimenticato l'esistenza.

 

"Prendi." Calum parlò di nuovo, offrendogli il bicchiere di Champagne che aveva versato per lui, con un sorriso delicato e sensuale, accattivante, come una trappola letale travestita di meraviglia e adorazione.

Ashton si riscosse da quei pensieri così inappropriati e prese tra le dita tremanti il calice leggero.

 

Non gli capitava spesso di pensare che una persona fosse bella. A dir la verità, Ashton non lo pensava mai.

Era troppo perso nella sua depressione, oppure occupato ad annegare nelle sue stesse lacrime, per rendersene conto.

Ma, appena aveva visto Calum, quella era stata la prima cosa che aveva pensato. Lo aveva colpito in faccia con una violenza inaudita, con uno stupore accecante ed una pienezza innegabile.

 

Calum era bello.

Non una di quelle bellezze oggettive, classiche, che chiunque avrebbe saputo riconoscere. Era una di quelle bellezze particolari, fini, che dovevi saper apprezzare e cogliere nel modo giusto.

Dietro la durezza di ogni tratto del viso, Ashton riusciva a scorgere una delicatezza innata; gli occhi - che sarebbero potuti apparire troppo piccoli in confronto al naso - per lui, invece, erano perfetti così; le labbra, forse non abbastanza carnose da poter essere considerate soffici, gli trasmettevano comunque l'idea di essere incredibilmente lisce e malleabili.

 

Calum era in grado di farlo arrossire ed infuriare senza motivo. Ed era questo che fece capire ad Ashton di essere attratto da lui.

 

"Sembri sconvolto." constatò il moro, inclinando la testa di lato come per osservare più attentamente il volto di Ashton, attraversato da un leggero rossore ed un velo impercettibile di preoccupazione.

Sentiva pungere nel fondo del suo stomaco un briciolo di rabbia immotivata, quella che scaturiva sempre quando era infuriato con se stesso ma non voleva ammetterlo, quando qualcosa lo infastidiva per il semplice fatto che gli interessasse più del lecito.

 

Ashton cercò di apparire il più disinvolto possibile, accantonando i cumuli di nervosismo e d'imbarazzo dietro una scrollata di spalle. "Sei ricco. Non capisco perché ti saresti voluto ammazzare."

Calum inarcò un sopracciglio folto, forse colpito ed interessato alla domanda.

"Innanzitutto" disse, poggiando i gomiti sull'isola rivestita di marmo al centro della cucina, "I miei genitori sono ricchi."

"E' la stessa cosa. Di conseguenza sei ricco anche tu." borbottò Ashton, con un gesto sminuente della mano.

"No. Perché, se volessero, potrebbero togliermi fino all'ultimo centesimo. E non mi resterebbe nulla."

 

Ashton non disse nulla, perché Calum aveva ragione. Però, per non dimostrarlo, finse di avere la bocca occupata e di non poter parlare, prendendo il primo sorso del suo Champagne e sorseggiandolo più lentamente del dovuto, senza la reale intenzione di preservarne il sapore.

"E comunque, di sicuro conosci il famoso proverbio che dice che i soldi non fanno la felicità. Probabilmente sei uno di quelli che pensa sia solamente una delle tante frasi fatte, ma non è così. E' la verità." concluse Calum, prendendo a sua volta un sorso dal calice luccicante.

 

Ashton evitò di scoppiargli a ridere in faccia per non sputare il liquido che aveva ancora in bocca sopra la sua maglietta - che era costata probabilmente più dei divani in salotto.

"Per piacere" sibilò dopo aver deglutito, "Sono dell'idea che le persone ricche non abbiano alcun problema, per questo cercano in tutti i modi di trovare quell'unica pecca nella loro vita perfetta. E, non trovandola, s'inventano disgrazie insensate e si dimostrano i veri ipocriti che sono menzionando questo proverbio."

 

Quando si rese conto del tono acido e stizzito che aveva usato, abbassò immediatamente lo sguardo, mentre un moto di vergogna e timidezza lo scuoteva. Si affrettò a nascondere il viso dietro il bicchiere di cristallo, prendendo un sorso incredibilmente lungo per non dover guardare Calum negli occhi.

Probabilmente lo aveva offeso, o fatto arrabbiare. Si sentiva una persona tremenda.

Lo aveva salvato, ospitato in casa sua, gli aveva offerto uno Champagne da chissà quante centinaia di dollari, e lui lo trattava come un verme?

Dio, perché doveva sempre mostrare il peggio di sé?

 

Quando il liquido alcolico iniziò a bruciargli la gola e a molestargli l'intestino, avvertendolo che non potesse ingurgitarne ancora, si costrinse a poggiare il calice sul marmo, passandosi frettolosamente il retro del palmo sulla bocca ancora umida a causa dei sorsi scoordinati.

Puntò finalmente i suoi occhi intimiditi e colmi di pentimento sul volto di Calum, e si sorprese nel trovarlo ammiccante, le iridi scure già fisse sul profilo di Ash, come se non stessero aspettando altro che incontrare i suoi occhi ambrati.

Non c'era alcuna traccia di rancore, di rabbia o offesa nel suo sguardo, bensì un divertimento trapelante e sincero, quasi sconvolgente.

 

Ashton si sarebbe aspettato che avesse iniziato ad urlargli in faccia, ad insultarlo, prendendolo in giro per essere solamente un poveraccio invidioso.

Invece Calum se ne stava lì, i gomiti poggiati saldamente sul bancone e il mento sopra le mani, mentre rivolgeva un ghigno affascinante ed impertinente ad Ashton, impegnato a lottare contro un'agitazione priva di contorni definiti, che minacciava di causargli l'affanno.

 

"Facciamo così" esordì Calum, "Io ti dirò il motivo per cui ero su quel tetto, se tu mi dirai il tuo."

 

Ashton si sentì scuotere dalle fondamenta. Sentì chiaramente il suo organismo ribellarsi a quelle parole, un'ondata di puro terrore attraversarlo interamente, bombardarlo dall'interno, colpirlo con ripetute fitte.

Aveva smesso di respirare, di ragionare, di pensare razionalmente, di percepire ciò che lo circondava.

La fatalità si mescolò col terrore, l'ossigeno si trasformò in un gas letale.

 

Le parole di Calum erano state accompagnate da un'innocenza illusoria, come una scintilla apparentemente innocua, ma in realtà pronta a dare vita ad un incendio.

Ed Ashton si era sentito minacciato, assoggettato, messo sotto osservazione come una cavia da laboratorio.

Odiava sentirsi al centro dell'attenzione, pronto ad essere giudicato da mille occhi diversi in mille modi diversi.

Odiava la presunzione della gente che affermava di volerlo scoprire, capire, aiutare, senza ficcarsi in testa che nessuno sarebbe mai stato in grado di conoscere una persona fino in fondo, veramente.

Odiava la sua fragilità, la sua incapacità di lasciarsi andare, i suoi limiti invalicabili, la sua debolezza nei confronti del mondo.

E, in quel momento, odiava soprattutto Calum per avergli fatto quell'assurda e stupida proposta che lo aveva messo in soggezione ed aveva scatenato in lui l'ennesima crisi esistenziale.

 

Non amava aprirsi di fronte alle persone, mostrarsi in ogni suo aspetto più vulnerabile, soprattutto agli sconosciuti.

Si sentiva in un certo senso violato, oltraggiato, ferito.

 

Una scossa di rabbia lo fece tremare. Strinse le dita in due pugni, talmente stretti da rendere le nocche pallide e le vene sugli avambracci in rilievo.

Abbassò il capo, puntando lo sguardo sul pavimento, chiudendo gli occhi per non farli traballare in modo nauseante.

Fece un paio di respiri profondi, sentendosi così sciocco per aver avuto una reazione del genere di fronte a Calum.

 

Quando riuscì finalmente a calmarsi e a ristabilizzare il suo battito cardiaco, sollevò lentamente la testa ed osservò il moro di fronte a lui.

Di sicuro aveva notato l'improvviso nervosismo di Ashton, perché lo stava fissando con le labbra leggermente schiuse ed un'espressione scioccata, confusa, mortificata.

Probabilmente stava anche pensando che fosse pazzo.

E come biasimarlo?

 

Forse fu quella consapevolezza, quel pensiero privo di fondamenta, quel pregiudizio orgoglioso ed ostentato a dargli la spinta necessaria per opporsi a se stesso, per decidere a ricredersi, per dimostrare il contrario di ciò che appariva.

Voleva sbaragliare i suoi limiti, disintegrare quei paletti che aveva da sempre prefissato per evitare che la sua vita sfociasse nel rischioso e l'incerto.

Per una volta nella sua vita, voleva mostrare chi era il vero Ashton Irwin.

 

Pressò duramente le labbra tra di loro, rilassando i tendini delle braccia ed i muscoli tesi delle spalle inarcate.

"Va bene." acconsentì infine, sputando quelle parole come se fosse stato costretto a masticarle per giorni insieme ad un retrogusto fastidiosamente amaro.

 

Calum parve sorpreso, forse perché, dopo la sua reazione esagerata, si sarebbe aspettato come minimo un rifiuto brusco.

Ashton si sentì leggermente soddisfatto, perché già quel piccolo accenno di meraviglia era per lui un traguardo.

 

"Sei sicuro?" si accertò il moro, apprensivo.

Ashton annuì, non troppo vigorosamente.

Quando però arrivò il momento fatidico, quello a cui era andato inevitabilmente incontro, non si sentì più così tanto convinto e sicuro di se stesso.

 

Calum era lì, nella stessa posizione di prima, che lo fissava con uno sguardo incoraggiante, in attesa che iniziasse a parlare.

La sua determinazione vacillò.

 

Il moro gli indirizzò un sorriso lieve, un sorriso che volle essere confortante, ma che su Ashton ebbe l'effetto di una lama fredda lungo il collo.

Trasalì.

Poi si schiarì la gola, deglutì un paio di volte, e parlò.

 

Calum non batté ciglio quando gli confessò di essere bipolare.

 

Fu come togliersi un peso immenso dalle spalle, per poi riappropriarsene di uno nuovo, però grande il doppio.

Il peso dell'aria che si era fatta improvvisamente fitta tra di loro; il peso delle parole che erano uscite dalla bocca di Ashton, che mai avrebbe pensato di pronunciarle; il peso dei battiti cardiaci del suo cuore contro la gabbia toracica, quasi a volerla demolire; il peso di tutti gli sbagli che aveva fatto; il peso degli occhi di Calum fissi sul suo viso, così intensi e penetranti da incendiargli la pelle.

 

Calum non disse nulla. Attese qualche minuto in assoluto silenzio, poi, semplicemente, iniziò a raccontare:"La mia vita può sembrarti perfetta, ma per molti aspetti non lo è."

Al contrario di Ashton, era tranquillo. Una tranquillità cosciente, oculata, ragionevole, flemmatica, che provava che Calum conoscesse nei minimi dettagli il percorso imboccato, e che quegli che per gli esterni erano ostacoli, per lui erano tappe indispensabili che avrebbero dato ulteriore valore alla meta.

Non provava alcuna vergogna o timore, non prevedeva nessun tipo di pregiudizio affrettato e sembrava a suo agio.

Ashton, per un attimo, lo invidiò.

 

"Si tratta solamente di una facciata." riprese il moro, con voce profonda e toccata, "Tutto ruota attorno all'azienda dei miei, alla buona pubblicità, al profitto, ai soldi incassati. La mia vita è già tutta scritta. Sono destinato ad ereditare l'azienda, a diventarne il capo, a dedicare la mia vita ad affari di cui non me ne frega un emerito cazzo. Dovrò sposarmi con la figlia di altri imprenditori, avere quanti più figli possibile, e portare sempre più in altro il cognome della nostra famiglia."

Sospirò, poi riprese:"A volte vorrei poter essere come tutti gli altri ragazzi della mia età, fare una vita da ventenne spensierato, senza il peso di un futuro già scritto sopra le spalle. I miei genitori non hanno neppure la più pallida idea di chi sia loro figlio. Credono che sia entusiasta del fatto che presto sarò a capo dell'azienda, che sia innamorato di Cassandra e mi vada tutto bene così com'è. Ed invece è tutta una facciata. Sono costretto a mettere in scena questa recita tutti i giorni, dalla mattina appena sveglio fino a quando riesco finalmente a chiudere occhio. Ma sono stanco. Io non sono così, io non sono questo. Se i miei genitori scoprissero chi è realmente loro figlio, ne rimarrebbero profondamente delusi e schifati. Insomma, chi vorrebbe un figlio nullafacente ed omosessuale?"

Il tono con cui pronunciò l'ultima frase sarebbe dovuto apparire scherzoso, ma invece uscì intriso di amarezza e tristezza.

 

"Sono stanco di vivere dentro una bugia, di sentirmi intrappolato in una gabbia d'oro. Inizialmente vivevo questa costrizione come una leggera sofferenza, come una di quelle nausee che però riesci a sopportare durante tutto il viaggio. Poi c'è stato un giorno in cui mi sono svegliato, ed è stato come se avessi aperto gli occhi per la prima volta. Mi sono reso conto di essere solo, completamente solo. La solitudine è ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno, è perdersi in ogni istante perché si è troppo piccoli in confronto alla vastità dell'universo. La solitudine è sentire sempre la mancanza di qualcosa, costante e pungente come un odore sgradevole, come una spina sotto la lingua. Non l'avevo mai provata sulla pelle, non l'avevo mai capita veramente. Ma, quella mattina, l'ho fatto. Ed è stato come precipitare, come schiantarmi contro il mio stesso riflesso. Ed è per questo, che ero su quel tetto. E' per questo che ho capito di essere stanco della vita in generale. Perché sono solo."

 

La voce di Calum si ruppe sull'ultima parola, causando anche al cuore di Ashton di creparsi leggermente a quel suono straziante.

Non sapeva cosa dire, cosa pensare, come sentirsi. Però non riusciva neppure a stare fermo, a restare in silenzio, a lasciare che quell'atmosfera placida si distendesse ulteriormente.

 

Il moro sospirò, abbassando lo sguardo, forse rattristato, forse anche lui senza la più pallida idea di cosa fare.

Afferrò il calice e ne bevve un sorso svogliatamente.

 

"Che consiglio vorresti da un pazzo?" disse Ashton. Non voleva pronunciarlo ad alta voce, ma ormai l'aveva fatto.

"Non sei pazzo, Ash." ribatté corrucciato il moro.

Ashton ignorò il fremito che gli aveva attraversato la pelle al sentire il nomignolo che aveva utilizzato.

"E se proprio vuoi etichettarti così, allora lo sono anch'io." aggiunse Calum poco dopo, incurvando leggermente un angolo della bocca verso l'alto, in un mezzo sorriso non molto convincente.

 

Ashton però non riuscì neppure a fingere, le labbra come sigillate tra loro dalla tristezza che lo aveva invaso, atrofizzando ogni suo muscolo, ogni suo nervo, ogni sua cellula.

Il gusto dello Champagne era diventato amaro, fisso sulla sua lingua ruvida ed asciutta, disgustoso quasi quanto le sensazioni che il povero ragazzo stava provando in quel momento.

Era un casino.

 Era un casino vivente, uno scherzo della natura, un'assurdità che avrebbe suscitato disgusto anche agli occhi più inflessibili.

 

Solo il pensiero che anche Calum fosse come lui riusciva a tirarlo leggermente su di morale, a confortarlo, a dargli quel supporto sottinteso che gli serviva per non sentire nuovamente la necessità di tornare ad Archway Tower.

E finirla una volta per tutte.

 

Sentiva ancora gli occhi del moro su di lui, fissi sul suo viso, intenti a perforargli la pelle come schegge.

Ma non riusciva più ad incontrarli, per paura di vederci riflesso il suo terrore, o quello di Calum.

Non sapeva quale fosse peggio.

 

C'era quel silenzio così denso e così vuoto, pullulante di emozioni tese e frementi come ali di una farfalla, povero di ossigeno e speranza.

Nessuno dei due sentiva il bisogno di parlare, però. Era come se avessero stretto un patto invisibile ed avessero deciso di non aprire bocca, di lasciarsi trasportare dal suono del nulla, di abbandonarsi all'aria come se avesse potuto abbracciarli in qualche modo.

 

Era tutto così strano, quasi surreale. La vita appariva uno scherzo, una barzelletta, un dipinto astratto di un artista completamente fuori di testa.

Ma non si ribellavano, avevano smesso di chiedere spiegazioni al vento che non gli aveva mai portato risposte. Semplicemente, tra rassegnazione e fiducia sigillata in fondo agli occhi, andavano avanti e non parlavano, non piangevano, non sentivano.

Sordi di fronte al mondo, ciechi per non dover guardare lo schifo attorno a loro, muti per trattenere le urla di dolore e disperazione, insensibili ad ogni singolo aspetto della loro esistenza.

 

Era un meccanismo di difesa, un istinto di sopravvivenza, una piccola battaglia per non sprecare se stessi e quello che avevano sopportato per anni.

Ed era come avanzare nella neve, immersi fino alle spalle, sotterrati da quintali di ostacoli, mentre si arrendevano inermi.

 

"Cosa ci facciamo ancora sobri?" chiese Calum ad un certo punto, attirando l'attenzione del castano, che fissò il suo calice quasi fosse un cadavere.

Il pensiero di ubriacarsi per la seconda volta in una sera non lo rendeva euforico, ma quello di restare invece sobrio e continuare a sentirsi così, non lo faceva sentire affatto meglio.

Per quello, portando nuovamente il calice alle labbra con velata esitazione, prese un sorso più lungo di quelli precedenti, che ingoiò troppo velocemente, senza lasciare alla sua gola il tempo di abituarsi al leggero pizzicorio dell'alcool.

 

Trattenne un colpo di tosse, mandando tutto giù, costringendo il suo stomaco a non contrarsi ad ogni fitta di ribrezzo che si trasferiva dalle sue papille gustative all'intestino.

Staccò le labbra dal bordo del bicchiere, quasi le avesse lacerate, come se avesse strappato un cerotto da una ferita ancora aperta.

Il formicolio dovuto alle bollicine minuscole dello Champagne gli solleticò la lingua, quando se la passò sopra le labbra per inumidirle.

 

Puntò i suoi occhi su Calum, che stava sorseggiando a sua volta dal proprio calice, con molta meno riluttanza e svogliatezza.

Lasciò che i suoi occhi si spostassero lungo il profilo della mascella ben definita, poi lungo il collo, ammirando il pomo d'Adamo che si muoveva ad ogni sorso, ed infine sulla clavicola lasciata parzialmente scoperta dal collo piuttosto largo della maglia che indossava.

 

Ogni gesto di Calum era caratterizzato da una precisione lirica, armonica, priva di inutili meccanismi e diretta, pura ma non brutale, che rivelava attraverso sinonimi desueti e azzeccati.

Era un'eleganza invidiabile e sovrumana, che Ashton non riusciva a capire se fosse innata o dovuta ad anni di rigido insegnamento, previsto per un bambino prodigio e con il suo futuro già scritto.

 

Il moro posò il calice ed ammiccò ad Ashton, colto in flagrante mentre immagazziva ogni più piccolo dettaglio della pelle ambrata del ragazzo di fronte a lui.

Con quel semplice gesto di Calum, la tensione drammatica che aveva gravato su di loro fino a quel momento parve dissolversi come un'ombra catturata da un fascio di luce che la spazza via, senza lasciarne alcuna traccia.

 

"Sei sempre così silenzioso?"

"Solo quando non ho nulla da dire." mormorò Ashton timidamente.

"I tuoi occhi dicono il contrario. Sembra che vogliano urlare mille cose."

 

Ashton li sgranò istintivamente, sorpreso e colpito dalle parole di Calum.

Davvero i suoi occhi erano così vivi? E cosa era riuscito a scorgervi il moro? Forse anche il suo desiderio gorgogliante per ogni lembo di pelle di Calum?

 

Un'ondata di rossore gli imporporò le guance, mentre una quantità sproporsionata di sangue affluiva al cervello.

Gesù, si stava rendendo ridicolo. Lo sapeva.

 

Calum continuava a fissarlo, a metterlo in soggezione, a scuotere ogni suo neurone e a farlo impazzire.

Cosa diavolo stava succedendo ad Ashton? Cosa gli stava facendo?

 

Lui non era assolutamente il tipo di persona che s'innamorava all'istante di qualcuno.

Dio, non aveva pensato che qualcuno fosse bello per anni.

E poi era arrivato Calum.

Ed era tutto così travolgente, sconvolgente, accecante, immorale, confuso, eccitante, e sbagliato.

 

Era uno stupido a sentirsi così legato ad una persona che conosceva a malapena, da qualche ora scarsa.

Ma non riusciva a farci niente, non riusciva a controllare i battiti del suo cuore, le immagini proiettate dalla sua mente, il senso di soffocamento che non faceva altro che aggravare la situazione.

