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Autore: Darth Curunir    01/09/2015    3 recensioni
L'autobiografia di dom Claude Frollo, arcidiacono di Josas, dalla sua nascita alla sua morte. La storia di un prete dotto e saggio, che improvvisamente scopre il desiderio e l'amore, che lo condurrà a una dannazione che, forse, nemmeno lui aveva osato immaginare
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Claude Frollo, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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~~Memorie di un Arcidiacono
LA VITA DI UN PRETE CHE DIVENTÒ UN DEMONIO

 

 

 

 

 


Non so perché quest’oggi, 3 luglio del 1482 A.D., io, arcidiacono di Josas Monsignor Claude Frollo, in questa fredda torre di Notre-Dame di Parigi dove vivo e opero, ho deciso di prendere penna e pergamena e di iniziare a scrivere le mie memorie. Forse per far conoscere a qualcuno – non importa a chi – la mia vita passata fra libri e carte… o forse è per esternare le forze che s’agitano nel mio petto, troppo, troppo forti anche per una persona ferma e seria quale sono io.
Ma per arrivare al presente occorre iniziare dal passato, da quando venni alla luce. E così farò.

Nacqui il [data illeggibile] 1446 a Parigi. La città non era molto diversa da come lo è oggi, anche se debbo dire che la maggior parte dei miei ricordi riguarda il feudo di Tirechappe, appartenuto alla famiglia Frollo, dove passai molti anni della mia più tenera infanzia.
La mia famiglia non era propriamente nobile, ma decisamente agiata, tanto che eravamo vassalli del vescovo di Parigi. Mio padre Gaspard mi educò fin da piccolo a leggere il francese colto e, soprattutto, il latino. Andavo a sentir messa tutte le domeniche, e mio padre mi diceva sempre che il mio futuro era la carriera ecclesiastica.
Dopo avermi impartito questi modesti insegnamenti, mio padre mi iscrisse al collegio di Torchi all’Université di Parigi, e qui mi educarono alla conoscenza approfondita del latino, del greco e dell’ebraico.
Divenni chierico a circa sedici anni, dopo aver ottenuto la licenza scolastica, e dapprima mi appassionai alla teologia. Iniziai dunque a imbucarmi alle frequenti lezioni che si tenevano in Rue Jean-de-Beauvais, prendendo appunti e ascoltando. Dopo mi dedicai al Decreto e al Diritto, studiando decretali su decretali, da quelle di Teodoro di Siviglia a quelle di Carlo Magno. Infine presi a dedicarmi alla medicina e alla scienza dell’uso di erbe medicinali. Ottenni laurea e dottorato, diventando celebre a professori e prelati di tutta Parigi.
Perché, ci si potrebbe chiedere, un giovane ragazzo parigino, anziché frequentare le feste e i baccanali dell’Université, si dedicava così ardentemente a materie di studio tanto serie e profonde? La risposta io l’ho sempre avuta. Quando iniziai a studiare la filosofia mi chiesi quale fosse lo scopo della vita, perché noi uomini nascevamo e morivamo su questo mondo. E arrivai anch’io a una conclusione. Capii che questa breve vita mortale non è nulla in confronto al nulla che la precede e al tutto che la segue. Cos’è la vita se non un breve periodo in cui siamo tenuti a decidere cosa fare dopo la vita? Non ha senso sprecare il proprio tempo fra vino e donzelle, quando vi è un mare di conoscenza da possedere, o almeno tentare di possedere! La vita ha un solo scopo: sapere. Questa era la mia più ferma convinzione.
Di lì a poco nacque il mio fratellino Jean, a cui i miei genitori vollero subito molto bene.
Poi venne il 1466. Avevo diciannove anni, quando, d’estate, scoppiò la pestilenza a Parigi. Ero all’Université, un giorno, quando mi giunse all’orecchio la notizia che il feudo di Tirechappe era stato colpito dal morbo. Corsi a casa, ma era troppo tardi: mio padre Gaspard e mia madre Madeleine erano morti, e a nulla valse la mia scienza. Ma il piccolo Jean era ancora vivo.
Lo raccolsi dal pavimento, e fu allora che decisi di crescere personalmente il piccolo, e di occuparmi di lui. Sentii un nuovo sentimento nascere in me: l’amore verso qualcosa che non fosse solo astratto, come la conoscenza e il sapere. Jean non era ancora svezzato, così mi rivolsi a una mugnaia del feudo di Moulin, che avevo ereditato da mio padre, chiedendole di allattare il mio piccolo fratello.
In una sola volta, il giovane studente innamorato del sapere quale ero scoprì la morte e la vera vita.
Da quel giorno presi la mia esistenza molto più sul serio, e feci voto di non sposarmi mai, per potermi dedicare con tutto me stesso al piccolo Jean Frollo du Moulin. Così mi aggrappai alla mia carriera ecclesiastica, e a vent’anni divenni vassallo vescovile, arcidiacono di Josas e prete alla cattedrale di Notre-Dame.
Ottenni il permesso di insediarmi nella cattedrale, e nella mia piccola stanza continuai a praticare il mio sapere, a leggere, a scrivere, a scoprire. In giro si iniziava persino a pensare che fossi un mago o uno stregone.
Passò un po’ di tempo, e il giorno della domenica di Quasimodo, la prima dopo Pasqua, dello stesso anno, di ritorno dall’altare, notai un’insolita calca di persone attorno al letto ove venivano riposti i trovatelli abbandonati. Una gran quantità di comari schiamazzava, dicendo che vi era dentro a un sacco il figlio del Diavolo.
