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Autore: Cassandra Morgana    04/02/2009    8 recensioni
Sullo sfondo chiaroscurale di un'Accademia d'Arte Drammatica con troppe maschere da indossare e una posta in gioco che sale, tre ragazzi si incontrano.
Elena vince il proprio mal di vivere grazie a un'amicizia speciale, al ritrovato coraggio di gestire i conflitti e a un forte altruismo; si scontra con Isa, la sua nemesi, voce contraria e complementare che cerca di tessere una storia opposta.
Andrea, ragazzo ambiguo e dalla lingua affilata, vuole recuperare la stima di chi, troppo tardi, si è reso conto di amare.
Gabriele imbroglia la propria depressione fumando spinelli, nutre sentimenti ambivalenti verso Andrea e gioca da burattinaio.
Tra pettegolezzi sussurrati, volontà opposte in rotta di collisione, ambizioni frustrate, gelosie, complotti sotterranei, storie di ordinaria omofobia, dark enigmatici, musicisti irascibili, ex amanti, amicizie inossidabili e amori taciuti, in una storia in cui ognuno vuole far sentire la propria voce, resta solo stabilire chi sia Cleopatra e chi il serpente che le insidia il seno.
[Storia sesta classificata e vincitrice del premio "Stile e scrittura più originale" al contest Chi è normale non ha molta fantasia - La storia più originale su EFP, indetto da Butterphil]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il bacio dell'aspide ~ la serie'
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Il bacio dell’aspide

 

 

 

Capitolo 1

Alea iacta est

 

 

Via, via, vieni via di qui,

niente più ti lega a questi luoghi,

neanche questi fiori azzurri…

via, via, neanche questo tempo grigio

pieno di musiche e di uomini che ti son piaciuti…

 

(Paolo Conte, “Vieni via con me”)

 

 

I fantasmi della notte si diradano nella nebbia greve e sonnolenta di un mattino senza colori.

Apri gli occhi, le palpebre tremolano appena nell’ombra, la mente arranca nel riprendere possesso della sua funzione e della consapevolezza che oggi è venerdì, che, tempo qualche secondo, quel familiare strascico d’angoscia, costante irrinunciabile che scandisce ogni risveglio apatico, invaderà prepotente ogni anfratto della coscienza, inasprendo l’impresa atavica di emergere dalle coperte nel gelo del mattino, un piede e poi l’altro e via le lenzuola; zoppicare fino al bagno e, in un’associazione mentale del tutto involontaria, ripercorrere mentalmente l’ultimo pensiero, il nodo d’amarezza che ha compiuto l’ultimo giro di ricognizione, prima che il cono d’ombra di un sonno senza sogni allentasse la coscienza.

Lo schiocco metallico dell’interruttore, e presto una luce debole di un ocra sbiadito inonda le pareti assopite nella caligine del mattino presto, e proietta quella squallida, mattutina sensazione di raccoglimento in quelle stanze che per te definiscono il guscio immaginario che ti sigilla al riparo dall’incognita che sta là fuori, dall’ansia di uscire che, quasi come un paradosso, finisce per proiettarti fuori di casa ogni mattino, nel ricamo di una pioggia sottile che minaccia di piegare i tuoi passi.

 

Via, via, entra e fatti un bagno caldo

c’è un accappatoio azzurro, fuori piove un mondo freddo…

 

Ma stamattina, il vento gira in direzioni inedite.

La mente scevra di ogni riflessione accessoria, sorridi alla tua immagine allo specchio: forse, stavolta l’aria ha un colore diverso.

Cipria, la gatta persiana, si struscia voluttuosa sulle gambe infreddolite.

È diverso, perché non avverti la paura di ciò che sta là fuori, di un qualcosa che non ha forma né odore, che non condiziona visibilmente la tua vita e non ti impedisce di scandagliare tranquillamente la realtà: c’è solo il logorio estenuante che sempre reca con sé, che si accontenta almeno di martellarti dentro. Un sospiro.

La gatta si stende sulla schiena, avida di carezze, e un concerto di fusa riscalda il silenzio, il tepore del corpo sotto la mano fredda.