Era completamente in balia dei suoi sentimenti. E degli occhi marroni di Calum.

 

Quest'ultimo ridacchiò brevemente, "Avanti, Ashton. Parla."

"Solo che è tutto così... Non lo so, mi sento strano." si sforzò di pronunciare.

Calum inarcò un sopracciglio, "Sei scosso a causa di ciò che è successo sul tetto? O a causa mia?"

 

Ashton deglutì, mandando giù l'improvviso groppo che gli aveva ostruito la gola, impedendogli di parlare.

"I-io... Non mi capita spesso di parlare con qualcuno, ecco." ammise, fissando nuovamente il pavimento.

 

Il moro inclinò la testa lateralmente, come per studiarlo a fondo, "E perché? Cos'hai che non va?"

Ashton sospirò pesantemente, "Nulla. E' questo il punto. Io non ho nulla che non va. Non posso essere aggiustato, perché non c'è nulla di rotto in me. Questo sono io, e non posso cambiare. Ma le persone insistono, continuano a dire che sono malato, che ho bisogno di aiuto. Loro non capisco."

 

L'espressione sul volto di Calum ora era mutata, era diventata più seria e concentrata, rapita e interamente focalizzata sulle parole che lasciavano le labbra del castano.

 

"Per questo non mi fido degli altri, non mi fido di nessuno. Perché non voglio compassione, non voglio qualcun altro che cerchi di cambiarmi, non voglio nulla di tutto questo. Voglio solo qualcuno che mi ami per ciò che sono e per ciò che continuerò ad essere." concluse Ashton, con una sicurezza sorprendente, che aveva lasciato di stucco perfino Calum.

L'istante prima sembrava terrorizzato persino all'idea di respirare, e quello dopo parlava con così tanta intensità e forza che sarebbe stato in grado di rapire chiunque.

 

Ashton non sapeva se ringraziare l'alcool per averlo reso così inibito, o Calum per averlo spinto a parlare e a sfogarsi, a dire tutto ciò che si teneva dentro ogni giorno della sua vita e non ripeteva neppure a se stesso.

In quel momento, però, si sentiva quasi libero, più leggero, tranquillo.

Si sentiva meglio.

 

"So come ci si sente quando ti viene costantemente detto cosa devi fare, quando la tua vita viene gestita ed organizzata con la stessa facilità con cui si dispone un mazzo di carte in tavola. Conosco fin troppo bene quella sensazione, quella rabbia repressa, quella voglia di rigettare chiunque. Per quello posso giurarti che non proverò a cambiarti, a farti diventare qualcun altro, a stravolgerti. Ti lascerò essere te stesso, e tu mi lascerai essere me stesso." disse Calum, strappando un sorriso esitante ad Ashton.

"Grazie" soffiò, "Davvero."

Il moro sorrise a sua volta, poi prese un altro sorso di Champagne, accompagnato da Ashton.

 

Ci fu un altro lungo silenzio, costellato solamente dal tintinnare occasionale dei calici e dai respiri nervosi di Ashton.

Dopo il terzo bicchiere di Champagne, il castano si fece coraggio e parlò di nuovo:"Pensavo che sarebbe stato facile lasciar andare la mia vita."

Calum puntò velocemente i suoi occhi su di lui, sopreso di sentire la sua voce così all'improvviso.

"Insomma, non ho nulla da perdere" fece spallucce, proseguendo, "Ma mi sono reso conto del contrario stando in bilico su quel tetto."

"Ho provato la stessa cosa anch'io. Ero arrivato lì in cima, con le idee ben chiare su ciò che dovevo fare... Ed invece mi sono ricreduto il preciso istante in cui tutto è diventato più reale, e non solo una fantasia." rispose Calum, con uno sguardo pensieroso, quasi stesse cercando di scavare al meglio dentro di sé, per mostrare le emozioni più sincere e vere che aveva provato in quel momento.

"Non ne capisco il motivo." continuò Ashton, "Io voglio ancora morire, ma non riesco a lasciarmi andare."

Gli occhi di Calum si fecero improvvisamente più scuri, come rabbuiati da una consapevolezza amara e concreta, innegabile, incontrastabile nella sua palesità, "Perché dentro di te c'è ancora quel briciolo di speranza che le cose possano cambiare, possano diventare migliori. Dentro di te c'è la voglia di credere che tutto possa finalmente trovare un senso. Anche se non te ne accorgi, oppure cerchi di negarlo perché hai paura di continuare ad illuderti, c'è."

 

Ashton rimase senza parole, il vetro leggero del calice stretto tra le dita, freddo contro i polpastrelli, come a ricordargli della sua presenza, anche se ormai era passata in secondo piano rispetto al gelo che lo aveva colpito in seguito a ciò che aveva detto Calum.

Perché era vero. Era così fottutamente vero che lo terrorizzava l'idea di avere ancora un po' di speranza sepolta tra i rancori e le delusioni di una vita intera.

 

"E' quel misero barlume che ti tiene ancorato alla vita, quell'insignificante quanto potente granello di forza. Non potrà finire finché esisterà la speranza." aggiunse il moro, con un velo lucido a ricoprirgli la retina, segno che quelle parole lo avessero toccato più del dovuto, perché non riguardavano solo Ashton, ma anche se stesso.

"E' sciocco, lo so. E' sciocco pensare che, nonostante tutto, essa sia ancora qui, dentro di noi. Eppure è così. Io voglio avere uno straccio di fiducia nel futuro, immaginarmi di trovare qualcosa che per me significhi tutto e che mi convinca a restare. Voglio iniziare ad amare qualcosa, qualcuno, per poi poter amare la vita intera." concluse, con la voce spezzata alla fine e le mani tremanti, che allungò per afferrare nuovamente lo Champagne.

Mandò giù un sorso per eliminare il nodo che si era creato tra le corde vocali e quello al centro del petto.

Ma il tutto si spostò solamente per accavallarsi nel suo stomaco.

 

Ashton era immobile, paralizzato, inesistente. Era come se avesse cessato di respirare e di vedere contemporaneamente, tutto attorno a lui si era oscurato, fino a diventare solamente un contorno scuro e sfocato.

Si sentiva come un bambino a cui viene rivelato che Babbo Natale non esiste, come quando si è costretti ad uscire dall'abbraccio caldo ed accogliente di una coperta, come sull'orlo di una cascata che lo trascinerà giù, senza fine e senza salvezza.

 

Era anche sorpreso dalla profondità delle parole di Calum.

Chiunque - perfino Ashton stesso - si sarebbe aspettato superficialità, arroganza, menefreghismo da parte di un ragazzo ricco.

La vita gli aveva concesso ogni lusso, ogni sfarzo, ogni comodità che tutti desideravano. Questo cambiava le persone, gli dava troppe certezze. E quando nella vita si hanno troppe certezze, non si hanno più timori, tutto diventa assolutamente scontato, garantito. E' questo che dà la possibilità alla gente di sentirsi superiori: la consapevolezza di poter avere ogni cosa, di essere padroni del proprio futuro, di non avere alcuna paura dell'ignoto.

 

Ma Calum non era così. Calum era diverso, era migliore, era speciale.

Era l'eccezione alla regola, quell'unico diamante puro in mezzo a migliaia di pezzi di vetro che si spacciavano per gemme preziose.

Non si era lasciato ingannare dalle bellezze superflue che la vita gli aveva offerto, non si era adagiato su ciò che era conscio di possedere, ma aveva guardato oltre, aveva ingannato la vita che aveva tentato d'ingannarlo.

Non si era lasciato abbindolare, ed aveva scovato tutto il disgusto, il degrado e lo schifo giacente sul fondo, nascosto sotto spoglie meravigliose, ma altrettanto infide e spinose.

 

Ashton lo ammirava.

 

"Dio, non so neppure perché ti sto dicendo tutte queste cose. Spesso sono pensieri che tengo solo per me, eppure eccomi qui, a spiattellare tutto ad un perfetto estraneo." ridacchiò il moro, con un'amarezza non troppo forte, alleggerita dal sincero divertimento che stava provando.

"E' strano anche per me." ammise Ashton, sorridendo timidamente, sempre con quel suo sguardo basso e colmo di una vergogna che non avrebbe mai dovuto indossare.

"Non so... Mi sento vicino a te in un modo del tutto irrazionale, infondato, assurdo. Però è così, e non so spiegarmi nemmeno il perché."

"Forse non c'è un perché. Forse è così e basta." Ashton fece spallucce, osando puntare i suoi occhi in quelli di Calum.

 

Si fissarono a lungo, intensamente, ed il castano non se ne accorse neppure per i primi secondi. Poi però gli occhi si Calum si fecero più penetranti, più scuri, più forti.

Iniziarono ad emanare un calore incontrastabile, soffocante, bruciante, rovente.

Ed Ashton si sentì andare a fuoco, a partire dalle guance fino ai polpastrelli delle dita.

Era tutto un fremito, un palpito, una sensazione strana quanto piacevole.

 

Era come se Calum lo stesse toccando ovunque senza farlo davvero. Poteva immaginarsi le sue dita tracciargli la pelle tesa sul collo, poi risalire quella più soffice di una guancia, per poi ridiscendere a sfiorare una clavicola, scivolando per tutte le braccia, e il petto, e i palmi, e i fianchi, e le cosce, e il ventre.

Stava per esplodere, per impazzire, per iniziare a grondare sudore.

 

Era tutto così intenso, così toccante, così travolgente.

Ashton non aveva mai provato nulla del genere solamente scrutando lo sguardo di una persona.

Sembrava che Calum stesse cercando di dirgli un miliardo di cose coi suoi occhi. Oppure non era nulla d'intenzionale, ma tutto dovuto a quelle iridi così scure e potenti.

 

Quando sentì l'aria mancargli nei polmoni e il cuore battergli una volta di troppo, distolse lo sguardo.

Solo a quel punto, tutto sembrò tornare alla normalità.

Il tempo aveva ripreso a muoversi, a scorrere, a camminare col suo ritmo costante.

Ed Ashton aveva ripreso ad inalare aria normalmente.

 

"E' un vero peccato" sentì dire a Calum, ma non si azzardò a guardarlo nuovamente negli occhi, "che una cosa fragile come te debba soffrire tanto."

Ashton lo sentì spostarsi, il rumore delle suole delle sue scarpe a strusciare con leggerezza contro il parquet, uno spiffero d'aria che trasportava il profumo della sua colonia costosa ad avvertirlo che fosse vicino, abbastanza da poter udire il suo respiro impercettibile vicino all'orecchio.

"Dovresti essere accudito, amato, trattato affinché non ci sia il rischio che possa romperti." proseguì, con tono soffice e vellutato, quasi stesse cantando una ninnananna ad un bambino.

Ashton rabbrividì in modo fin troppo piacevole.

 

Nessuno gli aveva mai parlato in quel modo, nessuno gli aveva mai detto certe cose, nessuno lo aveva mai trattato nel modo giusto, con dolcezza e passione.

E voleva che Calum lo facesse, voleva che si prendesse tutto il suo dolore, e voleva che gli desse il suo, per poter condividere le sofferenze che la vita gli aveva riservato, e cullarsi in un abbraccio salato come le lacrime che avrebbero rigato i loro volti.

 

Ma allo stesso tempo, detestava quella parte vulnerabile di lui. Odiava dipendere da qualcuno, odiava quella necessità di affetto, odiava quel vuoto al centro del petto.

Ed odiava se stesso, per non riuscire a dire di no a quegli occhi, per sentire consuetamente quella mancanza, per essere tornato debole, per aver dato troppa importanza ad una persona che, come tutti gli altri, se ne sarebbe andata.

 

Ashton aveva giurato che mai, mai si sarebbe innamorato di qualcuno. Sarebbe stata solo l'ennesima delusione, l'ennesima sofferenza, l'ennesimo colpo che lo avrebbe fatto crollare a terra in mille pezzi.

Al contrario della maggior parte delle persone, non vedeva l'amore come qualcosa di bello.

L'amore non aveva assolutamente nulla di poetico, dolce o meraviglioso. Era come una rosa: affascinante e stupendo all'apparenza, ma, non appena tentavi di toccarlo, ti pungevi con le sue spine.

Era un inganno, un gioco di luci e colori, di sentimenti e racconti tramandati nei secoli.

 

La gente aveva attribuito sempre tanta importanza a quel sentimento, ma cos'aveva in più degli altri?

Cosa spingeva le bambine a sognare il principe azzurro, gli anziani a rimpiangere il primo amore, gli adolescenti a sperare di trovare il proprio?

Perché l'amore aveva questa fama sopravvalutata?

Se Ashton avesse potuto urlare e farsi sentire dal mondo intero, avrebbe detto a tutti che l'amore faceva davvero schifo.

 

Da piccolo, non ne aveva parlato quasi mai, né con i suoi genitori, né con chiunque altro.

Crescendo, lo aveva evitato così come si evita la peste, e andando avanti con gli anni era diventato sempre peggio.

Quando poi aveva capito di essere gay, aveva passato un periodo orrendo.

I suoi complessi d'inferiorità erano andati a degenerare, la sua autostima si era ridotta ad un nonnulla, e detestava la compagnia di chiunque.

Si era isolato dal mondo intero, un po' per paura di ciò che avrebbero potuto pensare gli altri, ed un po' perché non si sentiva mai a suo agio, non importava dove andasse, cosa facesse, o con chi si trovasse.

 

C'era voluto molto tempo per accettarlo, per trovare una sorta di equilibrio tra il mondo e se stesso. Ma, alla fine, ce l'aveva fatta.

Adesso lo viveva come la normalità, com'era giusto che fosse, ma ancora con quel timore e leggero sdegno nei confronti dell'amore.

Nonostante ciò, nonostante la consapevolezza che avrebbe sofferto solamente di più, si sentiva comunque incompleto senza qualcuno in grado di dargli quelle attenzioni che agognava e che lo avrebbero fatto sentire meglio.

 

E Calum era lì, bello come il sole di primo mattino, piombato nella sua vita come la prima goccia di pioggia che macchia la limpidezza di un cielo senza nuvole, e che presto sarà seguita da un'altra, ed un'altra ancora, ed ancora, fino a che non avrebbe iniziato a diluviare. E tutto si sarebbe sfaldato come creta.

Ashton non poteva permettersi di lasciarsi andare così, non poteva permettere che uno sconosciuto gli entrasse tanto sotto la pelle - anche se probabilmente lo aveva già fatto.

Per questo finse disinvoltura e si versò un altro bicchiere di Champagne.

 

Calum fissò i suoi spostamenti con curiosità, con dedita attenzione, con minuziosa cura, quasi stesse ammirando un ballerino danzante sul palco.

Ed Ashton poteva sentire le guance andargli in fiamme, il collo iniziare ad imperlarsi di goccioline invisibili di sudore, le mani diventare più tremanti ad ogni secondo che passava.

 

"Ti ho messo in imbarazzo?" esordì Calum, facendo sobbalzare leggermente il riccio, che rischiò addirittura di versare un goccio di liquido dorato fuori dal calice. Dal suo tono di voce sembrava divertito, ma Ashton decise di non rispondere comunque.

"Scusami, non era mia intenzione. Forse sono stato troppo diretto. E' che non riesco a fare a meno di far notare la loro rarità e bellezza alle cose che non sanno neppure di esserlo." sorrise il moro, con così tanta dolcezza e smielatezza che Ashton rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva, fattasi più consistente in seguito al sorso di Champagne frizzante, il quale gli aveva stuzzicato le papille gustative.

 

"I-io... Non ci sono abituato, tutto qui." si sforzò di rispondere, anche se con voce tremante e dannatamente insicura.

Calum sorrise ancora più ampiamente, poi lo sentì avvicinarsi ancora di più, troppo. Allungò una mano dalle dita affusolate e gli posò delicatamente l'indice e il medio sotto al mento, per sollevarglielo con lentezza.

Ashton però continuò a far vagare i suoi occhi ovunque, tranne che in quelli di Calum, a pochi centimetri dai suoi.

 

Quando Calum fece per avanzare ancora di più, Ashton andò completamente nel panico e si ritrasse di scatto, terrorizzato e frastornato da tutte quelle sensazioni e la vicinanza col corpo del moro, profumato ed inebriante, colmo di fascino.

Calum ridacchiò, facendo un passo indietro, "Non stavo per baciarti, tranquillo. Voglio solo guardarti negli occhi. Perché continui ad evitarmi?"

"Cosa cerchi nei miei occhi?" indagò Ashton, leggermente offeso ed inquisitore.

"Nulla, mi piacciono e basta. Sono davvero belli."

"Oh" Ashton rimase sinceramente sorpreso, "A-anche i tuoi sono... mi piacciono molto."

 

Il sorriso sul volto del moro si fece impossibilmente grande, a tal punto da diventare luminosissimo, fino a far luce sull'intera stanza e nel petto di Ashton.

Quest'ultimo arrossì, pentendosi di essere stato tanto schietto, ma la reazione di Calum lo fece sentire decisamente meglio.

Il suo sorriso era così bello e raggiante.

 

"Hanno un colore particolare. E sono rimasti perfetti, nonostante tutto lo schifo che hanno visto." aggiunse Calum, continuando a studiare il volto dell'altro ragazzo, adesso leggermente più calmo e finalmente con le iridi nelle sue, "Li guarderei all'infinito, senza mai stancarmi."

"Perché mi stai dicendo tutte queste cose?" chiese Ashton, spaesato.

"Perché mi sento triste per te, e non riesco a far a meno di pensare che poco fa fossi su quel tetto. Non riesco a sopportare l'idea che l'universo possa perdere una cosa tanto unica come te."

"C'eri anche tu, su quel tetto." gli ricordò il castano, cercando di non lasciarsi ammaliare dalle parole dell'altro.

"Io non sono neanche lontanamente paragonabile a ciò che sei tu. L'universo potrebbe far a meno di uno come me."

"Ma io no."

 

Ashton si morse la lingua, ma ormai era troppo tardi.

Gli occhi di Calum erano ben aperti con interesse, con stupore ed affetto sincero. Dritti in quelli di Ashton, così vicini da potersi quasi mescolare.

 

"N-non... Io... E' che..." balbettò Ashton, cercando di uscire fuori da quella situazione a dir poco imbarazzante, "Nessuno mi ha mai detto certe cose, quindi te ne sono grato."

Calum sorrise, scuotendo la testa, "Vuoi restare stanotte?"

 

***

 

Ashton non si era reso conto di quanto aveva bevuto, fino a quando non aveva dovuto muovere un passo per uscire dalla cucina.

A quel punto, tutto aveva perso consistenza, la casa aveva iniziato a girare in modo illecito, e le sue gambe erano diventate molli come burro, incapaci di sorreggerlo.

Aveva rischiato addirittura di cadere rovinosamente a terra, ma una presa salda e decisamente più stabile della sua lo aveva afferrato per le spalle, impedendogli di andare in avanti.

Quando si era voltato ed i suoi occhi avevano incontrato il volto sorridente di Calum, aveva sorriso anche lui spontaneamente, senza pensarci, mentre il moro lo aiutava a tornare sui suoi piedi e lo guidava gentilmente verso la sua camera.

 

Ashton era diventato insensibile. Era come se i suoi sentimenti fossero ovattati, e la sua testa era come rivestita da pareti insonorizzate e spesse, che non lasciavano trapassare nulla, neanche il minimo suono o pensiero.

E stava così fottutamente bene.

 

Le mani di Calum poggiate sopra le sue spalle, a sorreggerlo e guidarlo, erano così calde e morbide che avrebbe voluto supplicarlo di non toglierle più.

Il suo busto era premuto leggermente contro la schiena del castano; poteva sentire il petto ampio di Calum toccargli le spalle, o il suo bacino sfiorargli la parte bassa della schiena ogniqualvolta rischiava d'inciampare nuovamente e si piegava in avanti per un istante.

Era piacevole avere Calum vicino. Il suo corpo era così caldo, soffice e solido al tempo stesso, rassicurante, quasi come un riparo in mezzo alla tempesta, o un'oasi nel mezzo del deserto.

Ad Ashton piaceva sentirlo così attaccato, quasi pelle contro pelle, in ogni frizione involontaria delle loro braccia, dei loro fianchi, delle loro gambe, che alle volte s'intrecciavano.

 

Quando Ashton rischiò di prendere in pieno lo stipite aguzzo di una porta, Calum lo tirò indietro bruscamente, proprio un secondo prima che lo colpisse.

Il castano finì però per inciampare sui suoi stessi piedi e barcollare all'indietro, finendo però nuovamente nella presa di Calum, che stavolta avvolse le braccia attorno alla sua vita.

Ora erano faccia a faccia.

 

Il moro gli sorrise, sempre gentile e discreto, mentre Ashton cercava di focalizzare la sua vista sfocata sul volto di fronte a lui, a qualche misero centimetro di distanza.

Sbatté rapidamente le palpebre un paio di volte, prima di riuscire a distinguere i contorni del volto di Calum.