Aprii il sacco, e trovai un piccolo bambino deforme, di circa tre anni, con una verruca sull’occhio sinistro, gobbo e con le gambe storte. La visione era quasi terrificante, ma in quel momento mi ricordai del giorno in cui avevo raccolto Jean e avevo giurato di occuparmi di lui. Avrei fatto la stessa cosa con questo povero bambino deforme e rifiutato da tutti, in nome del mio stesso fratello.
Lo ribattezzai Quasimodo, ossia Pressappoco, e decisi di allevarlo come un figlioletto nella torre campanaria di Notre-Dame, dove sarebbe stato al sicuro dal mondo che così tanto lo disprezzava. Mi abituai alla sua bruttezza, e decisi che, una volta cresciuto, avrebbe fatto il campanaro di Notre-Dame.
Quasimodo crebbe esattamente come era nato, ossia storpio, ma almeno era fuori dagli sguardi della gente. E così, mentre lo educavo quotidianamente, lui svolgeva il compito di campanaro, suonando le campane della cattedrale al mattino, al pomeriggio e alla sera. Purtroppo l’esposizione prolungata al suono delle campane lo rese sordo, e così dovetti abituarmi a parlargli a gesti.
Mio fratello Jean, intanto, cresceva diversamente da come avevo sperato. Iniziava a dimostrarsi insofferente verso lo studio, ad amare le feste e i bordelli, e iniziò ad allontanarsi da me. Fu un duro colpo per il mio cuore. Avevo cresciuto e allevato quel ragazzo come un figlio, e ora lo avevo perso.
Credo che da allora mi avvicinai ancor di più a Quasimodo, rivolgendo al gobbo le cure che Jean aveva iniziato a rifiutare.
Da allora mi appassionai e mi dedicai a un altro sapere affascinante, benché abbia richiesto grandi sforzi da parte mia, e mi abbia fatto invecchiare in volto prima del dovuto: l’alchimia. Avevo ormai pregustato tutti i frutti del sapere, e restava solo quel frutto, ritenuto da tutti marcio e ripugnante. Ma io vedevo l’alchimia come la strada per raggiungere la gloria, la purezza: cosa c’è di più puro e sacro che riuscire a scoprire il segreto celato nell’oro, e il segreto per ottenere quella pietra filosofale tanto decantata da Nicolas Flamel, in grado di trasformare ogni metallo in oro, e di porre un freno alla morte?
Un giorno, credo fosse il 1481, discussi in merito all’alchimia con un medico di mia conoscenza e un suo compare. Quest’ultimo si appassionò ai miei discorsi e all’alchimia, e siccome occupava una posizione di riguardo nel Regno di Francia, mi fece conoscere tutta la Corte!  

Mentre Quasimodo cresceva e Jean si allontanava da me, continuavo a recitare messe e vespri, proseguendo i miei esperimenti di scienza e alchimia. Poi, un giorno di dicembre di quello stesso anno 1481 A.D., la mia vita cambiò.
Era un giorno d’inverno, ma non faceva freddo, e il sole di un mezzogiorno invernale brillava nel cielo. Io leggevo, appoggiato alla finestra della mia stanza sulla torre di Notre-Dame. Tutt’a un tratto sentii un suono di tamburello. Guardai fuori, sulla piazza del Sagrato. Lì danzava l’essere destinato a condannarmi a un’esistenza di dannato.
Era una ragazzina, una zingara, dai capelli neri e dalla pelle morbida e lucente, gli occhi neri, il corpo perfetto. Non aveva più di sedici anni, e non era alta, ma lo sembrava, tanto la sua bellezza era incantevole. Accanto a lei stava una capretta, e una folla di curiosi accerchiava la splendida fanciulla.
Il libro mi cadde dalle mani. Il mio sguardo non riusciva a distogliersi dalla gitana. Come potevo fissare in quel modo una zingara – una zingara? Avevo sempre odiato i gitani, e li ritenevo una marmaglia di gente che vive al di fuori di qualsivoglia ordine morale, senza principî né ritegno, che non hanno problemi a truffare, rapinare o uccidere gente per bene. Ma no, quella zingara era diversa! Non era umana, non poteva esserlo, bella com’era! Doveva essere un angelo, o un demone, ma non una donna!
Tentai più volte di distogliere lo sguardo da lei, ma non vi riuscii, le mie mani erano aggrappate al davanzale, i miei occhi attaccati al vetro. La osservai ballare e suonare il tamburello, fino a quando non se ne andò. Allora ricaddi sulla mia poltrona, lo sguardo vitreo, fisso, sfiancato, spiazzato. Cos’era successo in me? Non lo sapevo. Ma dovevo rivedere la zingara.
Passarono i giorni. Ma non ero più il Claude Frollo che conoscevo. Ormai vedevo la gitana dappertutto, sul mio breviario, nei miei sogni, alla finestra. Ero stato rapito dalla sua bellezza e, benché io percepissi che quella gitana era destinata a condurmi in tentazione, non potevo liberarmi dal suo pensiero.
Pensando che una nuova impressione avrebbe cancellato la prima, la cercai di nuovo. La vidi di sera, ballare non lontano dal Palazzo di Giustizia. Ahimè, da allora fui perduto!
La scienza, la filosofia, l’alchimia, la conoscenza avevano per me perso ogni attrattiva. Non facevo che pensare a quel demone – perché di questo si trattava, ne ero certo! Eppure non potevo resistere a quel pensiero. Dovevo allontanare al più presto la zingara da me.