 

Lo specchio ti rimanda indietro la tua immagine. Capelli d’un biondo indefinito, contaminato dalla foschia cittadina, ruscellano piacevolmente sulla schiena, e no, non sono così male; occhi scuri, sopracciglia sottili ritoccate con cura certosina quasi a rendere evanescente l’espressione del viso, cristallizzata in una piega altera; e poi le labbra carnose, il volto pallido e affilato ritagliato in un profilo meno regolare di quel che dovrebbe.

Uno strato spesso di matita delinea le palpebre ampie; abiti che l’ordine che li assembla è sancito dal caso e dalla fretta, vestono membra vagamente spigolose, appena rinfrancate dal getto caldo della doccia. Una carezza a Cipria, e poi via, fuori – oddio, le chiavi, mamma non ha ancora chiamato stamattina; il cellulare è in tasca, sì, ce l’ho messo prima e sono sicura, il caffè me lo faccio direttamente alle macchinette, anche se mezza tazzina di sciacquatura di piatti riscaldata, di primo mattino, non è che sia una grande accoglienza. Via.

 

È il mondo, stamattina, la sua fotografia illusoria, a riflettere sembianze diverse dal solito, come una proiezione inedita; il mondo ha cambiato direzione, e non sai che cos’è, ma non sei abbastanza lucida da formularti la domanda, perché l’autobus potrebbe lasciarti a piedi da un momento all’altro. Pensi di aver urgente bisogno di una sigaretta, ma non c’è tempo.

Corri, la mente sgombra, un passo e poi l’altro. La città vuota, vergine incontaminata ritagliata nel marmo e nel cemento, il cielo brumoso appena albeggiato, cangiante di pioggia rarefatta nell’aria. Non è poi così male. Pensi che anche questo, dopotutto, ti piaccia.

Non è male neppure il raggio di sole improvviso che ti costringe a serrare le palpebre, il vago strofinio delle lenti a contatto schiaffate negli occhi ancora stanchi, unico strascico della sonnolenza tentatrice che per dieci minuti abbondanti ti ha ancorato dentro il letto. Ma non è come le altre volte, non c’era quel peso indecifrabile sul cuore, quella sensazione di estraniamento che accompagna il dubbio: il dubbio che non valga la pena di cacciarsi fuori dal proprio torpore, che forse sia più salutare lasciare tutto là fuori, e al diavolo tutto, senza pensieri – pensieri che tornano a scavare la voragine, puntuali.

Nulla di questo ti attraversa la mente. Vorresti dirlo, vorresti almeno domandartelo, senza attendere necessariamente una risposta, e invece ti limiti a riflettere su quanto ti sembri di muoverti nella caligine sottile di uno di quei sogni che al risveglio lasciano un sapore dolce in punta di labbra.

Rideresti: non ti importa dell’autobus pieno da scoppiare, dell’angolino di fortuna, del brusio che sa di vita e ti si riversa intorno. Raramente un filo di vento è in grado di decidere le sorti della valanga. Tutto sembra distante, incapace di scalfirti. Paradossalmente. Fino a varcare il cancello, vittima compiaciuta di quella che, pervasa da un filo di languore inspiegabile, appare come un sogno o un’allucinazione. Il sole si fa largo impertinente tra le fronde alte di una quercia, i raggi si infrangono in nastri di pulviscolo dorato che aprono un varco tra le foglie. Imbocchi il piazzale sterminato con passo sicuro. Tutto scorre intorno a me.

Potresti dire, curiosamente, che la Elena diffidente che si guarda intorno con sospetto, un filo d’amarezza divenuto esistenziale, intima costante, collante nocivo tra la tesi e l’antitesi, all’improvviso ti sembra un’immagine remota.

In fondo non è tanto più complesso di recitare un copione di cui, di colpo, senti di conoscere a memoria trame, personaggi e interpreti, le redini della tua giornata strette con pugno fermo. Il controllo sulle emozioni come nozione basilare.

E oggi neppure la bella Accademia d’Arte Drammatica è la stessa cosa: uguale la forma, uguali i contorni che delimitano la struttura severa, incombente; eppure, se non potessi citare a tuo favore, base concreta di un’insindacabile certezza, il fatto che la linea numero 8, cinque fermate a partire da casa, ti ha scaricato proprio qui senza margine d’errore, ti domanderesti con tutta probabilità se non abbia confuso la destinazione, se davvero siano sempre state queste le sensazioni con cui l’oggetto, il luogo, l’atmosfera, l’entità concreta si sia impressa in te. Se, raffrontando un prima e un dopo, non stia piuttosto osservando due singoli ritratti dello stesso soggetto, diversa la luce che ne scandisce le ombre e i profili, diverso il colore, la prospettiva, la sensibilità che ha modellato le pennellate sulla tela.