Arrossì quando si rese conto della vicinanza inappropriata dei loro corpi, e degli occhi di Calum fissi sulle sue labbra semi-aperte.

 

"S-scusami tanto." balbettò imbarazzato, "Sono un casino."

Calum scosse semplicemente la testa e ridacchiò, lasciando scivolare le sue mani da sopra le spalle di Ashton lungo i suoi fianchi, senza però toccarlo davvero, solamente sfiorandolo a malapena.

Il riccio rimase sorpreso quando prese una delle sue mani nella propria e lo tirò piano dietro di sé, per incitarlo a continuare a camminare.

 

Quel corridoio sembrava immenso ed infinito, ma alla fine raggiunsero la stanza di Calum senza altri piccoli incidenti di percorso.

La mano di Calum era calda, soffice, delicata, stretta non troppo forte a quella di Ashton, mentre lo sospingeva pazientemente verso il letto e ce lo faceva sedere sopra.

 

"Ti dispiace se dormo con te?" chiese Calum, con un tono tranquillo e moderato, senza alcuna traccia di malizia o di sottintesi; era una semplice richiesta senza doppi fini, posta con sincero interesse e preoccupazione, che riuscì a non imbarazzare ulteriormente il castano.

Anche se era immobile, seduto sul bordo del letto dalle lenzuola setose e morbide, con un profumo che ricordava quello della pelle di Calum e di un qualche detersivo davvero buono, e non sapeva cosa dire, cosa fare, se dovesse lasciar andare la mano di Calum ancora nella sua, scosse la testa. Scosse la testa quasi senza esitazione, come se fosse un gesto diretto, scontato, immediato.

Non gli dispiaceva, affatto. Anzi, era contento e sollevato di non dover passare un'altra notte tra coperte fredde come carta stagnola e braccia gelide quanto inesistenti come quelle del vento.

Era da sempre che avrebbe voluto qualcuno al suo fianco, soprattutto durante tutte quelle notti in cui le lacrime sembravano non finire e il freddo solamente aumentare di ora in ora.

 

Calum si sedette sul letto accanto a lui ed iniziò a sfilarsi le scarpe, poi i calzini, passando alla cinta e al bottone dei pantaloni.

Ashton distolse lo sguardo, ringraziando il buio che lo avvolgeva e mascherava il leggero rossore comparso sulle sue guance.

Un altro fruscio di tessuto indicò che anche la maglietta fosse finita sul pavimento, assieme al resto degli indumenti del moro.

 

Quest'ultimo si voltò verso Ashton, a testa bassa e silenzioso, mentre ammucchiava tutti i vestiti sporchi in un angolo del pavimento, spingendoli da parte col piede.

"Hai intenzione di dormire così?" domandò con un sorriso, facendo sollevare di scatto la testa di Ashton.

Quando però i suoi occhi incontrarono la pelle ambrata e liscia del petto del moro, schizzarono immediatamente nella direzione opposta.

"Tu hai intenzione di dormire così?" chiese a sua volta Ashton, sentendo le guance andargli letteralmente a fuoco.

Calum ridacchiò sommessamente, quasi intenerito e divertito al tempo stesso, "Certo, perché no? Dormo sempre così."

Il castano roteò gli occhi al cielo, "Come ti pare."

"Vuoi una tuta?"

"Grazie."

 

Calum si alzò dal letto, ancora con indosso solo i boxer, e si avvicinò all'immensa cabina armadio sulla sinistra, riemergendone con un paio di pantaloni grigi e perfettamente stirati.

Li lanciò ad Ashton, che li afferrò a malapena, ancora cercando di non puntare gli occhi su nessuna parte esposta del corpo di Calum.

Esitò un istante, tenendoli tra le mani e stringendo la stoffa, "Potresti..."

Il moro sollevò le mani come in segno di resa, portandosele poi davanti agli occhi e dandogli le spalle.

Ashton sorrise, senza poter però fare a meno di ammirare i muscoli della schiena di Calum.

 

Le spalle non erano eccessivamente larghe o piazzate, bensì muscolose al punto giusto, proporzionate al resto del busto e dritte, salde, perfette.

La spina dorsale, che scendava dal collo per poi attraversare tutta la schiena, era leggermente in rilievo, un po' troppo sporgente, forse per via della posizione leggermente curva.

I dorsali erano ben definiti, grandi, ampi. Occupavano la maggior parte del retro ed erano stati chiaramente sottoposti a vari esercizi fisici per arrivare a possedere una massa del genere, tanto scolpita.

Gli infraspinati erano più sottili, leggermente trascurati rispetto agli altri muscoli, posti simmetricamente sopra le scapole, poco più sotto del trapezio, ma affascinanti allo stesso modo.

 

"E' la seconda volta in una giornata che mi chiedi di girarmi." la voce di Calum lo fece tornare sul pianeta Terra, riscuotendolo bruscamente dalla sua contemplazione, "Non dovresti essere così timido. Non hai nulla di cui vergognarti."

Ashton si affrettò a sfilarsi i pantaloni, cercando di non perdere altro tempo.

"Oppure sono io a non essere degno di guardarti?" continuò il moro, senza sincera offesa nella sua voce, bensì con un tono giocoso che nessuno avrebbe preso sul serio.

Ma Ashton sì.

 

"Ho f-fatto." bisbigliò, non sentendosi a suo agio ad avere il petto nudo, privo del tessuto della sua maglietta ormai sporca e sudata, così esposto agli occhi castani di Calum.

Quest'ultimo si voltò con un sorriso dolce ad increspargli le labbra, ed Ashton sentì il cuore risalirgli l'esofago quando, quasi involontariamente, le sue pupille scure si posarono per un breve attimo sul suo torso scoperto, risalendo fulmineamente ad incontrare quelle ambrate dell'altro.

"Va meglio?" chiese Calum.

"Decisamente."

"Ho uno spazzolino in più, vieni." il moro gli fece cenno di seguirlo, avvicinandosi ad una porta chiara dal lato opposto della stanza, che, aprendosi, rivelò un bagno spazioso ed utile, rivestito di piccole mattonelle disposte a formare un mosaico sulle tonalità dell'azzurro.

Si avvicinò al lavandino in ceramica e lanciò uno spazzolino ad Ashton, che lo afferrò al volo, colto leggermente alla sprovvista. Calum si sciacquò i denti per primo, lasciando poi il posto al castano, che si sentì leggermente in soggezione quando notò che l'altro fosse rimasto a braccia incrociate ad aspettarlo, con una spalla appoggiata allo stipite e le caviglie intrecciate.

 

Una volta chiusa l'acqua, si sporse per afferrare un asciugamano pulito che gli stava porgendo Calum e, quando se lo passò sul viso, poté distinguerne il suo profumo anche lì.

Sorrise contro la stoffa e poi lo restituì al moro, che lo lanciò con noncuranza dentro una cesta piena fino all'orlo di panni sporchi.

Ashton si chiese brevemente chi facesse il bucato, chi pulisse quella casa enorme, e chi si occupasse che fosse sempre impeccabile.

Calum viveva da solo, ma non poteva essere lui a svolgere ogni singola faccenda domestica - a meno che non fosse un maniaco del pulito e dell'ordine.

Probabilmente, aveva una domestica che lavava, stirava e puliva a spese dei genitori.

 

Il moro si gettò sul letto con un sospiro, passandosi i palmi sopra i lineamenti stanchi ed assonnati, lasciando Ashton in piedi davanti al letto, titubante, senza sapere cosa dovesse fare esattamente.

Calum lasciò cadere un braccio davanti agli occhi, abbandonando l'altro sul materasso mentre distendeva le gambe.

Il riccio attese qualche secondo in silenzio, indeciso su cosa fare ed ancora imbarazzato.

 

"Puoi dormire nel letto, se vuoi." mormorò Calum, con voce impastata e camuffata dal braccio posto sopra il suo viso.

Ashton si prese il labbro inferiore tra i denti, combattuto.

"Non mordo mica." aggiunse il moro, già quasi sul punto di addormentarsi.

 

Il castano, in silenzio, si piegò sul letto, poggiando un ginocchio dopo l'altro sul materasso e gattonando fino a posare la testa sui cuscini soffici.

Il letto di Calum era matrimoniale e spazioso, quindi non c'era un alto rischio che i due ragazzi si toccassero, ma Ashton si posizionò lo stesso all'estremità del bordo, quasi sul punto di cadere, in bilico tra il materasso ed il pavimento.

"Vieni più vicino, ho freddo." mormorò Calum, voltandosi a pancia in sotto, la faccia premuta contro il cuscino. Allungò un braccio, tastando alla cieca il materasso vuoto accanto a lui.

 

Ashton esitò ancora, poi però gli si fece più vicino, spostandosi lentamente più avanti, fino ad arrivare a sfiorare il suo braccio disteso.

Quando la punta delle dita gli sfiorarono l'avambraccio, Calum girò la testa per guardare con occhi semi-chiusi ed assonnati il volto di Ashton, chiaramente allarmato ed imbarazzato.

Il moro ritrasse il braccio e scorse lungo il materasso, facendosi ancora più vicino all'altro ragazzo. Poi, con un sospiro, richiuse gli occhi.

Ashton rimase immobile, rigido ed in allerta, col corpo di Calum così vicino da poterlo quasi sfiorare con il proprio, ed il suo respiro ad infrangersi delicatamente contro la sua spalla scoperta.

 

Fissò il suo volto tranquillo, i lineamenti finalmente distesi, le labbra pressate dolcemente tra loro e le sopracciglia folte leggermente aggrottate; il suo petto si alzava ed abbassava lentamente, riscendendo ad ogni respiro, sollevandosi ogni volta che inalava dell'ossigeno.

Ashton decise di smetterla e mettersi finalmente a dormire quando realizzò quanto fosse inquietante il fatto che stesse fissando Calum in quel modo, da così vicino. Chiuse gli occhi e si sistemò meglio contro il cuscino, girandosi su un fianco, in modo da dare la schiena al moro, per non cedere nuovamente alla tentazione di ammirarlo.

L'unico rumore udibile all'interno della stanza era il palpitare euforico del suo cuore ed il respiro leggermente più pesante di Calum.

 

Quando era finalmente sul punto di lasciarsi vincere completamente dal sonno - ormai rilassato e leggermente più sereno -, la voce roca ed assonnata del moro lo fece sobbalzare e spalancare gli occhi.

"Sai..." sussurrò flebilmente, quasi spaventato dal suono intruso della sua voce in quel silenzio sospeso nel nulla e tra i loro respiri, "Sono felice."

Ashton non si mosse, rimase immobile, trattenendo il respiro e stringendo più forte la federa del cuscino tra le dita, in attesa che Calum proseguisse.

E lo fece:"Sono felice di non essermi ucciso, stasera. Perché ho conosciuto te."

 

Il cuore del castano sprofondò in un trambusto di emozioni e solletichii che lo sorpresero; era da tanto - una vita - che non provava qualcosa di così intenso, di così forte e sconvolgente.

La sua apatia si stava pian piano dissolvendo, lasciando il posto ai primi accenni di sentimento, ai primi barlumi di un'emozione reale, all'infuori del dolore e della tristezza. Come la notte buia schiarisce lentamente, fino a sfumare nel colore tenue e caldo delle primi luci dell'alba, così il nulla che possedeva Ashton da sempre stava variando, si stava tramutando in qualcosa di ancora sconosciuto, ma decisamente più piacevole del vuoto costante ed opprimente che percepiva ovunque, che lo inghiottiva e lo faceva sparire.

 

E la causa di tutto quello era Calum.

Calum, Calum, Calum.

Lo conosceva appena, inizialmente lo aveva addirittura odiato, ma non poteva più negare di esserne innegabilmente ed irresistibilmente attratto, come da una fiamma sperduta in mezzo al gelo, che conferisce quel poco di calore necessario per non morire ibernato.

Non sapeva cosa avesse di speciale, ma per lui lo era, ed era riuscito a stravolgere la sua vita e tuttto ciò che era sempre stato in pochissimo tempo.

Nessuno c'era mai riuscito, nessuno gli era entrato sotto la pelle in modo così indelebile ed invadente.

 

Attese lunghi e lenti minuti in silenzio, senza dire nulla, godendosi quel formicolio alla bocca dello stomaco e il battito ormai pertinente e scalpitante del suo cuore impazzito di gioia.

Poi sorrise.

Si sentiva così bene; non si ricordava come fosse sorridere davvero, sentire quel minuscolo impulso che ti faceva incurvare le labbra ed assottigliare gli occhi.

Sorrise.

"Anch'io." sussurrò, prima di chiudere definitivamente gli occhi ed addormentarsi una volta per tutte.

 

***

 

Ashton si svegliò lentamente, un odore acre di fumo misto a quello dell'asfalto bagnato di primo mattino ad insinuarglisi lentamente nelle narici, mentre a poco a poco tutti i suoi sensi riacquistavano piene capacità.

Sollevò una palpebra alla volta, il volto intorpidito per essere rimasto troppo tempo premuto sulla stessa parte del cuscino ed i muscoli completamente distesi e riposati.

Era davvero tanto tempo che non faceva una dormita, priva di incubi o ore intere passate a fissare il soffitto e a rimpiangere ogni singolo giorno trascorso.

Gli era mancata quella sensazione di rinascita, di torpore e confusione momentanea, l'estraniarsi dal mondo intero per qualche ora e svuotare completamente il cervello, staccare la spina da ogni collegamento con l'esterno e godersi quel nulla tanto confortante.

 

Quando le sue iridi riuscirono ad abituarsi alla luce pungente che proveniva dalla finestra aperta, distinse la figura leggermente sfocata ed indistinta di un corpo curvo, affacciato alla finestra, le spalle piegate in avanti e prive di tessuto a ricoprirle, una massa di capelli neri e il fumo sottile di una sigaretta che danzava nell'aria prima di disperdersi all'esterno.

Calum.

Notò anche che stesse piovendo; piccole goccioline rapide e sottili a cadere come un'unica sferzata dal cielo rannuvolato e grigiastro, il colore simile a quello di una perla sul fondo dell'oceano.

 

Calum gli stava dando le spalle, per cui non poteva sapere che si fosse appena svegliato.

Ashton decise di godersi quei pochi minuti d'inconsapevolezza e neutralità per osservare di nascosto ogni singolo movimento del moro, a partire dal modo in cui i tendini in rilievo della sua mano sinistra si contraevano ogniqualvolta dava un colpo leggero col pollice sul filtro per lasciar cadere a terra la cenere in eccesso, ai disegni intricati che i muscoli della sua schiena creavano armoniosamente, quando respirava o quando sollevava momentaneamente la testa al cielo per vederlo piangere.

Era una visione abbastanza triste: Calum da solo, affacciato ad una finestra troppo piccola per le sue spalle ben piazzate, una sigaretta a metà tra le dita e la pioggia a battere incessante, arrivando perfino a bagnare il pavimento della camera con alcune gocce ed il davanzale in legno.

Ma ad Ashton piaceva, perché era così bello ogni singolo dettaglio di quell'istante che gli sarebbe piaciuto fotografarlo.

Inoltre aveva sempre amato l'odore della pioggia, l'asfalto inumidito, la consapevolezza che fuori stesse diluviando mentre lui era stretto nell'abbraccio di una coperta calda e soffice.

Lo faceva sentire al sicuro e gli conferiva quel senso di malinconia che gli piaceva provare, sentire sulla pelle e percepire alla caduta di ogni goccia troppo pesante.

 

L'incanto di quel momento purtroppo non durò quanto sperato.

Ashton si lasciò sfuggire un sospiro, simile ad uno sbadiglio trattenuto, che fece voltare Calum.

Un sorriso dolce ammorbidì l'espressione sorpresa che gli aveva attraversato il volto un attimo prima, non appena i suoi occhi si poggiarono sulla figura di Ashton avvolta dalle coperte, col viso sprofondato nel cuscino ed i capelli sparsi ovunque, indisciplinati ma ancora soffici anche solo a guardarli.

Il ragazzo nel letto arrossì, cercando di nascondersi ulteriormente contro il cuscino, sorridendo come uno stupido, senza alcun reale motivo.

Era felice e basta, aveva voglia di correre per strada e gridare al mondo quanto stesse bene in quel momento.

Aveva dimenticato com'era sentirsi completi, anche per un solo attimo.

 

"Sei sveglio." disse Calum, ed Ashton si chiese perché non avesse usato un semplice buongiorno.

Aggrottò le sopracciglia e si stropicciò col dorso della mano gli occhi, mormorando che ore fossero.

"Le tre del pomeriggio." rispose il moro, il sorriso onnipresente sul suo viso ancor più sconvolgente della sua affermazione.

Ashton sgranò gli occhi di colpo, allibito, "Cosa?"

"Hai fame?" chiese Calum. La tranquillità con cui parlava e con cui si muoveva non fecero altro che sconvolgere l'altro ragazzo ancora di più.

"Mi hai lasciato dormire tutto questo tempo?" esclamò.

Il moro fece spallucce, "Dovevi essere molto stanco."

 

Effettivamente lo era tuttora, nonostante le ore extra di sonno, eppure non riusciva a non sentirsi un po' in colpa.

Aveva dormito fino alle tre del pomeriggio dentro casa di un completo sconosciuto, nel suo letto, comportandosi come se fosse del tutto a suo agio.

Si sentiva come se avesse approfittato troppo della gentilezza di Calum, ed inoltre sapeva che non avrebbe potuto ripagarlo in alcun modo perché non aveva nulla da offrire o nulla all'altezza.

Si stava vergognando di se stesso, dei suoi modi di fare, della sua sfacciataggine, dei suoi inesistenti scrupoli e preoccupazioni.

 

Il piano iniziale era quello di svegliarsi prima di Calum, filare via senza lasciare traccia e non farsi mai più trovare, come una di quelle puttane che si raccattano ai lati della strada, fuori dai locali affollati solo il sabato sera.

Ed invece era andato tutto storto, ogni sua idea era crollata e si era ritrovato spiazzato, dentro un letto che non era il suo, con un ragazzo sorridente e bellissimo che gli stava addirittura offrendo la colazione - o merenda?

Era davvero una persona di merda.

 

Ma non riuscì a pentirsene, neanche quando, con voce timida ed insicura, chiese:"Posso avere del caffè?"

Il sorriso ancora più ampio sul volto di Calum ne valse mille volte la pena.

 

***

 

"Ora... dovrei davvero andare a casa." mormorò Ashton, ancora più mortificato per essersi trattenuto tanto a lungo ed averne approfittato.

Calum gli stava dando le spalle, la testa china e le mani immerse fino a metà avambraccio nella schiuma del lavandino, mentre lavava e sfregava con cura le tazzine in ceramica dalle quali avevano bevuto il caffè poco prima.

Ashton aveva tentato di aiutare, ma era stato immediatamente respinto con un secco:"Lascia fare a me". Ed ora si sentiva ancora più in colpa di prima.

 

"Non ti va se ci guardiamo un film insieme o cuciniamo qualcosa per dopo? Oppure possiamo andare a fare un giro, compriamo qualcosa, o possiamo-"

"Calum." lo interruppe Ashton, notando che stava inziando a blaterare in modo troppo nervoso.

Il moro smise subito di parlare, lasciando la tazzina che stava tenendo stretta tra le mani a galleggiare nel sapone, per poi voltarsi con un sospiro a guardare il riccio.

"Perché stai cercando di trattenermi qui?" domandò quest'ultimo.

"Non mi piace che tu stia da solo troppo tempo, inoltre vorrei anch'io un po' di compagnia ogni tanto, dato che-"

"Calum." lo interruppe di nuovo, il tono fermo e duro che sorprese il moro, "Perché stai cercando di trattenermi?"

"Io..." esitò un istante, asciugandosi i palmi ancora umidi sul retro dei jeans che indossava, "Ho paura."

Ashton sollevò un sopracciglio, "Di cosa?"

"Che tu possa fare qualche cazzata."

 

Ci fu un attimo di silenzio, mentre Ashton finalmente realizzava ciò che intendeva Calum, ed il moro restava a fissare il pavimento in imbarazzo.

Allora era così: non si fidava di lui.

"Hai paura che io mi possa ammazzare?" esclamò Ashton, forse con troppa rabbia.

"Solo-"

"Non puoi rinchiudermi qui per sempre! Cosa pensi di fare, eh? Seguirmi come un fottuto angelo custode?"

Adesso stava decisamente urlando, ne era certo. Sentiva la gola bruciare, le corde vocali tirare più del solito e l'aria tremare sotto il peso della sua voce.

Calum sobbalzò appena, forse sopreso da quello scatto d'ira.

Non si sarebbe aspettato una reazione del genere da Ashton, ma non poteva dire di conoscerlo alla perfezione.

 

"Mi sto solo preoccupando per te! Non voglio che tu ti faccia del male, perché m'importa di te. Almeno promettimi che non farai cazzate, ti prego." supplicò Calum con occhi immensi ed un'espressione addolorata, come se gli stesse costando tantissimo lasciar uscire Ashton da quella casa.