Così parlai col vescovo di Parigi, chiedendogli l’autorizzazione di interdire la piazza del Sagrato di Notre-Dame agli zingari. Il permesso mi fu accordato.
Per un bel po’, la zingara non si fece più viva. I primi giorni stavo incollato alla finestra della mia celletta, quasi sperando che la ragazza si facesse viva nonostante il divieto. Ma poi ricordai il motivo dell’interdizione al Sagrato, e mi misi l’anima in pace.
Un giorno, erano i primi del 1482 A.D., mentre leggevo un libro di Nicolas Flamel sui poteri della polvere di proiezione, sentii un suono di tamburello. La zingara tornò nei miei pensieri. Corsi alla finestra; era lei.
Piansi, urlai, mi strappai i capelli dall’ira. Era chiaro che quella creatura intendeva farmi impazzire.
I giorni passarono lenti e dolorosi, e arrivò il 6 gennaio. Ricorreva quel giorno un importante avvenimento, per i cittadini di Parigi: la concomitanza del giorno dell’Epifania con la Festa dei Folli, una festa contadina in cui si metteva la città a soqquadro e si eleggeva un “papa dei Folli”.
Nel salone del Palazzo di Giustizia si celebrarono una serie di rappresentazioni squallide di misteri o scenette comiche, che conclusero con l’elezione del “papa”. Ma io non ero lì quando tutto questo accadde, e rimasi a Notre Dame per celebrare messa.
La sera uscii dalla cattedrale, e fui stupito di non vedere l’ombra di Quasimodo accoccolato sul primo gargouille della torre campanaria sinistra, com’era solito fare a quell’ora. Decisi di fare una passeggiata dalle parti di Place de Grève e lì – oh, quale visione malefica e insieme incantevole! – vidi ancora la zingara che ballava innanzi a un fuoco con la sua dannata capretta. Ah, tentai di nascondere a coloro che mi circondavano ciò che provavo, ma i miei occhi non potevano staccarsi da lei.
La giovane gitana fece poi esibire la sua capretta – si chiamava Dali, o forse Djali – che era in grado di fare cose tipicamente umane. Era un maleficio, non ho dubbi, e non tardai a manifestare i miei pensieri.
Poi iniziò la sfilata di zingari, in cui si presentarono i loro “re”, i loro “duchi” e “principi”, tutti vestiti miseramente e montati su squallide carrette trainate da cani, porci o capre. Ma ecco che arrivò su una portantina il “papa dei Folli” eletto quel giorno stesso. Vidi subito che era gobbo, aguzzai la vista e…
“Quasimodo!” gridai.
Corsi verso il campanaro e lo feci scendere rimproverandolo. Come ho già detto, avevo sempre proibito a Quasimodo di uscire dalla cattedrale, ma non per cattiveria, no! L’avevo fatto per il suo bene, perché non fosse schernito e ripudiato. Mi aveva disobbedito, e ora si ritrovava “papa” di zingari, tagliaborse e assassini.
Con gesti imperiosi – così parlavo col campanaro sordo – rimproverai Quasimodo, e lui mi chiese scusa inchinandosi. Gli altri Parigini non mi guardarono con approvazione, anzi, credo che pensassero che quel gobbo tozzo e forte avrebbe schiacciato senza premura un povero prete magro e pelato. Ma Quasimodo intimò loro con un pugno alzato di allontanarsi, e insieme al gobbo tornai a Notre Dame.
Giunti nella torre campanaria dove viveva, lo rimproverai ancora, e gli ricordai che il divieto di uscire dalla cattedrale non era un’azione malvagia nei suoi confronti, ma un’azione necessaria per preservare la sua incolumità. Quasimodo si inchinò scusandosi, e io potei ritirarmi nella mia torre.
La zingara era tornata per l’ennesima volta nella mia vita. Per pensare ad altro, mi sedetti e continuai un esperimento alchemico che avevo intrapreso tempo prima. Mentre versavo distrattamente dello stramonio in polvere in un infuso di asfodelo, dall’ampolla scaturì una fiammata, e si levò molto fumo. Ed ecco che nel fumo apparve nitido il volto sublime e maledetto della zingara. Gettai l’ampolla per terra, e mi inginocchiai davanti al caminetto, sormontato da una grande croce dorata. Chiesi perdono per i miei pensieri sacrileghi, recitai il Confiteor, il Credo, l’Agnus Dei. Mi fermai stravolto a fissare il fuoco. Ed ecco che vidi fra le fiamme il corpo snello e perfetto della gitana danzare come un’empia strega nel fuoco d’inferno. Gridai e mi alzai.
Per settimane avevo tentato di soffocare i miei desideri verso quell’essere, ma ora basta, era ora di smettere di fingere! Ero attratto da quella sporca zingara. Non capivo se quello che provavo fosse amore o semplice attrazione carnale, ma ero certo di una cosa: volevo che quella gitana fosse mia!
“Non m’importa del sacrilegio né del voto di castità,” dissi, tendendo le braccia alla zingara che avanzava fuori dal caminetto sotto forma di fumo, “Quella zingara sarà mia…” mentre tentavo di abbracciarla, la gitana svanì nel nulla, e nulla strinsi fra le mie braccia. “O morirà!”
Mi infilai la cappa nera che avevo appesa a un muro, e uscii dalla stanza. Era appena suonato il coprifuoco quando giunsi nel luogo dove Quasimodo dimorava: avevo intenzione di rapire la zingara, e la forza mostruosa del campanaro mi sarebbe stata utile.