Invece c’è solo un raggio di sole che ti investe in pieno, l’ombra lunga che si staglia davanti a te. Ammicchi al di là del piazzale, la sigaretta fumata a metà che oscilla pigramente fra indice e medio, un brulichio crescente di voci che si spandono nell’aria e un certo “fattaccio” dai contorni ancora oscuri che rimbalza sulle bocche dei presenti.

 

L’ambiente che ti circonda è tutto un mutare forma, mentre cerchi di metterne a fuoco i profili. Puoi avvertire la cappa di tensione, il sapore d’ignoto che confonde le percezioni. Nemmeno questo ti ferma. I sensi catturano nell’aria un’insolita elettricità che sa di adrenalina.

Avida di sapere, distaccata dalle sensazioni più vivide, quasi ti compiaci della freddezza con cui osservi la realtà che si dispiega con rassegnazione davanti a te.

Eventi che ancora non conosci, sentori nebulosi che puoi solo provare ad accarezzare in un lampo particolarmente fervido d’immaginazione; lo sospetti – non del tutto, a dire il vero –, ma sai che verrà. Un fermento di cattive notizie dall’ampia portata, una caligine che pesa sulle spalle.

L’ingresso spalancato sul retro dell’edificio ti accoglie con un velo di grigiore notturno residuo incollato alle pareti dei corridoi e delle aule spoglie di vita; il linoleum dall’asettico color crema scorre sotto il tuo passo impassibile, spedito. E poi arriva l’andirivieni incessante, il brusio soffuso che si solleva nell’aria, che diviene indignazione, rabbia, rombo di protesta, valanga che invischia ogni spazio, onda anomala che chiama battaglia.

Il volto dell’Accademia è cambiato: non più studenti che si avviano ordinatamente alle lezioni della mattinata, le ultime tracce di sonno appena visibili sui volti.

Alcuni siedono in crocchio nel piazzale sulle panche gelide. Conversano fra loro, il gesticolare nervoso sancisce la sferza delle parole in ciò che sembra una critica feroce, un moto d’ira, un’accusa al vetriolo che percuote l’aria; occhi che vibrano nelle orbite stanche, sguardi sottili che corrono, strali invisibili alla ricerca del colpevole su cui puntare il dito, del dettaglio appetitoso, di uno straccio di indizio per gettare uno spiraglio di chiarezza sullo scandalo.

Altri stanno in piedi, nugoli irrequieti assiepati intorno all’ingresso principale come pronti a uno scontro immaginario, gambe divaricate in una posa aggressiva, mani tese nella smania d’agire, proiettili verbali che dalle labbra tirate cavalcano l’onda dell’indignazione.

I più insidiosi sono loro, loro che vagano senza posa come formiche spaventate in una strana processione, dentro e fuori. Quasi in spregio al regolamento, qualche timida voluta di fumo sale da alcune sigarette sfacciatamente accese. Un conversare malizioso e soffuso percorre l’aria, il sapore di dolce far niente in una scuola che oggi scuola non è: bordello, piuttosto – e allora, che senso ha prendersi il disturbo di raggiungere l’aula, depositare le proprie cianfrusaglie e attendere lezioni che non inizieranno?

 

Venduti, pagliacci, corrotti. Schifosi.

 

Sogghigni: lo scherno, il ridicolo sono armi potenti.

Ti è mai importato qualcosa? Si scannino l’uno con l’altro: l’avresti detto, in quel passato recente che sembra una foto sfocata; l’avresti detto quando ti crogiolavi dietro lacrime dense e una disperazione che reca il germe della forma peggiore di egoismo, veleno che alimenta una collera impotente.

Se l’eco del problema – e qualcosa di più complesso che non sai spiegarti – non fosse mai venuto a scrollarti dall’apatia, esacerbare i fumi del rancore, sollecitare l’eventualità di un riscontro personale e un umano disgusto.

Oltre alla rabbia, al brivido crudele di portare alla luce cumuli di carte false e carte stracce – che solo ora vedono la luce del sole, ostentate con tracotante orgoglio dai presunti fautori degli accordi dietro le quinte –, in quello che ho fatto, credete, non c’è niente di eroico, niente di cui essere orgogliosi.