"Non vedo perché dovrebbe importarti di me. Anche se mi uccidessi, cosa ti cambierebbe?" urlò Ashton in risposta.

Non intendeva essere così sgarbato o brusco, ma non riusciva a controllarsi. Sentiva la rabbia incendiargli le vene ed ogni capillare, il cuore pompargli così forte da non riuscire a contenerlo e la vista annebbiarsi sempre di più.

Conosceva fin troppo bene questi sbalzi d'umore, purtroppo.

 

"Non essere stupido, Ash. Ho bisogno di sapere che stai bene per stare bene." rispose Calum, con così tanta calma e sincerità che il riccio si ritrovò per un istante a corto di parole per ribattere.

"Cosa pensi che me ne importi che tu stia bene? Non puoi controllare la mia vita. Dio, non puoi neanche pretendere di farne parte! Non sei nessuno per me. Questa storia sarebbe dovuta finire ieri su quel tetto. Anzi, non sarebbe dovuta neppure cominciare." sputò Ashton, pentendosene l'attimo dopo aver pronunciato ogni singola parola, ma non riusciva a controllarsi, non era se stesso.

Era semplicemente infastidito, terrorizzato, insicuro, instabile, demotivato, stanco, confuso e delirante.

Voleva starsene solo per un po', ed il fatto che Calum non volesse lasciarlo in pace lo aveva fatto arrabbiare.

Non solo era diventato insistente, ma aveva addrittura ammesso che non l'avrebbe lasciato da solo per paura che potesse decidere nuovamente di suicidarsi.

Non era un malato mentale, non aveva bisogno di un assistente o di essere rinchiuso tra quattro pareti con telecamere puntate ovunque, come in un manicomio.

Per lui era difficile da accettare il fatto che qualcuno si preoccupasse seriamente per la sua salute. Non ci era abituato.

 

Calum era rimasto in silenzio, lo sguardo spento ora lasciato sospeso tra quello di Ashton ed il pavimento, le labbra semi-aperte, come se fosse sul punto di dire qualcosa. Alla fine, invece, le serrò duramente, pressandole in una linea retta, così sottile da scomparire, e si voltò dall'altra parte, tornando a dare le spalle al riccio.

"Hai ragione" mormorò, la voce spenta ed irriconoscibile, "Non sono nessuno per te. Non sono nessuno e basta. Vorrei tanto fare l'eroino, quando fino a ieri ero nella tua stessa situazione. Non posso salvarti, anche se vorrei farlo. Per un attimo, ho solo creduto che avremmo potuto salvarci a vicenda. Ma ho fatto tanti errori nella mia vita, e credo che questo sia solo l'ennesimo. Quindi va', esci da questa casa, esci da quella porta e sparisci chissà dove. Sappi solo che non ti dimenticherò."

 

Ashton esitò un istante, la gola secca e le dita tremanti, mentre un leggero senso di colpa andava ad attanagliargli l'intestino e risaliva fino al collo.

Si sentiva soffocare, non riusciva a pensare, non capiva più nulla.

Voleva scusarsi, voleva scappare lontano, voleva urlare, voleva strapparsi i capelli e chiudere gli occhi per altre dodici ore.

Invece, tutto ciò che fece fu solo voltarsi ed uscire da quella casa.

 

Il tonfo della porta che si chiudeva precedette il silenzio infinito che regnò da quel momento in poi nella vita di Calum.

Si era illuso che forse si meritasse anche lui di essere felice, almeno un po'.

Ma le illusioni non sono mai fatte per essere reali.

E la sua unica fonte di felicità era appena corsa fuori da quella porta, forse per sempre.

 

***

 

Erano passate quasi tre settimane. Diciotto giorni esatti dall'ultima volta che Ashton aveva visto Calum.

Da quel giorno, non era riuscito neanche un istante a smettere di pensare a lui.

Era costantemente nella sua testa. Lo sognava addirittura, immaginava il suo tocco, un bacio sulla fronte, un sorriso di primo mattino, l'odore di pioggia e di sigaretta, d'incontrarlo sul marciapiede, di tornare a quella notte ad Archway Tower, il suo profumo sulla pelle, il suono lieve della sua voce.

Calum era sempre e costantemente presente, conficcato nella sua carne come una di quelle spine che ti s'incastrano sottopelle e non riesci a togliere in nessun modo, appartenenti ad una rosa tetra e crudele, la più velenosa di tutte.

 

Era facile dirsi di non pensare a Calum. Riuscire a farlo era un'altra cosa.

Ashton continuava a visionare la situazione sotto un'ottica razionale, empirica, la trasponeva in contesti differenti, si sforzava di pensare a quali sarebbero state le dinamiche se le cose fossero state diverse, sminuiva e rimuginava pur di scendere a patti con quel che provava.

A quel che provava, invece, non importava un accidente di scendere a patti col giudizio.

 

Ashton non andava fiero dei suoi sentimenti. Non ora, non dopo così poco tempo passato assieme a Calum; non dopo il dolore, la delusione, l'imbarazzo; non dopo essersi visto nello specchio delle sue lacrime ed essersi scoperto null'altro che un ragazzino privo di un cuore abbastanza sveglio da accorgersi dove fosse il valico da non superare.

 

Non aveva idea di quando il suo cuore avesse iniziato a palpitare per Calum.

Era successo.

Forse uno dei suoi sorrisi, forse il suo candore, forse il suo atteggiamento ambivalente, in bilico tra l'essere uno spirito libero ed un corpo distrutto, consumato, eroso dal mondo frenetico che lo circondava. O forse era stata la confusione che era scaturita nel cuore di Ashton, la sua forza d'animo che si scatenava nei momenti inaspettati, la bravura con cui dietro un'immagine costruita ad arte nascondeva la sterminata temperanza con cui equilibrava la sua vita.

 

Era successo, ed Ashton si sentiva un imbecille per essersi avvicinato a lui, convinto di starsi lasciando aiutare da chi soffriva come lui, da una delle poche persone - se non l'unica - che avrebbe potuto comprendere la sua fragilità sotto il peso di ogni giorno.

Ed aveva ormai capito che fosse inutile fuggire, obbligarsi a non andare a sbattere con violenza contro verità che nel quotidiano scivolavano, sgusciavano, si sottraevano come sabbia che sfuggiva da una clessidra rotta.

 

Ogni giorno che passava senza Calum era tacere, sorvolare, attendere che accadesse qualcosa: una seconda ispirazione, una delucidazione, un cambiamento, l'apocalisse, la saturazione. Qualcosa che confermasse o smentisse, che consolidasse o dissipasse, che posasse sulla sua strada un qualunque cartello che gli mostrasse la via giusta da prendere, perché Ashton non la conosceva.

Ashton si era perso.

Senza Calum era perso, più di quanto già non fosse.

 

Ogni singolo brivido lungo la schiena portava il suo nome, ogni sussurro, ogni goccia di sangue, ogni respiro esalato, ogni passo troppo lungo, ogni carezza, pugno, schiaffo.

Era un'ossessione.

Anche nel silenzio, lui c'era sempre.

C'era di notte, quando spegneva le luci; c'era quando vagava per casa senza sapere cosa fare, quando chiudeva gli occhi e sospirava, quando fissava la finestra come se fosse l'unica via diretta per il paradiso.

 

Era una sensazione strana.

Era un'assenza, ma al tempo stesso non lo era.

Calum non c'era, ma era come se ci fosse, perché continuava a vivere tra i ricordi di Ashton, nella sua mente, nei suoi sogni, nella sua immaginazione.

Calum non svaniva mai del tutto.

Era come se avesse lasciato una traccia indelebile di se stesso al suo passaggio, destinata a non svanire mai più.

 

Intanto il tempo passava. Passava senza compassione, senza regole, senza compromessi.

I giorni si assottigliavano fino a diventare inesistenti, i minuti non erano mai abbastanza, erano come briciole lasciate cadere a terra distrattamente, di cui le persone si nutrivano pur di avere qualcosa, qualsiasi cosa.

Era estenuante. Non era né la fretta né la placida e lenta durata del tempo. Era semplicemente il suo scorrere, fluido ed indisturbato, mentre tu fissavi le lancette a bocca aperta, inerme ed impotente, e loro beffarbe sembravano ignorarti, riderti addosso.

Ashton avrebbe solamente voluto fermare tutto, mettere in pausa il mondo come metteva in pausa una canzone. Avrebbe voluto decidere lui, scegliere come gestire la fretta, il tempo in eccesso, le ore di buco, quelle mancanti.

Ma tutto ciò che poteva fare era nulla.

Nulla.

 

Non aveva mai sentito tanto la mancanza di una persona.

 

***

 

Ashton era sveglio, immobile nel letto, a fissare il soffitto, immerso nel buio più totale, fatta eccezione per un raggio tenue di luce argentea, proveniente da uno spiraglio lasciato dalla stoffa delle tende che otturavano le finestre.

Erano giorni che non dormiva, forse settimane intere. Le borse scure pendenti sotto i suoi occhi ne erano la dimostrazione - non che gliene importasse.

Non faceva altro che rigirarsi nel letto in continuazione, sbuffare, coprirsi fino alla punta dei capelli col lenzuolo, sbuffare nuovamente per il caldo, scalciare fino a liberarsi della coperta e giacere in silenzio per le ore restanti.

Quando la luce che trapelava dall'angolo della stanza si trasformava da argentea a tiepida e giallognola, si sentiva come sollevato che fosse finalmente arrivata l'alba.

 

Passava nottate intere sommerso dal nulla più totale, senza pensieri, senza emozioni, senza parole, senza rumori.

Aveva imparato ad estraniare ogni sorta di sentimento, ogni minimo accenno di debolezza, allontanando tutto ciò che avrebbe potuto ferirlo, disintegrando ciò che rappresentava una minaccia.

Era facile farlo con tutto quello che lo circondava, ma l'unico vero pericolo era se stesso.

E non c'era modo di liberarsene, di aggirare l'ostacolo, di proteggersi da qualcosa che faceva parte di lui, che era in lui.

Lui stesso era il suo nemico.

 

Quella non era altro che un'altra delle tante notti che avrebbe passato sveglio, lontano dal mondo intero ma divorato dentro dai demoni che lo possedevano.

Ashton era perso nel suo vuoto, inghiottito da un'atmosfera inesistente, inerme come un fantoccio senza vita, un ammasso di cellule prive di alcuna funzione.

Ciò che interruppe il suo stato di trance fu l'inaspettato quanto stordente suono del campanello.

 

Per un istante, rimase con gli occhi sgranati, il battito leggermente accelerato per la sorpresa e ogni lembo di pelle teso allo spasmo, pronto a cogliere anche il minimo spostamento d'aria.

Poi, quando non accadde nulla, iniziò a pensare di essersi immaginato l'intera scena, o di aver confuso il suo campanello con quello di qualcuno che abitava lì vicino.

 

Sobbalzò bruscamente quando il campanello suonò un'altra volta.

Confuso e stupito, si voltò un istante verso il comodino alla sua destra. Cercò alla cieca tra i numerosi oggetti poggiati sulla superficie in legno, tastando ogni singola cosa finché non sentì sotto le dita la sagoma familiare del cellulare.

Lo afferrò con dita leggermente tremanti per l'insensata adrenalina che aveva iniziato a circolargli in corpo senza un apparente motivo, cliccando il pulsante di blocco per far illumiare lo schermo.

Sbatté ripetutamente le palpebre quando la luce troppo forte e sintetica lo accecò brevemente, per poi controllare finalmente l'orario lampeggiante in cima.

 

Le tre e trentasei.

Chi poteva suonare a casa sua a notte fonda? E poi, perché proprio lui?

Il mondo non aveva ancora intenzione di lasciarlo in pace, a quanto pare.

 

Per un istante, prese in considerazione l'idea di fingere che in casa non ci fosse nessuno e lasciare che chiunque lo attendesse fuori la porta decidesse di andarsene.

Ma poi, come se i suoi pensieri fossero stati uditi, il campenello prese a suonare con insistenza, in continuazione, senza lasciare neppure un secondo di tregua tra un fischio fastidioso e l'altro.

Ashton grugnì contro il cuscino, togliendosi con rabbia le coperte di dosso ed alzandosi per avviarsi all'ingresso.

Camminò con passi pesanti, quasi marciando, pieno di rabbia e stupore, fino ad arrivare alla porta in legno, dietro la quale si celava chiunque stesse suonando a ripetizione il campanello.

 

Afferrò rabbiosamente la maniglia placcata di un evidente oro sintetico e l'abbassò, spalancando la porta.

Ciò che non si sarebbe mai, mai e poi mai aspettato di trovare oltre quella superficie, come un dono direttamente dall'inferno, era in realtà proprio di fronte a lui, in piedi, la mano ancora poggiata sul campanello - evidentemente Ashton non era l'unico ad esser stato colto di sorpresa -, i capelli più lunghi di come li ricordava e decisamente più scarmigliati.

Ashton lo fissò per qualche minuto intero, senza dire una parola, mentre Calum faceva lo stesso.

 

Solo quando i loro occhi s'incrociarono per un fugace istante, il riccio poté notare la differenza che presentavano quelli di Calum; non più dolci, profondi e marroni, bensì lucidi, vuoti e quasi neri, così densi da fargli paura, a tal punto da non riuscire a distinguere la pupilla dall'iride circostante.

Le sue gote erano leggermente imporporate, le labbra innaturalmente lucide, mentre respirava in modo stranamente affannoso.

Il suo respiro caldo e tremolante arrivò ad infrangersi sul labbro inferiore di Ashton, nonostante la distanza non proprio corta tra di loro, ed il riccio riconobbe l'inconfondibile quanto vomitevole aroma di alcool.

Allora capì.

 

Sospirò stizzito, "Come fai a sapere dove abito?"

Calum storse un istante la testa, piegandola di lato, mentre assimilava lentamente le parole di Ashton, poi ridacchiò sorprendentemente, "Ti ho seguito. Quando tornavi a casa. Tu... Io ti ho seguito per scoprire dove abitassi perché... perché volevo cercarti, sì. Volevo cercarti ed ora che ti ho trovato mi sento meglio."

"Calum" disse il riccio con tono duro, "Quanto hai bevuto?"

Il moro ridacchiò ancora, stavolta più forte, e l'odore di quella che gli parve vodka si intensificò nelle narici di Ashton.

Con una mano si appoggiò allo stipite della porta, cercando di riprendersi per poter parlare.

"Beh, vedi... Mio padre è venuto a casa mia ed ha iniziato ad urlare, non ricordo neppure di che cosa... ma urlava, sì, urlava tanto. Mi ha anche detto che sono una vergogna, che lui si vergogna di essere mio padre, capisci?" un'altra risata amara e vuota, "Mi ha detto che faccio schifo perché sono gay, che ho deluso tutti, compresa mia madre. E poi... io... io mi sono arrabbiato e me ne sono andato. Sono andato a bere. Poi ho pensato a te, ma tu non c'eri, ed allora ti sono venuto a cercare perché-"

Calum s'interruppe all'improvviso, un singhiozzo a bloccargli le parole in gola e a fargli sussultare il petto.

Chinò leggermente la testa in avanti, fino a che Ashton non fu più in grado di vedere il suo viso, bensì solo il retro della sua testa ed il collo scoperto.

Le sue spalle traballarono appena, si scossero, poi si ristabilizzarono.

"Sono venuto da te perché non ho nessun altro. E... e so che probabilmente mi odi, che non mi vuoi più vedere. So che... so che faccio schifo anche a te, ma mi rimani solo tu, Ash. Non ho nessun altro, solo te. Io ho solo te, per favore..."

 

Ashton provò un misto tra compassione, dolore e sensi di colpa nel vedere le prime gocce salate colare dalle guance del moro, per poi infrangersi sulla moquet che ricopriva il pavimento del corridoio esterno.

Non sapeva cos'avrebbe dovuto fare; se avrebbe dovuto sbattergli la porta in faccia e non provare pietà, se avrebbe dovuto urlargli tutto ciò che pensava, se avrebbe dovuto chiedergli scusa ed abbracciarlo per farlo sentire meglio.

Ashton non era il tipo da fare nessuna di queste cose.

Così, semplicemente, aprì leggermente di più la porta e si fece di lato, mormorando un "Entra" che suonava come scocciato e preoccupato al tempo stesso.

 

Calum barcollò all'interno della minuscola abitazione di Ashton, piena di oggetti da cima a fondo, sparpagliati un po' ovunque, e si lasciò cadere di peso sulla misera quanto rovinata poltrona all'ingresso, sopra un paio di cappotti che era sicuro fossero troppo pesanti per quei giorni stranamente inondati dal caldo.

La testa gli pulsava dolorosamente, sentiva il sudore gelido scivolargli in modo criptico lungo il retro del collo e non riusciva a fermare le lacrime, non riusciva a smettere di singhiozzare, a calmare il respiro, a pensare a qualcosa che non fosse quanto desiderava che Ashton lo abbracciasse.

Era così distrutto da aver perso la sensibilità di ogni parte del corpo, organo, lembo di pelle che lo costituiva.

La vita sembrava non stancarsi mai di colpirlo, sembrava non averne mai abbastanza, come se si divertisse a vederlo arrancare, soffocare, sprofondare e poi lottare duramente per tornare in piedi, come nuovo, anche se dietro ogni toppa ricucita nascondeva nuove cicatrici.

E Calum era stanco, era davvero stanco.

Stanco di fingere che tutto andasse bene, che fosse felice, che i suoi genitori lo amassero, che la sua vita fosse perfetta, che lui fosse entusiasta di ogni cosa sfarzosa che possedeva.

 

Era vuoto. Era un corpo senza anima, una marionetta della società, del sistema, dell'universo che faceva sempre quei suoi soliti trucchetti per far andare tutto storto.

L'ennesima litigata con suo padre era stata solamente la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, ciò che lo aveva spinto oltre i suoi limiti, che aveva sbaragliato anche l'ultimo brandello stracciato di pazienza ed aveva trasformato tutto in furia, dolore, lacrime.

E sapeva che nulla lo avrebbe aiutato, sapeva di non poter sopravvivere ancora, ma nella disperazione del momento l'alcool gli era parsa l'unica soluzione plausibile, l'ultima sponda alla quale aggrapparsi prima di morire annegato.

Così aveva bevuto, aveva esagerato, nella speranza che la sua mente si azzerasse, che il mondo sparisse, che lo stordimento lo portasse via, lontano da tutto e da tutti.

Non riusciva a spiegarsi perché, invece, l'unica cosa che quegli innumerevoli bicchieri di vodka avevano portato a galla fosse il volto di Ashton, come la stella cometa della sua via, il miraggio più inaspettato e maestoso mai esistito.

 

Senza neppure rendersene conto, si era ritrovato a barcollare per le strade di Londra, il pensiero di Ashton fisso nella sua mente, a spronarlo, a trainarlo inconsapevolmente, a conferirgli una forza fittizia che però era bastata a portarlo dove si trovava in quel momento.

Probabilmente era stata una mossa stupida, sconsiderata, egoista, perché sapeva perfettamente che Ashton non volesse più vederlo, che forse lo odiava addirittura, ma avrebbe potuto dare la colpa all'alcool, o al suo subconscio.

Non avrebbe voluto però che il castano lo accogliesse solo per pena, non aveva chiesto la sua compassione. Anche se desiderava solo un abbraccio, una spalla a cui sorreggersi, e quindi era sostanzialmente la stessa cosa.

Ma non gli piaceva la parola compassione.

La compassione era quella che ricevevano i poveri, era quella che veniva data solo perché ci si sentiva in dovere di farlo, quella che si provava guardando un cucciolo abbandonato in mezzo alla strada.

La compassione privava ogni sentimento del suo reale significato, della sua autenticità.

Rendeva tutto vuoto, finto, sintetico.

No, Calum non cercava compassione; lui voleva affetto, amore, qualcuno che gli dicesse che teneva a lui, che lo intendesse sul serio.

 

Forse Ashton non era la persona giusta, ma era anche l'unica che Calum avesse lontanamente paragonabile ad un amico.

Quindi tanto valeva provare, accontentarsi di quel misero conforto che sperava avrebbe ricevuto dal ragazzo che era ora in piedi di fronte a lui, le braccia incrociate al petto ed un'espressione indecifrabile stampata sul volto.

Calum avrebbe voluto allungare la mano ed avvicinarlo a sé, sentire il suo calore, perché nonostante facesse un caldo infernale ed innaturale, stava sudando freddo ed aveva un trilione di brividi sulla pelle.

Voleva che gli conferisse calore dentro, nel petto, nel cuore, in ogni angolo del suo corpo, nel tentativo di colmare ciò che non c'era mai stato, un'assenza perenne a cui ci si abituava come ci si abituava a vivere senza un polmone.

Ma Ashton era distante, come sempre, e Calum era solo, triste, ferito, arrabbiato, ubriaco.