Non appena mi vide, il gobbo si prostrò ai miei piedi, ma io gli feci cenno di seguirmi. Mi calai il cappuccio sul capo e uscii dalla cattedrale seguito da Quasimodo.
Percorsi vie strette e buie che nemmeno ricordo, sperando di trovare la ragazza, quando giunsi non lontano dalla berlina delle Halles. La meravigliosa zingara avanzava ignara verso di me. Seguito dal gobbo, mi lanciai su di lei, tenendola ferma.
Non feci in tempo a far cenno a Quasimodo di tornare a Notre-Dame, che da un angolo sbucò un capitano delle guardie, seguito dai suoi arcieri. Io lasciai andare la zingara e, schiumante di rabbia, corsi verso la cattedrale. Tuttavia, Quasimodo fu legato, imbavagliato e portato via.
Quella notte pensai solo alla gitana. Ero stato così vicino al rapirla, stavo per portarla via, poteva essere mia… e tutto era andato in fumo, grazie a un dannato capitano! Ma io ero un uomo paziente, e la zingara non mi sarebbe sfuggita!
Il giorno seguente mi giunse voce che alla berlina della Grève ci sarebbe stata una fustigazione. Salii in groppa a un mulo e mi diressi lì, per accertarmi che il fustigato non fosse Quasimodo. Arrivato alla Grève, vidi proprio il campanaro, legato a una ruota e torturato. Avrei voluto aiutarlo, ma non potevo perdere la faccia davanti a tutti quei cittadini che ritenevano Quasimodo un mostro. Così mi rintanai in un angolo della piazza.
Ma ecco che, dopo un po’, salì sul patibolo nientemeno che la zingara di cui ero innamorato, che diede da bere al gobbo. Vidi uno sguardo nuovo dipinto sul volto orrido e deforme di Quasimodo, e solo ora mi accorgo che era amore, amore verso quella ragazza che anch’io desideravo tanto.
Per settimane non pensai che alla zingara. Non vivevo, esistevo; non camminavo, mi trascinavo; non dormivo, pensavo.
Poi, un giorno dei primi di marzo, mentre mi ritiravo nel mio stanzino sulla torre settentrionale di Notre-Dame, sentii il suono di un tamburello sul sagrato. Corsi in cima alla torre per veder meglio: era ancora lei, la maledetta, empia, splendida, sublime gitana, che ballava sul sagrato affiancata dalla capra e da un uomo. Aguzzai la vista, e allora lo riconobbi: era Pierre Gringoire, un mio vecchio allievo di filosofia, poesia, latino e greco. Parevano molto vicini… troppo.
Corsi giù dalla torre, e vidi Quasimodo che osservava incantato il Sagrato dai finestroni, sospirando e ridendo. Non collegai quel comportamento con la zingara, e corsi nel Sagrato. Quando vi arrivai, la ragazza non c’era più, e un uomo mi disse che era salita in una casa.
Mi avvicinai a Pierre Gringoire, che si stava esibendo come un saltimbanco, e lo richiamai in chiesa. Qui gli chiesi il motivo della sua vicinanza con la zingara, ed egli mi rispose che qualche tempo prima si era ritrovato per caso nella Corte dei Miracoli, covo di zingari e malviventi, e questi ultimi volevano ucciderlo. Allora si era fatta avanti la zingara, che lo aveva salvato sposandolo. Fui molto allarmato, ma Gringoire mi assicurò che non aveva toccato con un dito la ragazza, benché vivessero insieme alla Corte dei Miracoli.
Ella, mi disse, si faceva chiamare la Esmeralda, ed era un’orfana raccolta dagli zingari. Gringoire mi rivelò che la Esmeralda spesso mormorava la parola Phoebus (sole in latino). E se fosse un nome proprio, pensai; e se Esmeralda amasse un certo Phoebus?
Congedai Gringoire e mi ritirai nell’ombra della cattedrale deserta. Da quel giorno, lavorai male, peggio del solito, e pensavo sempre alla Esmeralda, provando a immaginare che aspetto potesse avere questo Phoebus che lei amava.
Una notte di quello stesso mese feci un sogno raccapricciante: la Esmeralda era in Place de Grève; penzolava dalla forca, una corda intorno al collo.
Mi svegliai di soprassalto, sconvolto, ma poi mi accorsi che Dio mi aveva dato un messaggio di salvezza. Una volta che la zingara fosse stata divorata dall’inferno da cui proveniva, il mio desiderio cocente si sarebbe placato, e io mi sarei salvato dalla dannazione.
Così mi recai da un mio vecchio amico, Jacques Charmolue, procuratore del re presso il tribunale ecclesiastico. E compii l’azione più vile e insieme audace della mia vita: denunciai la Esmeralda al tribunale ecclesiastico con l’accusa di stregoneria. Una sola azione ritenuta prova di magia da parte della zingara l’avrebbe condotta al patibolo.
Passarono i giorni. Era la mattina del 29 marzo, giorno che ricorderò per tutta la mia vita.
Quella mattina non riuscivo a ragionare, non riuscivo a pensare a nulla che non fossero la Esmeralda e l’ipotetico Phoebus. Ricordo che incisi sul muro la parola in lettere greche Ananke (destino, fatalità, ineluttabilità), che rimarrà incisa lì per sempre, a ricordare la mia anima dannata.