Accarezzi la porta dell’Aula Magna come una belva da ammansire, e sorridi, un sorriso freddo, senza trasporto, perché la bambola inizia a camminare con le proprie gambe.

Una presunta dirittura morale che tutti, ingenuamente, ritenevano scontata, non era che fumo negli occhi, smaccata bugia, velo di Maya.

La promessa spudorata di un vantaggio dal risvolto materiale ha catturato l’onda e investito il dominio degli affetti, l’interiorità, fino all’illusione di una gioia duratura. Una piega di collera mista a rammarico ti indurisce le labbra arrossate dal gelo mattutino. Rapporti umani intessuti sotto le luci e le ombre dell’ipocrisia, di un astuto, ineffabile contegno; sentimenti e merce di scambio. Una bugia da cui deriva la costruzione di una felicità piena, pervasa di un appagante calore, figlia di un impianto di menzogne ben strutturato.

 

È forse colpa mia, Loria, se instaurare dei rapporti non è roba per te? Io creo dal nulla, cerco la chance, com’è giusto, normale che sia; di questo mi nutro. Tu sei arida.

Io posso, tu no.

 

Tu chiamali rapporti, cara stronza; chiamali teatrini ben costruiti, impianto ingannevole di una recita a puntino. Chiamali con il vero nome. Chiamalo leccare il culo!

“Sfigata” per definizione che fa sua ogni causa persa, che rifiuta di accontentarsi di guardare attraverso il velo e accettare con buona pace la propria inadeguatezza, i calci nello stomaco di un’indifferenza che le è dovuta; leone dalle sembianze ingannevoli di pecora, avvocato del diavolo, artista mascherato che gioca con la sorte.

Sorridi ancora. Un ghigno che gronda amarezza, una speranza dal profumo sconosciuto. Vendetta o giusta ripicca? Non sei diversa da loro. Non è il tuo trionfo, anche se un tempo avresti dato dieci anni della tua vita per carpire con occhi morbosi il momento. Rivalsa dal sapore inconsistente che non porta a nulla, se non a scandire il flusso delle sorti che mutano, salgono e poi crollano come castelli di carte; e tu osservi tutto senza lasciarti sfiorare, spettatrice silenziosa della disfatta di un nemico che forse non hai mai visto in faccia. Nulla di personale e accoratamente tuo.

Il brusio ti martella nelle tempie; le urla, le arringhe, scambio di prospettive vuote. È l’onda anomala che giunge a destinazione.

A fatica ti fai largo tra file di studenti assiepati per terra, gambe incrociate e sguardi di fiamma. Un sibilo intenso ti riempie la testa, ma ti sforzi di ignorarlo. Il mondo riprende a girare, ma la visuale è offuscata, allucinata, disattenta nel cogliere un quadro d’insieme che non fugga i dettagli. L’andirivieni così serrato e continuo da stordire.

E poi inerpicarsi su per la scala a chiocciola al centro della sala, alla ricerca di una boccata d’aria pulita e di un posto in prima fila.

A fatica oltrepassi un paio di ragazzi che neanche ti prendi la briga di identificare, e lì è il tuo posto di fortuna, la mente altrove, la tensione che sale.

Il dado è tratto.

 

* * *

 

(Aggiornamento 26/10/2012: ho “unito” prologo e primo capitolo. La risposta alla recensione si riferisce quindi a quella lasciata al prologo)

 

Passando ai ringraziamenti, come non citare il bellissimo commento di AhiUnPoDiLui?

È un meraviglioso complimento quello che hai fatto, perché hai centrato esattamente quel che volevo tratteggiare in questo primo capitolo. Realtà e sogno sembrano confondersi: ho voluto dare quest’impianto che sembra “velato” di nebbia e scandisce il flusso dei pensieri, dell’interiorità del personaggio che si muove sulla scena, delle atmosfere. Il paragone con il quadro impressionista… *.* Lì ho gongolato, a dover essere sincera!^^

Grazie a tutti coloro che hanno letto (nell’ombra), magari anche apprezzato (spero!) questa storia che, in effetti, si discosta un po’ dal mio solito modo di scrivere, mantenendone comunque viva l’impronta.

Alla prossima!

 

   
 
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