 

Si chiedeva sempre com'era ricevere un abbraccio vero, uno di quelli dati col cuore, stretti fino a soffocare, così tanto da sentire i cuori battere vicini e all'unisono.

Neanche sua madre o suo padre lo avevano mai abbracciato così. Il massimo era stata una stretta distratta, breve, rigida, data prima di uscire di casa, nella fretta di perdere l'autobus o di arrivare tardi al lavoro.

Adesso rimpiangeva molte cose, forse troppe. Ma quella che rimpiangeva di più era la mancanza di quell'abbraccio che gli sarebbe potuto bastare per tutta la vita.

 

Ashton se ne stava lì, fermo, rigido, evidentemente a disagio, senza sapere cosa fare o cosa dire.

La sua rabbia iniziale era stata velocemente sostituita da un immotivato imbarazzo ed un'assurda tristezza.

Non aveva mai visto Calum così. Nonostante la prima volta che si erano incontrati fosse sul punto di suicidarsi, lo aveva sempre visto come una persona stranamente solare, sorridente, soddisfatta.

Solo ora aveva capito che fosse una facciata, quanto in realtà soffrisse, e si rivedeva in ogni sua lacrima, singhiozzo e sussulto.

Sentiva fin dentro le ossa la sua sofferenza, come se la sua aura la stesse sprigionando ovunque.

Per quanto provasse rancore nei confronti del moro, nessuno meritava di provare tanto dolore.

 

"Ash."

La voce spezzata di Calum fece sollevare velocemente la testa del riccio, allontanato bruscamente dai suoi pensieri.

"Mi odi anche tu, non è vero?" sussurrò, così piano e debolmente che sembrava avesse paura di pronunciare quelle parole - e forse era davvero così. Anche se in realtà aveva più paura della risposta che avrebbe potuto ricevere.

Ashton rimase a bocca aperta, uno sguardo stupito ed incredulo sul volto, come se Calum avesse detto la cosa più sconcertante del mondo.

"Cal, i-io..." esitò, prendendo un bel respiro e poi assumendo sicurezza nel tono di voce, "Io non ti odio. Ero solo arrabbiato. Lo sono ancora, ma adesso non importa."

Il moro tirò su col naso, fissando il pavimento sporco ed impolverato, "Mi dispiace, Ash, mi dispiace così tanto. Solo che non voglio perdere anche te."

 

Ashton sentì chiaramente il suo cuore riempirsi di qualcosa di caldo e piacevole, ancora estraneo al suo corpo, ma che sembrava reclamare con assurdo bisogno.

Ed ecco di nuovo che i suoi sentimenti riaffioravano, come petali galleggianti sulla superficie a specchio di un lago.

In un istante, grazie ad un paio di parole dolci, Ashton si ritrovava nuovamente in balia di emozioni che lo divoravano, lo consumavano, lo sfiancavano.

Era tutta colpa di Calum, sua e di quella stupida dolcezza contagiosa, del suo viso frustrantemente bello, dei suoi occhi splendidi anche ricoperti di lacrime perlate e scintillanti.

Dio, sentiva che gli era mancato tutto quello: il leggero imbarazzo che provava semplicemente standogli accanto, il rossore perenne sulle sue guance, il battito accelerato anche al minimo sfioramento, il suo cuore a sprofondare ogniqualvolta si sentiva dire cose che aveva letto solo nei libri.

Era tutto così nuovo, bello, devastante e travolgente al tempo stesso.

Doveva ancora trovare la forza di lasciarsi andare a tutto ciò, ma sentiva che piano piano lo stesse facendo.

Sentiva i suoi muri crollare, le sue mani spingere per buttare giù anche le ultime barriere, le sue dita allungarsi per raggiungere quelle di Calum.

E non capiva perché proprio ora, proprio con lui, proprio quando la sua vita non poteva essere peggiore, quando era stato sul punto di suicidarsi.

Non capiva che piani avesse in serbo il futuro, cosa riservasse il destino, quale sarebbe stata la sua fine o il suo nuovo inizio.

 

Dove sarebbe andato a finire Ashton Irwin? Chi sarebbe diventato, cos'avrebbe fatto, come si sarebbe comportato?

La sua vita si stava lentamente trasformando da un buco nero senza speranza ad un punto interrogativo, che per quanto poco confortante potesse essere, lasciava sempre il beneficio del dubbio, quelle domande che sorgevano spontanee, che facevano pensare che forse, forse c'era ancora qualcosa per cui valeva la pena rischiare, andare avanti, continuare alla cieca.

Ashton aveva toccato il fondo, ma gli era servito solamente per darsi la spinda, ed ora stava risalendo.

E tutto ciò grazie ad un ragazzo, uno qualsiasi, ma ai suoi occhi speciale e perfetto.

Calum era l'ancora che lo avrebbe portato a fondo, ma sarebbe sempre tornata a galla.

 

"No." disse improvvisamente, dopo un lungo momento di silenzio, sorprendendo sia Calum che se stesso per il tono autoritario che aveva utilizzato, "E' a me che dispiace. Scusa per averti allontanato, scusa per aver rifiutato il tuo aiuto. Sono sempre stato deluso, abituato a cavarmela da solo, per cui tutto questo è nuovo per me. Ma... sento di poter provare a fidarmi, sento che con te sarò al sicuro. Ti prego, non farmene pentire."

Il moro lo fissò per un attimo, a lungo, intensamente, con quelle iridi che nascondevano mille insidie e sogni proibiti.

"Ash" sussurrò, sempre con quell'accortezza delicata nella voce, come se volesse accarezzarlo con ogni parola, "Vieni qui."

Ed Ashton lo fece, senza pensarci due volte, i suoi piedi a muoversi, avanzando ancor prima che se ne rendesse conto.

Rallentò fino a fermarsi bruscamente davanti alla poltrona sulla quale era seduto Calum, improvvisamente consapevole della loro vicinanza, leggermente nervoso e terrorizzato.

Ma gli bastò guardare in quegli occhi calmi e rassicuranti per un altro secondo, ed ogni suo dubbio venne dissipato, ogni incertezza dissolta.

 

Si sentiva attratto da una forza sovrumana, manipolato dal suo stesso subconscio, che gli urlava a squarciagola di andare da Calum, di lasciarsi completamente a lui, di perdersi l'uno nell'altro come se non ci fosse un domani.

Fece un altro passo avanti, fino a far toccare il suo ginocchio tremante con quello piegato del moro.

Sussultò appena, come colpito da una miriade di scariche elettriche, minuscole quanto dolorose.

Aprì la bocca, pronto per dire qualcosa, ancora una volta ad esitare, ma non ne ebbe il tempo, mentre una mano sorprendentemente soffice e leggermente esigente di Calum lo afferrò per il polso e lo tirò a sé, costringendolo a barcollare instabile in avanti, fino ad atterrare sopra il corpo dell'altro ragazzo.

Cercò di rialzarsi velocemente, scosso e mortificato, ma la presa sul suo polso non fece che incrementarsi, fino a divenire una vera e propria stretta, non troppo prepotente, ma neppure da potersi definire gentile.

"I-io..." tentò di nuovo il riccio, arrossito fino alla punta dei capelli, il suo cuore come impazzito, preso dall'euforia del momento.

 

Calum lo tirò leggermente, come ad indicargli di avvicinarsi ancora di più, ad incitarlo silenziosamente con quel suo sguardo implorante e tenero.

Ashton sentiva il calore della sua pelle a contatto con quella del moro esplodere, insopportabile anche con tutto lo strato di vestiti a separli.

Stava annaspando, ansante, come se invece di essere seduto stesse correndo una maratona.

Le sue ginocchia erano ancora intrecciate a quelle di Calum, puntate sul cuscino della poltrona, così stretta da non far altro che peggiorare la situazione.

Non potendo tirarsi su, fece l'unica cosa plausibile: si mosse goffamente, rischiando anche più volte di scivolare a cadere a terra, fino a riuscire a girarsi e a mettersi a pancia in su, la sua testa poggiata sul bacino di Calum e la schiena leggermente arcuata sopra le sue gambe.

Ashton esitò un po' prima di decidersi a sollevare lo sguardo, incontrando immediatamente le pupille di Calum puntate verso il basso, sul suo viso arrossato dall'imbarazzo.

Erano più scure del solito, come attraversate da un'ombra di cui non ne conosceva il significato, dense e sensuali.

Erano immobili, determinate, cariche di un qualcosa che non riusciva bene a definire, a capire di cosa si trattasse, a cosa fosse dovuto.

Poi lo capì.

 

"Voglio baciarti."

Le parole di Calum ebbero l'effetto di una bomba atomica all'interno del corpo di Ash.

Si sentì implodere ed esplodere nello stesso istante, tutti i suoi organi sbaragliati alla deriva, il sangue concentrato in un'unica massa di globuli inarrestabili.

Deglutì, impallidendo notevolmente.

Le labbra di Calum sembrarono farsi ancora più piene ed invitanti quando gli lanciò una subdola occhiata, riportando il suo sguardo immediatamente in quello dell'altro.

Ashton sollevò ancora di più il suo viso, azzardando, rischiando tutto ciò che aveva, usando un'imprudenza che non gli apparteneva.

"Perché?" domandò stupidamente.

Forse non era esattamente la domanda da porre a qualcuno che aveva appena dichiarato di volerti baciare, ma la sua curiosità era stata più forte di lui.

 

Calum non parve sorpreso, forse abituato alla stranezza dell'altro ragazzo.

Si chinò in avanti leggermente, aspettandosi che il riccio si tirasse indietro spaventato, ma invece non lo fece, restando immobile, apparendo quasi sicuro di sé, anche se in realtà dentro di sé stava tremando.

Calum si spinse leggermente oltre, fermandosi poco sopra di lui, così vicino che Ashton riusciva a sentire il suo respiro caldo sul volto, il suo calore irradiarsi come quello dei raggi del sole.

Aprì di poco le labbra, sporgendo il mento così da poter sfiorare il suo labbro inferiore con quello di Ashton.

 

"Perché mi piacciono le tue labbra." disse Calum in un sussurro, premendo più forte il suo labbro inferiore contro quello del riccio e facendo sfiorare anche quello superiore con la sua bocca.

Ashton soppresse un respiro affannoso, iniziando a sentire le dita tremargli incontrollabilmente.

"Perché sei bellissimo, così imbarazzato sotto di me." proseguì il moro, ignaro delle reazioni che stava suscitando nel povero cuore di Ash.

"E perché non vedo l'ora di baciarti dal primo giorno che ti ho visto."

 

A quel punto le sue labbra furono direttamente sopra quelle del riccio, pressate con fermezza e determinazione, ma allo stesso tempo sempre quel pizzico di dolcezza ed attenzione.

Ashton sentì ogni sorta di emozione scatenarsi dentro di lui, come un'onda anomala ad abbatersi contro il suo corpo.

Si sentì completo, amato, accudito, rassicurato.

Ogni sensazione migliore del mondo era racchiusa in quel bacio.

 

Poco dopo, sentì le labbra di Calum premere con meno forza, allontanarsi di pochi millimetri, sul punto di staccarsi completamente.

Ashton protestò dentro di lui. Non era ancora abbastanza, non era quello che voleva.

Si spinse automaticamente in alto, inarcando la schiena per riacciuffare le labbra del moro, per poi prendere tra i denti il suo labbro inferiore e trascinarlo nuovamente verso il basso, verso di sé.

Sentì Calum sorridere con un leggero sbuffo divertito dentro al bacio, come soddisfatto.

Il moro cercò ancora una volta di ritrarsi, forse per provocarlo, facendo solamente mordere Ashton con più forza.

Un leggero bruciore si espanse nel punto che stava stringendo tra i denti, ma poi quel fastidio si trasformò in un piacere inatteso ed intenso, che fece perdere la testa a Calum.

 

Inalò velocemente una quantità abnorme d'aria, come se si stesse preparando per un'immersione, e poi prese tra le mani il volto di Ashton, attirandolo verso di sé, per poi forzarlo a tirarsi su, incastrando le dita tra i suoi capelli ricci e spettinati.

Pressò la sua bocca con forza contro quella dell'altro, passando repentinamente i denti sopra al suo labbro inferiore, leccandolo subito dopo come a chiedere timidamente l'accesso.

Ed Ashton lo lasciò fare, lo lasciò interamente al comando, affidandosi a lui, lasciando che facesse del suo corpo ciò che voleva, senza alcun ripensamento.

 

Gemette inaspettatamente per quel bacio così profondo, passionale e da togliere il fiato, mentre cercava in ogni modo di trattenersi, ancora leggermente imbarazzato.

Lo toccò, seguendo il bisogno del suo corpo di aggrapparsi a qualcosa, insinuando le mani tra i capelli del moro, passando poi i pollici sopra ai suoi zigomi e lungo il collo.

Percepì il suo battito cardiaco sotto le dita, a battere contro i suoi polpastrelli, mentre il loro bacio non diminuiva d'intensità.

I suoi pollici risalirono fino a toccare la barba di pochi giorni sotto al mento di Calum, accarezzandolo ovunque, come per ricordarsi che era vero, era lì, non si trattava di alcun sogno.

Ashton si abbandonò al bacio come si sarebbe abbandonato tra le braccia di Calum per addormentarsi avvolto dal suo calore.

E si sentì così bene, così felice.

Gli sembrava di poter toccare la gioia con le proprie labbra, come se essa scaturisse da quelle di Calum.

 

Erano farfalle che gli infestavano lo stomaco, la giugulare, la testa.

Erano respiri brevi ed intaccati, mozzati dalla passione e dal timore che occupassero troppo tempo.

Erano dita insicure e tremanti, bisognose di contatto e di qualcosa da afferrare per sentirsi un po' più stabili.

Erano due corpi in sincronia, due anime a solleticarsi, due cuori a palpitare all'unisono.

Erano desideri avverati, silenzi colmati, salvezze trovate.

Era tutto.

 

Un semplice bacio e sembrava che si potesse volare, che il mondo fosse talmente piccolo da poterlo prendere e tenere in mano come una biglia.

Il mare era sparito, il sole si era spento, l'universo intero sembrava essersi fatto da parte perché inferiore all'immensità scaturita da quel contatto.

Ashton cercò di pensare a qualcosa, cercò di ricordarsi che in realtà c'era un mondo esistente al di fuori delle labbra di Calum.

Ma la verità era che Calum era diventato il suo intero universo; c'erano galassie nei suoi occhi, supernove sulle punte delle sue dita e buchi neri nei suoi baci.

Nient'altro sembrava esistere.

 

Calum si ritrasse così velocemente e all'improvviso che Ashton boccheggiò alla perdita di contatto, come se fosse appena riemerso dal fondale marino ed avesse rischiato di annegare.

Il volto del moro era arrossato per la foga, i capelli leggermente in disordine per colpa delle dita di Ashton, ansante e con le labbra ancora semi-aperte, arrossate e lucide di saliva, così invitanti da far desiderare al castano di poterlo baciare di nuovo.

Calum era così bello che ad Ashton sembrava tutto così semplice, come la risposta immediata ad una domanda che non sapeva di star cercando da lungo tempo.

 

"Va tutto bene." disse, senza saperne esattamente il motivo.

Forse perché l'espressione leggermente spaesata sul volto del moro lo aveva spinto a farlo, o forse quel suo sguardo perso e tornato improvvisamente lucido e scintillante, come se avesse realizzato solo in quell'istante ciò che era appena successo.

La voce di Ashton si incrinò alla fine, facendo dubitare perfino a se stesso che andasse tutto bene.

Si sentiva così vulnerabile, spalmato sopra il corpo di Calum, quasi a non farlo respirare e a negargli quella poca aria rimasta nei suoi polmoni.

Si riggirò un po', mettendosi a sedere sul bracciolo della poltrona, stando ben attento a non sfiorare nessun millimetro del corpo del moro, come se fosse improvvisamente diventato radioattivo.

Deglutì un paio di volte, non potendo fare a meno di riconoscere il sapore di Calum rimasto sulla sua lingua.

Sorrise leggermente, attento a non farsi notare, per poi lanciare una breve occhiata al moro.

 

Sembrava scosso, quasi turbato, cosa che non si sarebbe aspettato, dal momento che era stato lui stesso a prendere l'iniziativa ed era sembrato più che consenziente.

Ashton si sentì in colpa senza un preciso motivo. Forse era stato lui? Aveva fatto qualcosa di sbagliato? Lo aveva spaventato in qualche modo? Si era spinto troppo oltre?

"Cal." sussurrò, quasi spaventato da una sua possibile reazione.

Il moro ruotò semplicemente la testa, smettendo di fissare il vuoto per puntare i suoi occhi scuri in quelli verdi di Ashton.

"Vuoi andare a dormire?" domandò cautamente.

Calum sembrò riprendersi solo in quell'istante, annuendo vigorosamente, come se non stesse aspettando altro.

Il riccio sorrise timidamente, alzandosi ed offrendo una mano all'altro ragazzo per fare lo stesso.

 

Calum gli sorrise poco prima che spegnesse le luci.

Ashton era così innamorato di quel sorriso meraviglioso che non realizzava il fatto che lo avrebbe ucciso a breve.

 

***

 

Erano passati tre giorni da quando Calum si era presentato a casa di Ashton; tre giorni da quando aveva deciso di restare lì fino a che le acque non si fossero calmate; tre giorni da quando si erano baciati per la prima volta.

Ashton sentiva già la mancanza delle sue labbra su quelle di Calum, del suo sapore dolciastro e particolare, della sua pelle così vicina e soffice da potercisi perdere, ammaliati dalla sensazione di essa a scorrere sotto le proprie dita.

Ashton era ogni giorno più infatuato del moro, ed averlo in giro per casa non aiutava di certo.

Calum, però, sembrava ignorarlo.

Aveva preso le sue distanze, parlava poco e di cose irrilevanti, non aveva neppure tirato fuori il discorso del loro bacio; sembrava quasi che Ashton fosse il suo repellente, e questo gli feriva il cuore.

 

Dopo tutto ciò che si erano detti e confessati, dopo ciò che avevano passato, dopo le promesse e quel bacio, dopo la fiducia reciproca e il desiderio, come poteva essere svanito tutto così in fretta? Da un giorno all'altro?

Non era possibile. Ashton era sicuro ci fosse qualcosa che turbava Calum e continuava a farlo dal momento esatto in cui le loro labbra si erano separate.

Ed era determinato a scoprire di cosa si trattasse.

 

***

 

I loro piedi calpestavano con velocità gli aghi di pino, stando attenti ad ogni radice che sporgeva dal suolo.

Era buio, forse le due di notte; si riuscivano a distinguere a malapena le sagome degli alberi. L'unico rumore udibile era il frinire notturno delle cicale e il frusciare delle loro suole contro il terreno.

C'era sempre quella pacata atmosfera di inconsapevole aspettativa, una morta voglia di felicità ed una sincera fame a gorgogliare alla bocca dei loro stomachi.

Forse era l'aria, troppo fredda perché la pelle non si arrossasse sulle gote, o forse era il cielo, sempre così vicino da fare male e bene.

 

Quando raggiunsero un albero abbastanza grande, Ashton si gettò a terra, sedendosi con noncuranza sopra il terriccio umido a causa della pioggia leggera che cadeva goccia dopo goccia, in una silenziosa melodia che profumava di aghi di pino bagnati.

Poggiò la schiena contro la corteccia ruvida, che gli graffiò leggermente le spalle - ma non ci fece caso.

Subito dopo, Calum si lasciò cadere al suo fianco, indietreggiando fino a che anche lui non fu appoggiato contro il tronco del pino, le ginocchia piegate e strette al petto, i gomiti sopra di esse, mentre Ashton se ne stava con le gambe incrociate e la testa abbandonata all'indietro, contro la corteccia.

I suoi ricci erano bagnati, uniti in ciocche più spesse e gocciolanti, così come i capelli neri di Calum, schiacchiati contro la sua fronte umida e lucida di pioggia.

 

Ma non gli importava di nulla, neppure delle scarpe sporche, della maglietta troppo leggera, dei jeans bagnati tra ogni piega.

Non gli importava del freddo, della posizione così scomoda da comprimere le ossa, né degli aghi di pino che gli si attaccavano alle mani umide e troppo smaniose, alla ricerca di un contatto effimero con qualcosa che gli ricordasse di essere vivo.

 

"Perché mi hai portato qui?" chiese Calum, senza spostarsi dalla sua posizione rilassata.

Ashton si era svegliato, nel cuore della notte, scuotendo anche il moro per farlo alzare, e poi, dopo numerosi grugniti e lamenti, era riuscito a farlo vestire e a trascinarlo nel piccolo bosco a qualche chilometro da casa.

"Ogni tanto vengo qui, quando sono solo e voglio pensare."

"E perché ci hai portato anche me?" domandò Calum incuriosito.

Ashton fece spallucce e sospirò, passandosi una mano tra i capelli bagnati, tirandoseli indietro, via dagli occhi.