Entrò poi mio fratello Jean, il quale intendeva chiedermi dei soldi come al solito. Non intendevo darglieli, poiché, come gli dicevo sempre, qui non laborat non manducet (chi non lavora non mangia). Lo stavo mandando via, quando bussò alla porta la persona che aspettavo. Feci nascondere Jean sotto al fornello sul quale conducevo i miei esperimenti, e aprii la porta a Jacques Charmolue. Avevo invitato il procuratore del re per illustrargli le allegorie alchemiche dei portali di Notre-Dame. Dopo un discorso di cui nulla ricordo, se non l’allusione di Charmolue alla strega che avevo denunciato (Dio sa quanto sbiancai allora!), uscimmo verso la facciata gotica della cattedrale, e tenni al porta socchiusa per far uscire Jean.
Stavo spiegando a Charmolue l’allegoria di Giobbe sul portale, quando vidi Jean uscire da una navata laterale. Mentre continuavo a parlare, sentii Jean rivolgersi a un uomo chiamandolo Phoebus de Châteaupers. Mi girai di scatto, interrompendo la spiegazione. Era come avevo temuto nei miei incubi più terribili: Phoebus era nientemeno che il gendarme il quale aveva salvato Esmeralda da me e Quasimodo la notte del 6 gennaio. La ragazza era certamente innamorata di lui, lui era il maledetto uomo amato dalla zingara!
Jean e Phoebus si avviarono a bere in un locale, e io li seguii di nascosto, lasciando perdere Charmolue. Alla svolta di una via sentii il suono di un tamburello. Rabbrividii, e vidi che Phoebus si nascose dietro a un muro, dicendo di non volersi far vedere dalla Esmeralda. Mio fratello gli domandò perché, e lui gli rispose sottovoce:
“Sono riuscito a strapparle un appuntamento notturno dalla Falourdel, la mezzana di Pont Saint-Michel, quella brutta catapecchia sulla Senna.”
“Quando?” gli chiese Jean.
“Stasera, ventre di Dio!”
La vista mi si annebbiò. Ma poi tornai a seguire i due. Il locale dove entrarono era presso Rue de la Rondelle, e io rimasi fuori dal locale ad aspettare che uscissero, col mantello calato sul viso. I due uscirono alle sette di sera, e Phoebus, dopo aver liquidato quell’ubriacone di mio fratello, si avviò verso la Falourdel.
Lo seguii. Il cielo si faceva buio. A un certo momento mi avvicinai al capitano e dissi, sempre tenendo il cappuccio nero calato sul viso:
“Capitano Phoebus de Châteaupers!”
“Diavolo! Come sapete il mio nome?”
“So anche che avete un appuntamento stasera.”
“Sì,” e Phoebus mi confermò luogo e ora.
“Con una donna?” chiesi.
“Confiteor.”
“Che si chiama…”
“La Smeralda,” mi aspettavo questa risposta, ma non volevo crederci.
“Capitano Phoebus de Châteaupers, tu menti!”
Il capitano avrebbe voluto uccidermi per questa insinuazione, ma io gli ricordai dell’appuntamento, e gli consegnai uno scudo per pagare la stanza. Phoebus fu lieto della moneta, e mi chiese come ricompensarmi. Allora, gli chiesi di portarmi con lui, e di nascondermi nella stanza, in modo tale che io potessi vedere se la donna in questione era davvero la Esmeralda. Lui accettò; aveva firmato la sua sentenza di morte.
Attraversammo vie strette, mentre il buio delle notti di marzo si faceva intenso, e alla fine giungemmo presso Pont Saint-Michel, alla catapecchia della Falourdel. La casa era orrenda, la signora Falourdel altrettanto. Phoebus consegnò lo scudo e prenotò la camera di Santa Marta. La Falourdel ci accompagnò nella stanza, al piano superiore. Essa era spoglia, con un baule, una finestra affacciata sulla Senna, e una porticina che dava su un bugigattolo oscuro. Lì, Phoebus mi nascose, e in seguito scese a prendere la ragazza. Nella porta c’era un buco dal quale avrei assistito alla scena.
Rimasi al buio, solo nella stanza. Solo Iddio sa cosa pensai! La Esmeralda, Phoebus, tutto vorticava senza posa nella mia testa, e giurai che se Phoebus avesse anche solo toccato la ragazza, lo avrei ucciso. Ma come?
Dopo un quarto d’ora, entrarono nella stanza la Falourdel, Phoebus e… la Esmeralda. La vista mi si annebbiò, e caddi svenuto sul pavimento dello stambugio.
Quando rinvenni, il capitano e la zingara erano soli. Erano seduti sul baule, abbracciati, e riuscivo a vedere il volto perfetto della fanciulla. Entrambi dicevano di amarsi, ma Esmeralda diceva di voler rimanere casta, per via di un amuleto che, in cambio della castità della ragazza, le avrebbe permesso di ritrovare i genitori. Ma Phoebus le cinse la vita. D’istinto misi una mano nel mantello, e saggiai la lama aguzza di un coltello.
Dopo frasi d’amore vuote e ripetute più e più volte, Phoebus iniziò a spogliare la Esmeralda. Questa inizialmente si ritrasse, ma alla fine cedette alle lusinghe dell’amato capitano.
Io tremavo, ringhiavo, scalciavo, mi contorcevo, piangevo davanti a quel corpo perfetto accarezzato da quel cialtrone donnaiolo. Non seppi resistere davanti alla bocca del capitano che si accostava a quel collo perfetto e a quel seno puro come l’oro! Alla fine estrassi del tutto il coltello, e mi feci coraggio. Spalancai la porta, e avanzai verso la schiena del capitano.