"E' bello" si sentì in dovere di commentare il moro, "E con questa pioggia non si sente per niente il caldo."

"Speravo ti sarebbe piaciuto." disse Ashton, lasciando cadere le mani in grembo ed iniziando a giocherellare con le dita.

 

Calum si guardò attorno in silenzio, mentre Ashton si concesse un sospiro prima di tornare con la testa contro la corteccia.

Sollevò gli occhi verso l'altro, incontrando la chioma folta dell'albero che lo sovrastava, evitando che la pioggia lo bagnasse ulteriormente.

Era un posto tranquillo, pieno di quiete, che neppure la pioggia battente sembrava disturbare, come se facesse tutto interamente parte dello scenario.

 

Era così buio, tutto intorno. Persino gli occhi di Calum erano più scuri, come ogni volta che si concentrava, o come quando era immerso nei suoi pensieri e faceva venire voglia ad Ashton di farne parte, anche solo per un brevissimo istante.

Perché tutto ciò che voleva era essere parte di lui.

 

"A cosa pensi quando sei qui?" chiese Calum, senza distogliere gli occhi dalla visuale davanti a sé.

Ashton esitò; non si sentiva ancora a proprio agio nel parlare dei suoi pensieri più reconditi, "Beh, un po' a tutto... Diciamo che mi piace soprattutto ciò che trasmette questo posto."

"A me non piace stare da solo, non per troppo tempo. Non riesco a sopportarlo." disse Calum, aggrottando leggermente le sopracciglia, come pensieroso.

"Perché?"

"La solitudine è qualcosa che mi fa star male, qualcosa che non so come gestire. Il fatto è che mi sento sempre così solo, quindi non sento il bisogno di scappare dagli altri. Anche se le persone possono essere crudeli e spietate, l'indifferenza riesce a ferirmi di più. Essere inesistente, anonimo, un nonnulla. E' questo che mi spaventa."

 

C'era di nuovo quella sensazione di indeterminato, quel respirare sereno, come se tutto stesse andando per il verso giusto, come se non esistessero preoccupazioni.

Era quello ad infastidire Calum, perché era stanco di fingere, non ne era più capace ormai, non ci riusciva. Era stufo di sorridere, quando ogni cosa dentro di lui non era più al posto giusto.

E sapeva perfettamente che anche Ashton si sentisse allo stesso modo, per quello non capiva come facesse a restare così tranquillo, a non pensare a nessuno di quei problemi che, per Calum, erano talmente tanti che se ne sarebbe ricordato almeno di uno, nonostante potesse provare a dimenticarli.

Faceva così tanto male che avrebbe voluto afferrare Ashton per le spalle, scuoterlo fortissimo ed urlargli di svegliarsi, che la loro vita stava rotolando giù da un burrone immenso e loro non stavano facendo nulla per salvarsi, se non guardarla andare sempre più giù, affondare come un cubetto di ghiaccio nell'ennesimo drink della serata.

 

"Non senti freddo?" domandò Calum, rompendo il silenzio che li avvolgeva. Forse non era l'ambiente circostante ad essere freddo, ma il suo corpo ed i brividi sulla sua pelle.

"No. Sento solo il tuo profumo e quello della pioggia." rispose il riccio, gli occhi fissi verso l'alto.

"Sono troppo vicino?" chiese il moro, come preoccupato di aver invaso lo spazio vitale di Ashton, inconsapevole dei suoi veri sentimenti e dei veri sussulti del suo cuore.

"Non abbastanza."

Il flebile sorriso di Calum ebbe l'effetto del sale su una ferita aperta che stava cercando di guarire: un bruciare vivo, persistente, che affannava il respiro e provocava un rilascio graduale di endorfine che lo rendevano non sopportabile, ma compatibile, una piaga a cui poco a poco l'organismo si abituava per assuefazione.

Poi ci furono le braccia di Ashton strette attorno al busto di Calum, mentre quelle del moro tremavano abbandonate.

Ashton diede un leggero strattone al corpo stretto contro di lui, come per incitarlo a reagire, a controllare quel calore e a non disperdere l'ossigeno necessario.

Allora Calum si abbandonò, prima alle ossa e poi a quelle di Ashton, affondando la testa nella conca creatasi tra il collo e il petto del riccio, i capelli a solleticargli il mento e il naso premuto contro la giugulare, lì in quel punto dove il sangue passava più in fretta, cosicchè potesse percepirlo muoversi mentre intrecciava le loro gambe.

I polpacci a strofinare tra loro, le cosce sovrapposte, le spalle ingabbiate da muscoli troppo contratti per apparire rilassati, troppo disperati per avere una presa normale attorno ai due corpi incollati.

Le dita di Ashton a solleticare la pelle scoperta sul retro del collo di Calum, in modo piacevole e delicato.

 

Era bello che per una volta fosse il riccio a poter consolare l'altro ragazzo, a poter fare qualcosa per lui, ad accudirlo come Calum aveva fatto tante volte con lui, anche contro la sua volontà.

Si sentiva utile, finalmente, ed era come se stesse ripagando un debito inesistente che aveva in sospeso.

Inoltre, vedere Calum così fragile ed indifeso era qualcosa di raro, qualcosa che gli spezzava il cuore ma al tempo stesso lo riempiva di affetto, profondo e smisurato.

 

Il moro fissò distrattamente una pigna venire brutalmente strappata dalla pioggia battente e cadere a terra, tra gli aghi di pino e la pioggia insistente, con uno sguardo triste e compassionevole, come se fosse impietosito da quella sua fine così ignobile e squallida, perfino per una cosa inanimata e tanto futile.

Ma Calum era così: si curava anche delle cose di cui non gli sarebbe dovuto importare un cazzo.

Per quello si strinse di più al corpo di Ashton, come se da quella presa dipendesse tutta la sua vita - e forse era realmente così.

Si sentiva sprofondare, il terreno ad inghiottirlo e la testa già insensibile, così come la sua pelle e le sue papille gustative.

La saliva sembrava essergli aumentata improvvisamente, nel giro di qualche minuto, per poi rendersi conto di avere la bocca completamente secca l'istante successivo.

Ed era tutto così strano. Perfino i capelli di Ashton sembravano diversi, mentre ci passava le dita in mezzo, tirandoglieli leggermente sulle punte arricciate.

Credeva davvero che fossero troppo lunghi, ma gli piacevano così e quindi andava bene.

Andava tutto bene, perché Ashton era lì con lui.

 

Calum sospirò, e, come per magia, la tensione inquieta che li circondava si allentò e si dissolse in un sollievo tiepido, tranquillizzante. Si distaccò leggermente dalla vicinanza col petto del riccio solo per rivolgergli un sorriso un po' sperduto, flebile, esitante; un sorriso impreparato a gestire appieno la realtà.

Ma Ash la colse lo stesso, quella scintilla di speranza che lo accompagnava sempre, anche se ogni giorno che passava era sempre più fioca. Ma avrebbe fatto di tutto per non vederla spegnarsi completamente.

La amava troppo per poterla dimenticare, ed avrebbe spazzato via con le sue mani quel nero dagli occhi di Calum.

 

"Ci prenderemo la febbre se restiamo qui." sussurrò Ashton, la pioggia che incombeva su di loro ormai solamente un insignificante dettaglio perso in una vita di occasioni.

"Non m'importa."

"A te non importa di nulla."

"M'importa di te."

 

Un soffio di vento più gelido degli altri li fece rabbrividire entrambi, e preferirono dare la colpa a quello piuttosto che alle parole che avevano appena pronunciato, o al fatto che i loro occhi fossero incollati, fissi gli uni negli altri, così intensamente da mostrare il loro spavento fin troppo chiaramente.

Calum ed Ashton avevano sempre paura, per quello fuggivano dal mondo.

Per quello fingevano di non provare quello che invece era ormai diventato impossibile negare.

 

Calum si passò furiosamente le mani sul viso, strofinandosi gli occhi e poi sospirando l'ennesima volta, cercando di calmarsi.

Ashton lo fissò semplicemente, le pupille concentrate sul suo volto emozionato, demolito dalle palpitazioni, "Avanti, andiamo."

Il moro non voleva tornare a casa, non quando stava così bene tra le braccia dell'altro ragazzo, così stretti da contrastare perfino il gelo peggiore.

Ma annuì lo stesso, gli occhi bassi, fissi sui palmi delle mani, il capo chino e le labbra pressate in una linea così sottile da apparire inesistenti.

Il riccio si sollevò finalmente in piedi e gli si avvicinò, afferrandolo per le braccia per aiutarlo a tirarsi su a sua volta.

Camminarono piano, sotto la pioggia, in silenzio, fino ad arrivare all'auto.

Calum si accertò che Ashton salisse dalla parte del passeggero, prima di aprire l'altro sportello ed entrare anche lui. Attese due minuti in silenzio, continuando a fissare il profilo di Ashton, che invece aveva lo sguardo fisso avanti a sé, immobile ed impenetrabile.

Lo udì sospirare, come deluso e ferito, in cerca di attenzioni e quell'affetto che gli veniva costantemente sottratto, come una porzione di cibo invitante che prima ti attirava verso di sé, e poi scompariva all'improvviso.

Calum si limitò a mettere in moto e a guidare verso casa, il parabrezza continuamente ricoperto di minuscole gocce di pioggia.

Sospirò.

 

***

 

L'ingresso di casa di Calum era buio, così tanto che entrambi rischiarono d'inciampare almeno un paio di volte prima di trovare l'interruttore.

La luce che immediatamente s'irradiò in tutta casa fece sbattere ripetutamente le palpebre ai loro occhi, rimasti avvolti nell'oscurità fino a quel momento, e fu come se stessero facendo luce anche nel profondo delle loro anime, perché si sentirono strappare via il fiato nel momento in cui i loro bulbi oculari iniziarono a spaziare per l'appartamento, come se fosse la prima volta.

Ed era tutto così strano, ancora, perché c'era un qualcosa di scomodo nell'aria, come se l'anidride carbonica gettata fuori dai polmoni si stesse intoppando a metà strada nelle loro vie respiratorie.

Poi di nuovo quel tumulto sommesso nel petto, quel brivido incerto a corrergli lungo i fianchi, e la paura ad attanagliargli le viscere, a stringere i loro cuori in pugno, così forte da farli sanguinare sul pavimento.

 

Ashton fece un passo indietro verso la porta da cui era appena entrato, rimasta accostata, come se lo stesse aspettando, come se lo avesse silenziosamente invitato ad andarsene e a soffocare nella solitudine del suo letto.

Ma lui non voleva andarsene.

Si costrinse comunque ad afferrare la maniglia, di metallo gelido, e a serrarci attorno le dita, abbastanza saldamente da non poterla lasciar andare e ripensarci.

"Io... vado." sussurrò, incerto, la riluttanza palese in ogni suo gesto.

Calum si voltò verso di lui di scatto, come se si fosse improvvisamente ricordato della sua presenza, e lo guardò, mentre cercava di nascondere la leggera aspettativa di cui si vergognava nelle profondità del suo sguardo timido.

Nonostante avesse deciso di tornare a casa sua, non era ancora pronto per restare da solo. In quel momento più che mai.

"Dove vai?" domandò il moro, un leggero panico ad impossessarsi di lui, come ogni volta che dovevano separarsi, ma sembrava troppo fottutamente difficile.

"Via, non lo so. Vado e basta."

Calum deglutì, "Ok."

Una leggera delusione apparse sul volto di Ashton alla sua risposta così secca ed incurante; non era quello che si sarebbe aspettato, quello che avrebbe voluto. Ma annuì lo stesso.

"Se hai bisogno di qualsiasi cosa, chiamami." disse, affrettandosi ad uscire da quella casa, facendo per chiudersi la porta alle spalle.

Ma, in quel momento, "Ashton." sentì, e subito si era voltato, le labbra dischiuse e gli occhi impossibilmente grandi, luccicanti di sollievo e contenti.

Calum aveva afferrato con una mano la porta, per impedire che si chiudesse, e fissava il riccio col respiro affannoso, come se avesse corso per fermarlo in tempo, come se il tempo si fosse dilatato in quell'attimo in cui era stato sul punto di vederlo sparire.

"Ho bisogno..." ansimò, continuando a fissarlo, mentre Ashton faceva lo stesso, in attesa di qualsiasi cosa, qualsiasi mossa, qualsiasi reazione.

Calum chiuse un istante la bocca, per poi riaprirla subito dopo.

"Ho bisogno..." boccheggiò di nuovo, ma stavolta si era sporto in avanti, aveva spalancato del tutto la porta ed aveva messo un piede oltre la soglia.

Ashton, a sua volta, aveva fatto un passo in avanti ed aveva preso il volto di Calum tra le mani.

Poi si erano baciati, come se tutto il resto avesse smesso di avere un senso, come se il sole fosse sorto e tramontato nell'arco di tempo di un battito di ciglia.

 

Entrambi sospirarono in quel bacio e si abbandonarono ad esso, mentre Ashton veniva lentamente schiacciato contro la parete spoglia alle sue spalle, con il corpo di Calum premuto contro al proprio.

Il riccio fece scivolare le sue mani dal volto di Calum al suo collo, solleticandogli il pomo d'Adamo con i pollici, premendo più sotto, vicino alla clavicola, stringendolo sempre più forte.

E Calum avvolse le braccia attorno al busto di Ashton, attirandolo ancora di più contro di sé, muovendo la bocca sulla sua, fine e delicata, in movimenti sconnessi e confusi, dettati solo dalla foga del momento.

 

Così, labbra contro labbra, fronte contro fronte, gambe intrecciate e respiri affannati, si baciarono.

Fecero incontrare le loro lingue, dopo una ricerca spasmodica, disperata, e tutto sembrava così nuovo, come se avessero trovato il modo di non sprecare le loro vite in un mondo che aveva ben poco da offrirgli.

Tutto aveva ritrovato il suo giusto equilibrio e, allo stesso tempo, si stava stravolgendo per creare un qualcosa d'inaspettatamente bello e sorprendente.

Le loro pelli erano ancora in grado di modellare qualcosa di positivo, di inalare la giusta aria attraverso i pori, per non mischiare le emozioni in una confusione di compromessi.

Si strinsero forte, come a non volersi più lasciar andare.

Poi le dita di Calum corsero ai ricci di Ashton, intrecciandosi tra di essi, tirandoli leggermente.

Li lasciò andare, solamente per far scendere le sue mani più in basso, a graffiargli leggermente la schiena, arpionando la pelle di Ashton con le unghie, per spingerselo addosso.

Non capiva più nulla, sentiva solo il suo profumo su ogni centimetro di pelle, l'ombra di una carezza lasciata dalle sue dita lunghe ed affusolate, il calore del suo respiro contro le proprie labbra.

E il dolce suono del cuore di Ashton accanto al suo, come se lo spazio non fosse stato sufficiente e quella poca distanza non fosse sopportabile.                

Ashton, invece, sentiva Calum in ogni parte di sé, tra il cuore e lo sterno, tra la lingua e le labbra, tra le dita e i capelli.                                                                     

E si persero in sorrisi e false promesse, abbandonati ai loro corpi, come la pioggia quando cade.                                                                                                                                                           

Il tempo si fermò, perse spessore e consistenza, si annullò per lasciare spazio alla loro essenza, ai loro gesti e cambiamenti.                                                 

E sembrò non scorrere più, mentre si dimenticarono perfino come respirare, perché l'aria sembrava superflua, quando tutto ciò di cui avevano bisogno era già presente.                                                                                 

Si lasciarono ai fremiti e ai momenti smarriti nel tempo, alle onde di una corrente di emozioni, al tumulto dentro i loro petti, al sapore di saliva e al retrogusto di dentifricio.                                              

E finsero di non capire, di non vedere le ombre, di trovare un senso a ciò che li circondava e che sembrava non finire mai.                                                                                   

Si aggrapparono a quel momento per conservare ogni minima sensazione innocente, in ogni sua più piccola sfaccettatura, perché gli desse conforto quando ne avrebbero sentito il bisogno, e perché gli ricordasse del tempo perso dietro agli sbagli che non avevano mai capito.

Solo insieme riuscivano a vivere, a respirare, a camminare senza crollare.

Solo insieme riuscivano ad essere ciò che erano realmente.

 

***

 

Era mattino presto, forse le cinque, quando Ashton aprì gli occhi e trovò l'altro lato del letto vuoto, il suo lato del letto.

Calum aveva insistito affinché Ashton restasse da lui, ed alla fine il riccio aveva acconsentito. Ormai erano quasi due settimane che convivevano, e tutto aveva preso una piega stranamente da routine.

Era quella solita monotonia della quotidianità: svegliarsi e sapere esattamente cosa sarebbe successo, cosa sarebbe stato fatto e dove si sarebbe andati.

Era tutto così scontato e normale.

Non era ciò che Ashton si sarebbe immaginato, non era ciò che voleva.

 

A lui sarebbe piaciuto svegliarsi con la colazione al letto, un Calum sorridente a porgergli il piatto; gli sarebbe piaciuto che lo portasse ad una mostra d'arte e gli sussurrasse all'orecchio che lui era l'opera più bella; gli sarebbe piaciuto andare al cinema, mano per mano, o allo zoo, al mare, a fare una semplice passeggiata.

Sognava quelle classiche cose che si fanno quando si ha una relazione.

Ma loro non erano in una relazione.

Ed Ashton si sentiva così sciocco ad immaginarsi una vita perfetta con Calum al suo fianco, in cui andavano a cena fuori e gli veniva regalato un mazzo di rose, in cui litigavano su cose stupide per poi fare pace subito dopo.

Sapeva di non doversi aspettare niente di tutto quello, però, una piccola parte di lui, sperava che succedesse, un giorno o l'altro.

Era proprio quello che Ashton aveva temuto fin dall'inizio: affezionarsi a qualcuno, tanto da non riuscire a vedere un futuro senza di lui, da non riuscire a vedere un viaggio senza di lui, un sogno, una nottata, un momento, un sorriso. Tanto da non riuscire a vedere nessun altro.

 

Sarebbe stato bello provare davvero tutte quelle cose, quelle emozioni, quelle esperienze, insieme alla persona a cui teneva più di tutte.

Ma era solo l'ennesimo sogno, l'ennesimo frutto della sua immaginazione.

Ed era triste amare qualcuno in un modo così doloroso, perforante, univoco.

Era come essere sul punto di cadere ed allungare una mano, nella speranza che venga afferrata da qualcuno, ed invece lasciarsi cadere quando ci si rende conto che dall'altra parte non c'è nessuno.

 

Ashton non aveva bisogno di altra sofferenza, non voleva altro dolore ed altre pene.

Aveva rischiato, si era fidato, e quello era il prezzo che doveva pagare per non essere stato prudente come sempre.

Sembrava che la vita lo stesse punendo per aver tentato di ribellarsi ad essa.

Ma non poteva più ignorare i suoi sentimenti, non poteva più ignorare il bruciore lancinante che sentiva in tutto il corpo ogniqualvolta Calum lo sfiorava o era semplicemente accanto a lui.

Era sicuro che avrebbe cercato il suo calore anche nel gelo dell'Antartide, che avrebbe ricordato i suoi occhi anche quando il suo corpo sarebbe stato cenere, che avrebbe riconosciuto il sapore delle sue labbra tra quello di altre mille.

Calum era l'unica persona che fosse riuscito ad avvicinarsi ad Ashton, che era così simile a lui da rappresentare la calamita che, per quanto provasse, l'avrebbe sempre respinto.

Erano le leggi della fisica, del mondo, della vita. Era la futilità di esistere, di essere senza capire, di vivere e sperare.

Era un tunnel buio senza via d'uscita, che Ashton era obbligato a percorrere fino alla fine.

 

Calum era diverso, Ashton ne era certo.

Non era lo stesso ragazzo che aveva conosciuto sul tetto, durante quella fatidica sera ad Archway Tower, o quello che aveva giurato di volerlo aiutare a tutti i costi.

Adesso di lui restava solo un'ombra, una sottile rimanescenza, come un'insignificante sagoma vuota, un fantoccio senza anima.

Gli era successo qualcosa, qualcosa di grave, qualcosa che era riuscito a cambiarlo, a demoralizzarlo, ad abbatterlo, a renderlo un corpo vuoto, morto, decadente.

Come si poteva annullare una persona? Come si poteva prendere quella parte fondamentale e lacerarla senza pudore?

Era come se tutto ciò in cui Calum aveva sempre creduto fosse stato gettato tra le fiamme di un incendio che era impossibile spegnere, che potevi solo guardare ardere.

 

Ashton iniziava a sentire la mancanza del vero Calum, e voleva tentare di riportarlo indietro, di farlo tornare in sé, ma non sapeva come, cosa fare, in che modo agire.

Era perso, risucchiato dallo stesso vortice di inesistenza del moro.

E non sapeva come salvarlo, perché fino ad allora era sempre stato Calum a salvare lui.

Ma adesso era il suo turno, il suo momento. Adesso doveva riportare indietro il vero Calum, per ripagarlo di tutte quelle volte in cui lui era riuscito a far ragionare Ashton, a farlo sentire di nuovo vivo.

Voleva essere per lui quella scintilla nell'oscurità, quel battito impercettibile nel silenzio incombente, quell'onda tra la calma piatta di un oceano sterminato.

Non aveva intenzione di fallire, in alcun modo.

Lo amava troppo per lasciarlo andare.

E non gli importava di essere egoista, non gli importava di ciò che si sarebbe potuto pensare o dire.

Il suo desiderio era troppo forte.

 

Non credeva che avrebbe mai potuto amare qualcuno tanto smisuratamente. Non credeva neanche che ne sarebbe stato in grado.

Era convinto che il suo cuore si fosse ormai ridotto ad una pietra, ad un blocco inanimato di marmo.

Ed invece era riuscito a trovare qualcuno in grado di scaldarlo, di prendere tra le mani quell'organo sciupato e di dargli vita.

 

Notando l'assenza del moro, Ashton aveva subito pensato che fosse andato in bagno, o in cucina a predere un bicchiere d'acqua, così si era sdraiato di schiena ed aveva aspettato qualche minuto che tornasse - ormai gli era diventato impossibile riuscire ad addormentarsi senza il respiro di Calum a cullarlo, lento e cadenzato.

Quando però passarono una decina di minuti, Ashton decise di andarlo a cercare.

Setacciò tutta la casa, fino ad arrivare al balcone, di cui notò le vetrate aperte e capì che il moro dovesse essere proprio lì fuori.

Con cautela, uscì nell'aria fresca, che lo colpì senza alcuna delicatezza - un po' come la realizzazione dei suoi sentimenti.

Lo stordì, anche se non riuscì a capire se fosse colpa del sonno o del cambio inaspettato di temperatura.

Gli occhi gli si inumidirono, arrossati dalla brezza gelida che gli stava tagliando la pelle.

Poi lo vide: i gomiti poggiati sulla ringhiera arrugginita del balcone, lo sguardo perso nel cielo sovrastante e privo di stelle, una bottiglia di vodka mezza vuota stretta nella mano destra.

Sembrava che non si fosse neppure accorto dell'arrivo del riccio, mentre sollevava con un braccio tremante la bottiglia e ne prendeva un sorso abbondante.

 

Ashton esitò, poi si fece avanti e, con passi lenti, si appoggiò alla ringhiera accanto a lui.

Calum non batté ciglio, perso nei suoi pensieri e tra il blu opaco del cielo.

Il riccio sospirò, quasi sconsolato, per poi attendere altri due minuti in totale silenzio.

"Ho sempre pensato che la vita facesse schifo... Cioè, mi volevo addirittura suicidare... Ma non ho mai pensato che potesse farlo così tanto." esordì il moro, senza staccare gli occhi dall'immensa distesa che stava fissando da chissà quanto tempo.

Ashton non rispose.

"A volte mi chiedo se arriverà mai una tregua, un momento di calma. Troveremo mai pace?" riprese Calum, "Tu non ci pensi mai?"

"Penso che tu abbia bevuto abbastanza." disse, cercando di prendere la bottiglia dalle mani del moro, facendolo solamente ritrarre.

 

"Sono sempre stato convinto che ogni persona avesse un valore." riprese il moro, ignorando totalmente Ashton che lo riprendeva e concedendosi addirittura un altro sorso, "Ma mi sbagliavo. Mi sbagliavo. Io non valgo niente, sono inutile come tutto l'alcool che ho ingurgitato."

"Calum, che cazzo stai dicendo? Non sei inutile, non pensarlo neanche." rispose immediatamente il castano, alzando di poco il tono della voce, una scintilla nuova ad accendergli lo sguardo.

"Stai mentendo." canticchiò Calum, prendendo un altro sorso direttamente dalla bottiglia.

"Non mentirei mai su una cosa del genere, Cal."

Il moro lo ignorò, bevendo gli ultimi due sorsi che restavano per vedere il fondo della bottiglia di vodka. Si passò il dorso della mano sulla bocca e poi sospirò.

"Mio padre pensa che io sia un mostro. Mia madre mi evita come la peste. Il mondo mi odia da quando ho aperto gli occhi per la prima volta." un altro sospiro, "Come puoi dire che non sono inutile?"

"Per me non lo sei. E mi distrugge vederti così, mi distrugge sapere che qualcosa dentro di te si è spezzato a tal punto da renderti un'altra persona." disse Ashton, avvicinandosi al moro ed appoggiandosi al suo avambraccio piegato, necessitando di un appoggio qualsiasi per non crollare in ginocchio in lacrime.

"Sono sempre io, non sono diventato nessun altro." borbottò Calum, cercando di ritrarre il braccio leggermente.

Ashton lo strinse più forte, fino ad imprimere le unghie nella sua carne, "Guardami negli occhi."

Ed il moro lo fece, per pochi secondi che parvero un'infinità ristretta.

 

Ashton lasciò lentamente andare il braccio di Calum e fece un paio di passi indietro.

Scosse la testa, "Non sono i tuoi occhi. Non sei tu."

"Smettila!" urlò il moro, lanciando, in un gesto pieno di ira, la bottiglia a terra, che si frantumò immediatamente in mille pezzi con un frastuono immenso.

Ashton sussultò, gli occhi ad inumidirglisi velocemente, mentre fissava impaurito il volto di Calum contorto dalla rabbia, il suo petto a sollevarsi velocemente, le vene sul collo prominenti e minacciose.

I suoi occhi, da spenti e ubriachi, si erano trasformati in due fiamme ardenti, pronte ad incendiare tutto ciò che si fosse posato sotto di loro.

Si sentì tremare come una foglia quando Calum gli si avvicinò e lo afferrò per le spalle, sbattendolo al muro dietro di lui, facendogli colpire anche la testa.

Il riccio si lamentò sommessamente, inerme e terrorizzato, chiudendo automaticamente gli occhi all'impatto con la superficie dura e gelida alle sue spalle.

"Smettila di dire che sono una fottuta persona diversa!" urlò Calum, "Sono io, cazzo! Sono io!"

Ashton singhiozzò a testa bassa, tirando su col naso e scuotendo flebilmente la testa.

"Se fossi davvero te stesso, non avresti mai fatto una cosa del genere." sussurrò dolorante.

"Che cazzo avrei fatto, eh? Ti avrei baciato? Beh, ti ricordi quando ti ho detto che eri una cosa fragile che andava trattata nel modo giusto per non farla rompere? Io non posso farlo, Ash. Io non ne sono capace, perché anch'io sono rotto. Sono come un pezzo di vetro: finirei per ferirti." sputò il moro, con tanta rabbia e tanto odio che qualcosa, dentro Ashton, si frantumò, come il vetro della bottiglia caduta a terra.

 

Si sentì morire.

Si può morire il venerdì notte; si può morire fulminati, sparati, di botte.

Si può morire sapendo l'ora, il giorno e il luogo.

Si può morire nel sonno; si può sognare di morire, morire dentro e sopravvivere, continuare a camminare.

Si può morire di vergogna, sulla spiaggia, travolti da un'onda, dando le spalle al mare.

Si può morire carbonizzati in una tempesta di fuoco.

Si può morire dalle risate, bendati, spalle al muro, testa alta.

Si può morire soli o ben accompagnati.

Si può morire decapitati, per mano propria, di disperazione.

Ma Ashton avrebbe giurato di essere morto in quel preciso istante, con le lacrime a rigargli gli zigomi, il corpo premuto contro una parete e le parole di Calum a corroderlo dentro.

 

Si mise a singhiozzare rumorosamente, gli occhi chiusi e la testa bassa, il corpo scosso da fremiti e debole, sorretto solamente dalla presa di Calum.

Quest'ultimo sembrò rendersi conto di ciò che fosse appena accaduto solo in quell'istante, vedendo Ashton distrutto e così fragile, più che mai.

Sgranò gli occhi e lo lasciò andare velocemente, indietreggiando come orripilato.

"Ash" sussurrò, boccheggiando sconvolto, "Mi dispiace. Ti giuro che mi dispiace."

Il riccio scosse semplicemente la testa, cercando di asciugarsi inutilmente le lacrime in volto col palmo.

"Non sei inutile, Cal." sussurrò, ancora singhiozzante e con lo sguardo fisso a terra, "Tu sei importante. Tu sei quella speranza, la ragione che ho finalmente trovato e che mi spinge ad andare avanti."

Si allontanò lentamente dal muro al quale si era lasciato andare, dando poi le spalle a Calum, ancora a bocca aperta e pieno di sensi di colpa.

Tirò un'ultima volta su col naso, poi sollevò la testa.

"Vorrei che anch'io fossi la tua."

 

***

 

Ashton se ne andò la mattina dopo.

Calum si svegliò e trovò la casa completamente vuota, il letto rifatto - aveva deciso saggiamente di dormire sul divano - e tutto al suo posto esatto.

Si guardò intorno, il mal di testa dovuto alla sera prima a rimbombargli negli antri del cervello, un dolore al petto indescrivibile.

C'era silenzio, un silenzio sovrumano, un silenzio che al contempo sembrava urlare ed imprecare.

Calum era nuovamente solo. Era quello che voleva, no?

No.

Era quello che s'illudeva di volere, quello che in realtà era la sua paura più grande, quello che solo Ashton era riuscito a contrastare.

Ma Ashton non c'era più. Per colpa sua, se n'era andato anche lui, lo aveva abbandonato.

Non riusciva neppure a biasimarlo.

 

Sospirò ed uscì al balcone, iniziando a raccogliere pezzo per pezzo i vetri sparsi su tutto il pavimento, a mani nude, tagliandosi a volte le dita, quel bruciore a ricordargli ciò che aveva fatto provare ad Ashton, ogni scheggia a ferirlo come le parole che aveva pronunciato quella sera.

Calum era tornato a sentirsi solo, a piegarsi al volere della gente, a ridursi ad un fantoccio pur di sopravvivere.

Ma quale vita è mai costituita da stenti? Quale vita è mai tanto misera ed inguardabile?

Quale vita stava vivendo Calum?

 

Sollevò gli occhi al cielo, il sole del primo mattino incandescente sopra la sua testa, ad irritargli la retina.

Si conficcò più in profondità un vetro che gli aveva perforato il palmo della mano, stringendo forte il pugno.

 

L'unica cosa che Ashton non sarebbe mai riuscito a portare via da quella casa, era il ricordo della sua presenza.

 

***

 

Calum era sparito.

La certezza della sua definitiva assenza s'insediava sotto la pelle di Ashton come il veleno che avrebbe finito per ucciderlo, prosciugarlo, deteriorarlo.

Era un'ombra che si proiettava in lui, che lo offuscava e gli negava qualsiasi possibilità di accedere anche all'ultimo spiffero di ossigeno disponibile in quel caos di tenebre.

Non sapeva come respirare, non sapeva come aprire gli occhi e riuscire ad affrontare tutto ciò che fino a quel momento era riuscito a sopportare solo grazie alla presenza del moro.

Ora che non c'era più, ogni suo appiglio era stato rimosso, ogni sua speranza era svanita.

 

Non riusciva ad accettare il fatto che fosse davvero tutto finito.

Ancor prima che qualcosa potesse iniziare, che quella misera scintilla a cui avevano dato vita potesse prendere fuoco, erano andati incontro a quel nulla senza fondo.

Ashton si sentiva così stupido per aver anche solo pensato che qualcuno avrebbe potuto salvarlo; in venti anni di vita, nessuno ce l'aveva mai fatta. Perché, allora, sarebbe dovuto riuscirci proprio ora?

Non c'era salvezza per un'anima come la sua, non c'era gioia per chi era destinato a vivere confinato nella miseria e nella commiserazione.

Eppure, per poco tempo, ci aveva creduto. Ci aveva creduto davvero.

Ed era stato ingenuo. La vita non gli aveva davvero insegnato nulla?

Dopo tutti quei pianti, quelle delusioni, quelle giornate passate a chiedersi il perché della sua esistenza, aveva comunque osato riporre fiducia in qualcosa? In qualcuno?

 

Le persone sono inaffidabili, imprevedibili, meschine, egoiste, false e deboli.

Avrebbe dovuto capirlo già da tempo.

Eppure aveva davvero sperato, creduto che Calum fosse migliore, fosse diverso.

Ma si era sbagliato, come ogni altra singola volta.

Egli stesso era un errore, che viveva in una vita costellata di errori.

 

Non sapeva di chi fosse la colpa. Forse di nessuno, forse sua, forse di Calum.

Forse era la vita, come sempre, che si divertiva a fargli un torto dopo l'altro.

E quella sensazione di voragine, di oppressione, di asfissiamento era tanto intensa che sembrava non esistere altro, neppure lui stesso.

Ashton era sparito, risucchiato da quel vortice inaccessibile e mortale, senza lasciare alcuna traccia, senza portare con sé alcun ricordo.

 

Aveva perso Calum. Aveva perso ciò che non aveva mai avuto, che aveva creduto di poter avere e che, per un solo attimo, aveva stretto tra le dita, assaggiato, in modo così effimero da avergli lasciato un gusto di desiderio sul palato, un'incompletezza generale.

Ma, nonostante tutto, nonostante la consapevolezza che Calum non sarebbe tornato, che il dolore non sarebbe finito, che ciò che era accaduto fosse una ferita ancora aperta e che mai sarebbe guarita, i suoi sentimenti per il moro non erano svaniti.

Forse non lo avrebbero mai fatto.

 

Cos'è l'eternità?

Una parola non rende bene l'idea, non ti dà la possibilità d'immaginare quanto in realtà sia grande, immensa, straordinaria.

L'eternità è infinita, sterminata, incontenibile.

Nessuno si troverà mai faccia a faccia con essa, eppure tutti ne sentono parlare, la pronunciano, la spargono tra libri e frasi d'amore troppo sdolcinate per essere vere.

L'eternità non è una cosa così bella come può sembrare. L'eternità è anche un buco nero, dal quale vieni inghiottito e che sei costretto a percorrere per sempre.

E' come camminare arrancando, passo dopo passo, con i talloni a dolore e le ginocchia a stentare, senza potersi fermare, per un periodo di tempo che non troverà mai una fine.

L'eternità non è qualcosa di noto agli uomini, ai mortali, perché tutto sulla Terra è destinato ad una conclusione.

E' il cerchio della vita, la natura di ogni essere vivente.

L'eternità è sottovalutata.

 

Eppure, Ashton sentiva di poter affermare con certezza che i suoi sentimenti per Calum sarebbero durati in eternità.

E se davvero fosse stato così, avrebbe saputo come passare i suoi giorni perso nel limbo, agognando quella fine che aveva a lungo bramato ma che non avrebbe mai trovato.

Avrebbe vissuto tra i ricordi, alimentando il suo amore, portando avanti ciò che non avrebbe mai abbandonato.

Avrebbe vissuto di Calum, di tutto ciò che adorava di lui, del profumo della sua pelle e delle sue rughe attorno agli occhi.

E lo avrebbe cercato, anche tra un migliaio di anni, anche tra un migliaio di vite.

Lo avrebbe cercato nel buio, che gli avrebbe ricordato il colore dei suoi capelli; nel mare, che lo avrebbe cullato come facevano le sue braccia; nel sole, che lo avrebbe scaldato come il suo respiro contro il collo; nel cielo, che lo avrebbe osservato come i suoi occhi.

Lo avrebbe cercato in un traffico d'anime, e lo avrebbe amato.

Sempre.

In ogni istante, ogni passo, ogni respiro.

Per l'eternità.

 

Ashton era seduto sotto l'albero dov'era stato l'ultima volta con Calum.

Il vento soffiava leggero e caldo, trasportando un profumo di foglie secche e terra.

Si sentiva così solo, così inutile.

Dal suo cellulare suonavano le note di Private Fears In Public Places, di Front Porch Step, mentre tutt'intorno regnava il silenzio più assoluto.

 

Non si sentiva affatto vuoto. Anzi, era pieno.

Si sentiva pieno.

La testa piena di cose che non aveva mai detto.

Si sentiva pieno di Calum, a tal punto di non riuscire più a trattenerlo dentro.

Pieno di rabbia e tristezza. Così pieno che si sentiva allagare dentro.

Eppure gli sarebbe sempre piaciuto essere pieno. Avrebbe voluto continuare ad essere pieno di sorrisi, di pianti di gioia, di felicità, di abbracci, con gli occhi pieni di qualcuno.

Invece si ritrovava con gli occhi pieni solamente di lacrime.

 

Non aveva senso. Aveva smesso di averlo da quando Calum non c'era più.

Non aveva senso essere ancora lì, immobile, con un po' di musica nelle orecchie ed una tristezza incolmabile dentro al cuore.

Non aveva senso guardarsi intorno, se sapeva che non avrebbe mai incontrato gli occhi che cercava.

Non aveva senso fingere di non averne già abbastanza, di non essersi stancato di sprecare giorno per giorno.

Non aveva senso continuare a sprecare ossigeno, spazio e tempo prezioso in un mondo già troppo piccolo.

Non aveva senso vivere senza la sua ragione di vita accanto.

 

Ma era davvero quello che voleva? Era davvero la fine quella che stava cercando?

E l'eternità? L'eternità in cui aveva giurato di vagare, senza meta e col cuore in mano?

Forse l'avrebbe trovata, ma non qui. Non in un mondo così limitato e dagli orizzonti ristretti.

Ashton avrebbe trovato un senso a tutto ciò che non ne aveva mai avuto.

Ashton sapeva cosa fare, dove andare.

 

Era pronto, quella era la fine.

Forse l'eternità lo aspettava dall'altra parte. Doveva solo raggiungerla.

 

***

 

 Di solito, il genere umano teme ciò che ama. Si limita a guardare; non rischia, non si butta, non si lascia travolgere, ma si ripara.

E' bravo ad accontentarsi.

Calum lo sapeva. Lo aveva capito quando aveva guardato dentro agli occhi ambrati di Ashton e ci aveva scorto solo paura ed insicurezza.

Ashton era sempre stato cauto, razionale, diffidente, anche tutte quelle volte durante le quali avrebbe potuto chiudere un occhio e fidarsi ciecamente.

Non l'aveva mai fatto, non si era mai fidato di nessuno. Neppure di se stesso.

Eppure si era fidato di lui, si era fidato di Calum.

Aveva visto qualcosa, in quelle parole cariche d'emozione e troppo tremanti, qualcosa che si era andato sgretolando quando Calum stesso aveva capito che non avrebbe potuto mantenere le sue promesse.

 

Come avrebbe potuto?

Insieme ad Ashton, tutto gli era apparso più semplice, come la mossa finale in un gioco da tavola che si è sicuri porterà alla vittoria.

Quella stessa mossa che però verrà intercettata da un altro avversario, che l'annienterà assieme a tutte le speranze e le certezze che si riponevano in essa.

E Calum era stato sconfitto. Si era sentito invincibile, ma non abbastanza a lungo da poter confermare di esserlo realmente.

In realtà, era sempre lo stesso ragazzo debole e sottomesso della società, succube di una vita già programmata che lo avrebbe portato dritto al baratro.

 

Aveva illuso sia se stesso che Ashton.

Non avrebbe mai voluto che andasse in quel modo. Avrebbe voluto essere in grado di dare sia a lui che al riccio il futuro che meritavano, che desideravano.

Avrebbe voluto cambiare le cose, ma come poteva una sola persona manovrare il destino dell'intero pianeta?

 

"Perdonami, Ashton."

 

Aveva fallito, per l'ennesima volta.

Aveva fallito definitivamente.

Cosa gli restava? Aveva perso anche Ashton, aveva perso tutto.

 

Calum si odiava. Si odiava, perché ogni volta che si guardava allo specchio vedeva lui, vedeva Ashton.

Come se fosse ormai diventato parte della sua anima, la sua ombra, l'altra metà di sé.

Ogni volta, riconosceva il suo volto sorridente, scorgeva le sue braccia attorno al proprio corpo, ritrovava il riflesso sbiadito delle sue mani che lo sfioravano.

Ashton era in lui, come un respiro esalato di bocca in bocca.

 

Avevano davvero perso tutto? Era davvero quella la loro fine?

Calum non voleva crederci, non poteva crederci.

Dopo ogni singola cosa che aveva passato, erano destinati a concludersi così? Tra un addio mai pronunciato e una delusione devastante?

No, Calum non voleva arrendersi.

Era certo che quello non fosse ciò che gli spettava.

Aveva lottato fino a quel punto, perché avrebbe dovuto smettere arrivato a metà dell'opera?

 

Da qualche parte doveva pur esistere, resistere un "noi"; ora che non erano più niente.

E il "niente" non è mai leggero, vuoto, facile da riempire.