La ragazza mi vide. Tentò di gridare davanti allo spettro nero che aveva innanzi, col volto livido e convulso che emergeva dalla cappa, ma non vi riuscì. Affondai la lama nella schiena di Phoebus, ed Esmeralda cadde svenuta.
Nel momento in cui gli occhi della gitana si chiudevano, mi chinai su di lei, e la baciai con labbra bollenti. Poi, toltomi il mantello, aprii la finestra, e mi gettai nelle gelide acque della Senna. Nuotai fino alla Cité, e poi, fradicio, mi ritirai nella mia stanzetta sulla torre di Notre-Dame.
Non c’era più speranza di salvezza per la mia anima, ormai il desiderio della Esmeralda mi aveva corroso. Ma la zingara, ora, non poteva essere che mia!

Passò circa un mese. Esmeralda era stata arrestata e a maggio si sarebbe tenuto il suo processo per stregoneria, complicità col demonio (che era stato visto uscire dalla finestra sulla Senna vestito da prete) e assassinio del capitano Phoebus de Châteaupers.
Il giorno del processo, nel Palazzo di Giustizia, c’ero anch’io ad assistere, seduto al tavolo dei giudici ecclesiastici. Sotto il mio cappuccio da prete, gemevo mentre interrogavano la Esmeralda e chiamavano i testimoni. Non avevo previsto questo, non avevo pensato che sarei stato così triste. La Esmeralda stava per morire, sì!, l’avrebbero uccisa davvero. Ero davvero stato io a denunciarla? Non potevo crederci!
Siccome Esmeralda non confessava, fu portata nella stanza della tortura. Io la seguii di nascosto. Le presero il suo piedino – oh, che meraviglia di piede! – e lo infilarono in un dannato stivaletto, che si strinse, torturando quell’essere che tanto amavo. Per la disperazione mi conficcai il coltello nelle carni.
Subito la zingara, stremata e avvilita per la morte del suo amato, confessò. Allora fu condannata all’impiccagione in Place de Grève, e fu portata nelle segrete del Palazzo.
Il giorno dopo, o forse quello dopo ancora, non ricordo, mi recai nelle segrete. Volevo incontrare la Esmeralda: lì, nelle prigioni, sarebbe stata mia, solo mia, finalmente mia!
Mi calai il cappuccio sul capo ed entrai nella sua cella. Le dissi che il giorno seguente avrebbe fatto ammenda onorevole davanti a Notre-Dame e poi sarebbe stata impiccata alla Grève. La ragazza era in una situazione penosa. Non aspettava altro che l’ora della morte, ora che il suo Phoebus se n’era andato. Tentai di farla evadere, ma lei mi chiese chi ero. Mi tolsi il cappuccio; lei mi riconobbe, riconobbe in me l’assassino di Phoebus.
“Oh, miserabile, chi siete? Cosa vi ho fatto? Mi odiate così tanto? Ahimè, cos’avete contro di me?”
“Io ti amo!” gridai, mentre il mio cuore esplodeva e i miei occhi fiammeggiavano.
Le raccontai urlando tutta la storia del mio amore dannato verso di lei, da quando l’avevo vista per la prima volta sul Sagrato, a quando avevo tentato di rapirla, dalla mia denuncia al tribunale ecclesiastico, all’assassinio di Phoebus.
“Ti supplico, se hai un cuore, non respingermi! Oh, io ti amo! Sono un miserabile! Fammi grazia, se vieni dall’inferno, io ci vengo con te! Ho fatto tutto solo per questo. Il tuo inferno è il mio paradiso, la tua vista è più affascinante di quella di Dio! Oh, parla! Non vuoi proprio saperne di me? Ah, se solo volessi… quanto potremmo essere felici! Fuggiremmo, ti farei fuggire, ci ameremmo, riverseremmo le nostre due anime l’una nell’altra, e avremmo una sete talmente inestinguibile di noi che ci disseteremmo insieme senza posa a quella coppa d’inesauribile amore!”
Ma a lei non importava del mio dolore. “Che ne è stato del mio Phoebus?”
“È morto!” gridai, benché non conoscessi davvero la risposta. Lei si gettò su di me, mi assalì, mi respinse. Me ne andai. Ma prima di sparire per le scale, gridai con gioia infernale: “Ti dico che è morto!”
Il giorno seguente, dopo essermi recato a vedere la forca in Place de Grève, mi ritirai a Notre-Dame e indossai l’abito da arcidiacono. A mezzogiorno sarebbe giunta la Esmeralda, la quale, dopo aver fatto ammenda onorevole per il crimine di stregoneria, sarebbe stata portata alla Grève e lì impiccata.
A mezzodì apparve sul Sagrato la misera carretta con la zingara. Uscii dalla cattedrale col mio seguito di preti e diaconi. Avevo intenzione di darle un’ultima possibilità: scegliere fra me e la morte.
Dinanzi a me era la Esmeralda, che mi guardava con tristezza mista a odio. Le chiesi sottovoce:
“Mi vuoi? Posso ancora salvarti…”
“Vattene, demonio!, o ti denuncio!” mi rispose.
“Non ti crederanno. Rispondi, svelta! Mi vuoi?”
“Cosa è successo a Phoebus?” chiese.
“È morto!” ma in quell’istante alzai gli occhi sul balcone di una casa affacciata al Sagrato. Lì, affiancato da una giovane dama, era Phoebus de Châteaupers, vivo e vegeto, che osservava impassibile la donna che aveva detto di amare, e che ora stava per morire. Dunque non lo avevo ucciso? Si era slavato? Digrignai i denti: quella storia era durata fin troppo.
“Muori!” sibilai all’orecchio della donna. “Nessuno ti avrà!” e poi, parlando in latino a voce alta: “Va’ dunque, anima incerta, che Dio sia misericordioso con te!”
Allora, mi girai e seguito dai preti rientrai a Notre-Dame, mentre la carretta attendeva di essere portata alla Grève.
Ma io non potevo resistere. Il mio animo esplodeva. Giunto in sagrestia, mi tolsi la tonaca da arcidiacono, e uscii, vestito da semplice prete, da una porta del chiostro. Attraversai in barca la Senna fino alla riva sinistra, e lì vagai fino a sera.
Phoebus non era morto. Non lo avevo ucciso. Ma alla fine, io avevo vinto lo stesso: la Esmeralda aveva scelto di morire, e così era morta! E non era più di Phoebus! Ora, la mia anima era, benché dannata, in pace. Eppure perché non ero felice per la mia vittoria? Mi sentivo la testa esplodere, il cuore scoppiare. Era forse perché la Esmeralda stava morendo? Ma no, come potevo ancora pensare a lei? Eppure lo facevo, lo facevo! Mi pentivo della mia azione! Cos’avevo guadagnato? Nulla! Già, non ero il vincitore, ero il perdente! Perché così come la Esmeralda non era più di Phoebus, non era più neanche mia! Mi strappavo i capelli, gridavo, piangevo, perché ora che la zingara stava esalando i suoi ultimi respiri, io sentivo che presto l’avrei seguita all’inferno.
Quando il cielo cominciò a rabbuiarsi, tornai a Notre-Dame, sfinito. Rientrai nella nera cattedrale, continuando a ripetermi che ormai la Esmeralda era morta. Salii sulla galleria di colonne alla base delle torri, e osservai il Sagrato. Lì, più di sei ore prima, la Esmeralda aveva scelto di morire. Un soffio improvviso di vento mi spense la candela, e vidi davanti a me uno spettro bianco, coi capelli neri, di infinita bellezza, seguito da una capra. Le due figure non mi videro, e proseguirono.
La Esmeralda e Djali.
Quella notte non dormii. Affogai nella disperazione. E anche il giorno dopo, e quello dopo ancora. Alla fine, mi convinsi che sulla torre avevo visto solo uno spettro. La Esmeralda era morta, e io ero il carnefice.
A giugno, avevo toccato il fondo del dolore possibile. Il cuore umano può contenere una certa quantità di dolore, che io avevo superato, e ora non potevo più soffrire.
Un giorno, però, sentii il sagrestano parlare con un diacono. I due dicevano che il giorno dell’esecuzione, Quasimodo era sceso dalle torri e aveva rapito Esmeralda, portandola con sé a Notre-Dame. La ragazza era lì da allora, protetta dal diritto di asilo.
Corsi nella mia stanza del chiostro, dalla quale si poteva vedere il retro della torre dove viveva Quasimodo. E lì la vidi. Esmeralda era appoggiata alla balaustra, e osservava la strada distrattamente, mentre Quasimodo la osservava di nascosto, aggrappato a un gargouille.
Non potevo crederci. Tutto era ricominciato da capo. La Esmeralda era ancora viva, nemmeno lei era stata uccisa. Non sapevo se essere felice per la sua salvezza, o irato perché il mio maledetto piano era andato in fumo. Restai chiuso nella celletta del chiostro per settimane, ignorando uffici, riunioni, preti, vescovi e uomini. Mangiavo briciole cadute a terra. Piangevo, e osservavo la torre, sulla quale passeggiava la Esmeralda, imprigionata lì. Era viva, lassù, e io dovevo fare qualcosa. Non potevo continuare a soffrire.
Una notte riuscii ad addormentarmi, stanco di soffrire. Ma mi svegliai nel cuore della notte. C’era una porta segreta che metteva in comunicazione il chiostro con la chiesa, di cui io avevo la chiave. E, inoltre, possedevo la chiave della torre campanaria.
Mi alzai e, infilatomi la tunica, corsi verso la chiesa, e aprii la nascosta “Porta Rossa”. Entrato in chiesa, corsi sulla torre e aprii la porta della stanza dove dormiva la Esmeralda.
Lei dormiva su un povero lettino. Era incantevole, benché vestita miseramente: non potevo resistere al mio cocente desiderio. Mi lanciai su di lei, le accarezzai la pelle morbida, le cinsi i fianchi perfetti, la baciai, leccai il suo collo tanto bello. Lei urlava, si divincolava. Poi, impugnato un fischietto, vi soffiò dentro. Ne scaturì un suono acutissimo, e sulla porta apparve la sagoma massiccia e deforme di Quasimodo, con un coltello in mano: evidentemente il sordo campanaro riusciva a sentire quel suono penetrante.
Il gobbo non mi riconobbe e mi trascinò fuori per uccidermi. Ma la luce della luna illuminò il mio volto. Quasimodo si prostrò, piangendo, e mi porse il coltello per ucciderlo. Non m’importava nulla di farlo: lui aveva mandato in fumo i miei piani, e ora mi aveva separato dalla Esmeralda.
Presi il coltello e lo levai alto su Quasimodo. Ma Esmeralda si gettò su di me e mi prese il coltello: voleva uccidermi.