Ora che le sue labbra, le sue mani e la sua mente avevano memoria di Ashton, appartenevano ad Ashton, il loro "niente" non poteva restare così, incompleto e insostituibile.

Quel "niente" era solo il prologo di ciò che li aspettava, di ciò che avrebbero trovato se fossero arrivati fino in fondo.

Cosa resta di un cuore sospeso, lasciato appeso al filo della nostalgia?

Calum non lo sapeva, né lo avrebbe mai saputo.

Era pronto a trasformare quel "niente" in "qualcosa", senza sapere esattamente cosa.

Gli bastava essere certo che non sarebbe rimasto senza quel tassello della sua vita, che non avrebbe buttato ciò che aveva costruito tanto duramente.

Calum era finalmente pronto.

 

Ormai non gli importava più di nulla. Non gli importava di cadere, di sbagliare, di osare, di rendersi ridicolo.

Cos'altro aveva da perdere, quando aveva già perso Ashton?

E si scatenò in lui, proprio in quel momento, una forza inaspettata, una forza che lo fece risvegliare, che lo fece tornare quel Calum che aveva salvato il riccio dal tetto, che aveva salvato se stesso ed era in grado di competere col resto, di conservare quella scintilla di speranza e trasformarla in un fuoco ardente.

Non aveva ancora perso. Non aveva ancora messo un punto a quella storia, né se n'era dimenticato.

Aveva solo aspettato il momento giusto per farsi coraggio ed agire, salvare il salvabile.

Salvare Ashton.

 

L'aveva già fatto una volta; non avrebbe esitato a farlo altre cento.

Le cose potevano davvero cambiare, lui poteva davvero cambiarle.

Non sapeva come sarebbe finita, non sapeva se ce l'avrebbe fatta.

Ma era pronto a rischiare, per tutto ciò che ancora non era, ma sarebbe potuto a diventare.

Per Ashton, per se stesso, per tutti coloro che non avevano mai creduto in lui.

Per la vita, per l'amore.

Per la salvezza.

 

***

 

Le luci di casa di Ashton erano spente. Quella fu la prima cosa che Calum notò, non appena arrivato di fronte al minuscolo appartamento decadente.

Non credeva che Ashton potesse essere uscito per andare da qualche parte, né che alle undici e mezza di sera stesse già dormendo.

Nel cuore gli si stava agitando un maremoto, così potente e distruttivo che aveva paura anche solamente ad allungare le dita verso il campenello sotto ai suoi occhi.

Non aveva motivo di essere così nervoso, eppure lo era. Sentiva nelle vene qualcosa che lo avvertiva silenziosamente, che gli urlava di sbrigarsi, di mettere da parte ogni timore e non pensare a nulla che non fosse riprendersi Ashton.

 

Sospirò.

Fece un tentativo, suonando il campanello. Il rumore acuto gli perforò le orecchie, facendolo tremare ancora di più, il cuore in gola e migliaia di parole, di frasi sconnesse ad affollargli la mente.

Non riusciva a pensare, non riusciva a respirare. Sentiva solo di essere sul punto di sgretolarsi, come cenere al suolo.

Dopo non aver ricevuto alcuna risposta, lo suonò di nuovo. L'attesa lo stava uccidendo, lo mangiava lentamente, secondo dopo secondo, come se ogni attimo bastasse per un'eternità.

Alla terza volta, si convinse che in casa non ci fosse nessuno.

 

Ma non capiva. Dove poteva essere andato? Che fine aveva fatto?

Aveva paura, aveva così tanta paura. Aveva paura di essere arrivato troppo tardi, che Ashton fosse partito per chissà dove, che non l'avrebbe più rivisto, che sarebbe rimasto nuovamente solo.

Compiendo un gesto azzardato, afferrò con mani nervose il cellulare dalla tasca dei jeans e digitò il numero di Ashton - che ormai sapeva a memoria.

Fece un paio di squilli, poi rispose.

In quel momento, il cuore di Calum si liberò del peso immenso di tutta l'ansia che aveva lentamente accumulato.

Dall'altra parte ci fu solo silenzio, e il moro esitò un istante prima di chiamare:"Ash?"

Poi un sospiro.

"Sognavo di sentire la tua voce un'ultima volta."

Era lui.

Calum si agitò maggiormente, "Ashton, dove sei?"

"Mi è mancata così tanto. Anche se avrei preferito sentirla dal vivo, qui la ricezione è pessima." continuò il riccio, ignorando completamente la domanda confusa di Calum.

"Dio, rispondimi!" urlò il moro nella cornetta, stringendola troppo forte tra le dita, quasi fino a frantumarla.

Un piccolo sospirò fu l'unica cosa che udì, e - nonostante non potesse vederlo - immaginò che stesse sorridendo.

"Ashton?"

Silenzio.

Poi il suono che indicava che la chiamata fosse terminata.

"Ashton!" urlò Calum, richiamandolo immediatamente.

Ma stavolta scattò subito la segreteria, e così anche le successive due volte.

Il moro grugnì frustrato, portandosi una mano a stringere i capelli con fin troppa forza.

"Merda, merda, merda..." mormorò in continuazione, senza sapere cosa fare, come agire, dove andare.

 

Poi, finalmente, capì.

Sapeva dove si trovasse Ashton.

L'illuminazione lo colpì come un fascio argenteo, facendogli spalancare occhi e bocca, il sangue gelato in ogni vena del suo corpo.

Doveva sbrigarsi.

Lanciò il cellulare da qualche parte ed iniziò a correre.

 

***

 

Calum non aveva mai corso tanto in vita sua. Le gambe gli bruciavano, l'acido lattico era arrivato ormai alle stelle, i polmoni faticavano anche solamente a non esplodere, ed ogni muscolo del suo corpo lo implorava di fermarsi.

Ma non l'avrebbe fatto, neppure un attimo.

Non l'avrebbe fatto finché non avrebbe raggiunto Ashton.

La testa gli girava, non sapeva se stesse percorrendo la strada giusta, non sapeva quanto tempo fosse passato da quando aveva parlato col riccio al telefono.

Gli sembrava di aver percorso chilometri interi, di aver proseguito per ore, di aver perso troppo tempo anche solamente per inalare quel briciolo d'ossigeno che gli aveva permesso di non collassare al suolo.

 

Aveva perso la sensibilità degli arti, aveva la vista offuscata dalle lacrime che minacciavano di cadere da un istante all'altro, intrappolate miracolosamente tra le sue ciglia folte, in bilico tra gli zigomi ed il terreno asfaltato.

Aveva le mani sudate, la fronte sudata, la schiena sudata, il cuore impazzito.

Non aveva più fiato, non aveva più forze, non aveva altri obiettivi che non fossero raggiungere Ashton.

 

Rischiò d'inciampare sul bordo di un marciapiede, arrestando la caduta per miracolo. Quando sollevò la testa, i suoi occhi sfocati videro la sagoma distorta di Archway Tower, e si sentì come se fosse appena tornato a respirare.

Utilizzò gli ultimi battiti cardiaci e gli ultimi spasmi muscolari per entrare e salire quelle scale infinite che portavano al tetto. Sperava che ogni gradino fosse l'ultimo, che ogni rampa fosse quella finale, mentre tutto ciò che riusciva a provare era un dolore micidiale al petto ed una scarica d'adrenalina in tutto il corpo.

Poi la riconobbe, quella porticina in metallo che dava sul tetto, qualche metro più in alto di lui.

Corse alla velocità della luce, saltando qualche gradino, fino ad aggrapparsi alla maniglia con entrambe le mani ed appoggiarcisi con tutto il peso, facendo spalancare la barriera che lo separava da Ashton.

 

Quando la porta si aprì, Calum cadde in avanti, atterrando con le mani e le ginocchia a terra, il fiato inesistente ed il cuore rapido quanto mille battiti di ciglia.

Sollevò il capo e lo vide.

Lo vide come se fosse la prima volta, come se fossero tornati indietro nel tempo, durante quella notte di Capodanno, col vento a soffiare prepotente e la vita solo un fardello di cui liberarsi.

Gli stava dando le spalle, il corpo in bilico sul parapetto, i capelli leggermente mossi dall'aria che tirava lì in cima. Ruotò velocemente il collo quando sentì il tonfo causato dalla caduta di Calum e dalla brusca apertura della porta.

I loro occhi s'incontrarono.

Era tutto legato a quell'attimo, a quello sguardo, come un lampo improvviso che ti abbaglia a tal punto da non reggerlo, e così, per paura, abbassi gli occhi, fingendo di non vederlo.

Ma non lo fecero; non abbassarono gli occhi e non finsero.

Si guardarono. Si guardarono come si guarda un tramonto mozzafiato, sperando che non tramonti mai.

 

Poi Calum scoppiò finalmente a piangere, liberando tutte quelle lacrime che aveva trattenuto, lasciando uscire dai suoi occhi il terrore che lo aveva assalito, il sollievo che lo stava invadendo e la gioia che si spargeva in lui.

"Come...?" disse piano Ashton.

"Non potevo lasciarti andare, non potevo perderti davvero." singhiozzò il moro, rialzandosi faticosamente da terra, la gambe stanche e tremanti a sorreggerlo a stento.

"Non saresti dovuto venire." s'incupì il riccio, guardando Calum asciugarsi le lacrime e prendere un bel respiro.

"Sì, invece. Sono qui per dirti tutto ciò che ho finalmente capito."

"Non ho tempo per ascoltarti, non voglio farlo. Vattene."

"Non m'importa. Dovrai farlo, che ti piaccia o no. Non me ne andrò così facilmente." disse Calum con determinazione.

"L'hai già fatto una volta, non dovrebbe essere complicato per te." sputò Ashton, con rabbia velata e risentimento.

 

Il moro scosse la testa, poi fece un paio di passi avanti.

"Sai qual è l'unico modo per misurare quanto ami una persona?" domandò, fissando dritto dentro agli occhi diffidenti di Ashton, "Perderla."

Il riccio deglutì, abbassando gli occhi.

"Ed io ti ho perso. Solo adesso riesco quindi a capire quanto ho sbagliato e quanto tengo a te." proseguì Calum, un'altra lacrima a rigargli la guancia destra.

"Proprio perché ci siamo persi non c'è più nulla per cui valga la pena vivere." constatò Ashton, carico di dolore e tristezza.

"Non è vero." rispose immediatamente il moro. "Ashton, con te la mia tristezza è cambiata: prima ero triste come chi guarda volare via un palloncino finché non scompare, e adesso sono triste come chi sa che, in fondo, ha ancora un'anima."

Il riccio risollevò lo sguardo, stavolta puntandolo in quello lucido e deciso di Calum senza esitazione.

"Con te ho capito molte cose. Ho capito dove ho sbagliato, ho capito che a questo mondo non sono più solo, ho capito quanto tempo ho buttato dietro falsi ideali, ho capito che niente è così importante per me quanto lo sei tu. Ho finalmente capito chi sono, perché solo con te riesco ad essere me stesso. Tu mi hai concesso ciò che ho sempre agognato, ciò che nessuno è mai stato in grado di darmi: libertà."

Stavolta, una lacrima rigò anche la guancia di Ashton.

"E non potrò mai ringraziarti abbastanza per questo. Perché non ho mai sentito di appartenere a nessun posto, ma tu mi fai sentire come se ci fosse un posto anche per me."

 

Ci fu un attimo di silenzio, poi si udì la voce flebile e debole del riccio:"Anche tu te ne andrai. Perché dovresti essere diverso dagli altri?"

Calum fece un altro passo avanti, adesso solo un metro a distanziarlo da Ashton, "Perché ti amo."

Ed Ashton scoppiò a piangere, a singhiozzare, così forte che si vergognò di se stesso, ma non riusciva a fermarsi, a controllare le emozioni che dilagavano dentro di lui, fino a farlo annegare.

La gola gli bruciava, gli occhi gli pizzicavano. Non avrebbe mai pensato che si sarebbe potuto sentire tanto bene e male allo stesso tempo.

Calum finalmente gli aveva detto di amarlo, gli aveva restituito quella speranza che gli aveva precedentemente sottratto, gli aveva offerto una via alternativa per trovare l'eternità che desiderava.

Ma non sapeva cosa fare, non sapeva cosa scegliere, non sapeva quale fosse la strada giusta da prendere.

Una era troppo drastica, ma sicura e senza conseguenze, senza altro dolore, senza altre menzogne.

L'altra era ignota, era ancora da scoprire, più allettante ma anche altrettanto pericolosa, che si sarebbe potuta rivelare l'ennesima delusione.

 

"Amarti è vivere, respirare, gioire. Perché il nostro è un amore che ti toglie e ti dà allo stesso tempo, un amore che ti consuma, ti rivoluziona, ti rafforza e ti cambia, nel bene e nel male." Calum prese un respiro profondo, come se fosse stato in apnea per tutto quel tempo, "Amarti non è più vivere per me stesso. E' vivere pensandolo solo ad un noi."

"Calum..." singhiozzò il riccio, senza riuscire a proseguire oltre, a pronunciare tutte quelle parole che gli affollavano la mente, che gli ostruivano i pensieri più razionali e lo stordivano.

"Io sono tuo." affermò il moro, "Così tuo che non potrò più essere di nessuno."

A quel punto, fece quei passi avanti necessari per arrivare al parapetto. Sollevò di poco la testa per guardare negli occhi di Ashton, poco più in alto di lui per via del piccolo scalino, ed aspettò.

Aspettò che Ashton parlasse, che pensasse, che decidesse, che si calmasse, che assimilasse ogni evento, parola e confessione.

Aspettò con una luce di speranza negli occhi ed un'ombra di timore sul viso.

Aspettò col cuore in mano e le lacrime sulle guance.

Aspettò in silenzio e con un tumulto di pensieri dentro la testa.

Aspettò, aspettò ed aspettò.

E proprio mentre aspettava Ashton si rese conto che avrebbe potuto farlo per tutta la vita.

 

"Cal, io..."

Il riccio era troppo sconvolto per parlare, per respirare, per resistere senza crollare.

"Ashton" lo richiamò Calum, afferrandogli delicatamente le dita e stringendole tra le sue, "Se non mi ami, lasciami le mani." 

Il vento sembrò farsi più forte in quel preciso istante, i loro respiri più affannosi e l'atmosfera a circondarli più pesante.

Ad Ashton parve di rivivere ogni secondo, ogni giorno della loro storia, dal primo momento in cui si erano visti fino ad adesso, con le loro mani unite, un burrone alle spalle e Calum di fronte.

Era in bilico - letteralmente.

Avrebbe potuto lasciarsi andare e cadere, oppure atterrare tra le braccia di Calum.

Era tutto così confuso, complicato e rischioso che non riusciva a muoversi, a riflettere adeguatamente.

Non riusciva ad ascoltare cosa gli stesse urlando il cuore, cosa lo stesse implorando di fare.

Era perso nel limbo dell'indecisione, appeso ad un filo invisibile, sul punto di strapparsi.


"Ashton" lo rischiamò Calum, e subito i loro occhi s'incrociarono, "Calmati."

E, sorprendentemente, il riccio lo fece.

Chiuse gli occhi un istante, il cuore a palpitargli sconnessamente nel petto, il respiro tremante ed insicuro.

Contò fino a dieci, con calma e lentezza.

Poi risollevò le palpebre, puntò le iridi in quelle cariche d'aspettativa del moro, sospirò.

E gli lasciò le mani.

 

Gli gettò le braccia al collo e lo strinse forte, sentendolo rilassarsi e sospirare sollevato contro il suo collo, mentre i loro battiti furiosi si univano e tornavano poco a poco al loro ritmo regolare.

"Ho davvero temuto che-"

"Shh" sussurrò Ashton, stringendolo ancora più forte, "Non ti avrei mai lasciato andare."

"Dio, ti amo, ti amo, ti amo." gli ripeté Calum, premendo il suo viso contro la guancia del riccio.

"Ti amo anch'io."

 

E tutto finì esattamente com'era iniziato.

O meglio, riiniziò esattamente com'era finito.

 

Ashton e Calum iniziarono a vivere nello stesso luogo in cui avevano sperato di morire.

 

***

 

Calum si svegliò di soprassalto, gli occhi sgranati ed imbrattati di lacrime, il respiro affannoso e la fronte sudata.

Sempre lo stesso sogno, sempre la stessa scena, sempre la stessa fine.

Ogni volta il moro si risvegliava tra i singhiozzi e la sensazione ancora bruciante delle mani di Ashton intrecciate alle proprie.

Ed ogni volta, si ricordava che fosse solo un sogno.

Un sogno bellissimo, nel quale si rifugiava per riuscire a chiudere occhio la notte, almeno qualche ora, senza torturarsi e sommergersi di pensieri troppo rumorosi.

 

A volte sperava che potesse essere andata così sul serio.

A volte sperava di poter essere arrivato in tempo, di avere ancora Ashton lì con lui, al suo fianco.

A volte sperava di non aver mai sbagliato, che non fosse colpa sua, che si trattasse solamente di un incubo e la realtà fosse quell'altra, quella in cui poteva ancora stringere il riccio tra le sue braccia.

 

Si era ripromesso che sarebbe stato forte, sia per se stesso che per tutte quelle volte in cui Ashton non lo era stato abbastanza.

Si era ripromesso che ci avrebbe provato, che sarebbe andato avanti anche senza di lui, nonostante facesse male da morire.

Si era ripromesso che non avrebbe mollato, che non avrebbe dimenticato, che non avrebbe fatto lo stesso errore.

Si era ripromesso tante cose, ma ogni giorno che passava diventavano per lui sempre più dure da mantenere.

 

Dopo la morte di Ashton, qualcosa di forte si era risvegliato in Calum.

Aveva finalmente trovato la forza di affrontare i suoi, dopo mesi interi senza vederli, e gli aveva chiaramente detto che non aveva intenzione di seguire le orme che erano già state designate per lui.

Aveva preso i soldi che gli spettavo, quelli con i quali avrebbe dovuto gestire l'azienda di famiglia, ed aveva acquistato un piano intero di Archway Tower, costruendoci un ambiente accoglievole per un gruppo di supporto psicologico, per tutte le persone che avevano bisogno di sfogare le proprie frustrazioni, o anche solamente di avere un po' di compagnia.

Successivamente, con i soldi avanzati, aveva terminato di pagare il mutuo dell'appartamento di Ashton e lo aveva riorganizzato, trasferendosi a vivere lì, per sentirlo più vicino in ogni oggetto che portava ancora il suo profumo.

Ed infine, dopo aver atteso a lungo ed aver finalmente trovato il coraggio, si era recato a fare visita alla tomba di Ashton.

 

Aveva provato delle sensazioni strane; non esattamente sgradevoli, ma confuse e cariche di malinconia.

Non aveva pianto. Aveva semplicemente lasciato il suo mazzo di fiori lì accanto e se n'era andato senza dire una parola.

A loro era sempre bastato uno sguardo per capirsi.

 

Gli mancava. Gli mancava terribilmente.

Ma grazie a lui aveva finalmente appreso il vero significato della vita e si sentiva un uomo realizzato.

Ancora una volta, doveva ringraziare Ashton Irwin per essere finalmente diventato l'uomo che avrebbe voluto essere.















NOTA DELL'AUTRICE:

Heylà! :)
Ce l'ho fatta, finalmente ho pubblicato questa cashton.
La sto scrivendo da così tanto tempo che non riesco a credere di essere sul serio riuscita a finirla.
E' davvero lunghissima, una cosa come trentamila parole e passa. Uau.

Per scriverla mi sono ispirata al libro di Nick Hornby (dal quale è stato tratto il film) "Non buttiamoci giù".
Anche se ha un lato comico - assolutamente non presente in questa storia, lol.

La mia idea iniziale era quella di far terminare questa storia quando finalmente Ashton e Calum riescono a trovare una sorta di "pace".
Ma siccome le conclusioni allegre non fanno per me, ho aggiunto l'ultima parte in cui si rivela che fosse tutto un sogno :-)
Sono troppo crudele, ikr. Ma adoro l'angst, è più forte di me.

Questa storia tratta tematiche molto delicate, che spero di aver scritto con la giusta accortezza e dando il giusto peso ad ogni parola.
Inoltre - come in ogni altra mia storia - c'è una parte di me, una parte oscura che sentivo la necessità di tirare fuori.
Diciamo che la storia di Ash e Calum è un po' lo specchio di una mia storia passata (naturalmente in modo ingigantito).

La canzone che viene nominata all'interno della storia (ossia Private Fears In Public Places) è davvero bellissima e mi ha ispirata molto. Per questo vi invito ad ascoltarla e a leggerne il testo, davvero meraviglioso.
Ve la linko qui.

Beh, credo di aver detto tutto.
Ve ne sarò immensamente grata se vorrete lasciare una recensiore ed esprimere il vostro parere. Mi fa sempre piacere leggere cosa ne pensate.
Vi ringrazio in anticipo per aver letto questa "cosa" chilometrica.
Grazie.

Baci xx

Petra.

 
  
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