“Non osi avvicinarti, ah!, vigliacco!” gridava. “Lo so che Phoebus non è morto!”
Non so cosa provai allora. Dolore, tristezza, amarezza, ira, sete di vendetta. Mi voltai, e tornai nella mia stanza nella torre. La zingara avrebbe assaggiato per l’ultima volta il mio amore… o la mia ira. [3 luglio 1482]

Capii allora che c’era bisogno di un piano più elaborato per salvare la Esmeralda dalle grinfie di Quasimodo. Il 4 luglio passeggiavo nei pressi di Saint-Germain-l’Auxerrois, quando vidi Pierre Gringoire. Lui era la persona ideale per il piano che stavo elaborando.
Lo avvicinai, e gli feci presente che la Esmeralda tre giorni dopo sarebbe stata presa con la forza da alcuni gendarmi e impiccata alla Grève (a dirmelo era stato Charmolue). Così gli esposi il mio piano: Gringoire si sarebbe intrufolato a Notre-Dame, avrebbe indossato i vestiti della Esmeralda, e lei i suoi; lei sarebbe scappata, mentre lui sarebbe stato impiccato al posto suo: in fin dei conti, la zingara gli aveva salvato la vita alla Corte dei Miracoli, mesi prima. 
Ma Gringoire non era convinto, e mi propose un altro piano:  Solleverò tutti i miei compari accattoni della Corte, e li spingerò ad assediare la cattedrale per riprendersi Esmeralda. Così, mentre la città sarà occupata a tener testa alla rivolta, noi due ci intrufoleremo a Notre-Dame, e salveremo la Esmeralda e Djali.
Approvai il piano. Quella stessa notte sarebbe stato messo in atto.
Rientrando nella mia cella del chiostro per prendere alcuni libri, incontrai mio fratello Jean. Questi mi confessò di aver sprecato tutti i suoi soldi in donne e vino, e mi chiese altri soldi. Mio fratello mi aveva stancato, e in quel momento non potevo pensare a nulla che non fosse la Esmeralda. Lo rimandai indietro. Così lui si ritirò, dicendo che avrebbe fatto l’accattone.
Quella notte, a mezzanotte, mi avvicinai a capo coperto alla Porta Baudoyer, dove avrei dovuto incontrare Gringoire. Si sentivano le urla degli zingari e degli accattoni che assediavano la cattedrale per riprendersi la Esmeralda, mentre alcuni cittadini si affacciavano allarmati alle finestre.
Dopo un po’ arrivò Gringoire, trafelato, dicendo di aver rischiato la testa. Insieme ci dirigemmo verso il Sagrato. Siccome lui conosceva la parola d’ordine degli accattoni, riuscimmo a farci strada fra la marmaglia di gente, ed entrammo nella cattedrale con una mia chiave.
Ma mentre ci avvicinavamo alla facciata, vidi Quasimodo, che stava cercando di respingere da solo gli accattoni, difendendo la zingara. Il gobbo stava massacrando uno degli accattoni, e alla fine lo scaraventò dalla torre. Quell’uomo era mio fratello Jean.
Piansi, lo confesso. Ma Gringoire non poté vedermi, siccome avevo il viso coperto dal cappuccio. Salimmo fino alla stanza di Esmeralda, che era sveglia. Gringoire la convinse a seguirlo, dicendo che io ero un amico, e così uscimmo dal chiostro insieme alla Esmeralda e alla capra. Prendemmo una barca, e io remai verso la riva destra della Senna.
Arrivato a un approdo mi fermai, e scendemmo dalla barca. Ma Gringoire, forse troppo debole o troppo codardo per continuare in quell’impresa, fuggì con la capra. Ero solo con la zingara che da mesi e mesi seguivo, osservavo, amavo.
La accompagnai fino in Place de Grève. Lì mi tolsi il cappuccio, e lei gridò di disperazione. Le confessai ancora il mio amore, la mia anima dannata si esternò ancora una volta a quella ragazza insensibile! Ma lei amava solo quel miserabile capitano, e nessun altro. Piansi per la prima volta davanti alla Esmeralda. Lacrime di fuoco sgorgarono dai miei occhi. Sì, piansi per lei, per me, per la mia anima dannata, per mio fratello, e per il gesto che stavo per compiere.
Le diedi ancora una possibilità: la forca o me. Entrambi la desideravano. Lei scelse il patibolo.
Allora, impazzii. Il mio sguardo si annebbiò, ringhiai, mi scagliai sulla ragazza, volli possederla brutalmente, volli spogliarla, volli che fosse mia, mia a tutti gli effetti! Ma mi respinse, per l’ennesima volta, ripetendo che lei era “del suo Phoebus”.
La notte declinava. Allora mi placai. La mia furia si stava trasformando in pura malvagità. La presi per mano, e la trascinai vicino alla Tour-Roland, a un’estremità della piazza.
“Un’ultima volta,”  tuonai, “vuoi essere mia?”
“No.”
Digrignai i denti. Aveva scelto la forca per l’ultima volta. Gridai: “Gudule! Ecco la gitana, vendicati!”
Alla finestrella della Tour-Roland apparve la Gudule, la reclusa. Ella odiava tutti gli zingari, poiché anni prima le avevano rapito la bambina. Da allora aveva condotto una vita da reclusa nella Tour-Roland.
Mentre la Gudule tratteneva la Esmeralda, io corsi dai gendarmi, informandoli che avevo trovato la zingara che da tempo cercavano. Il capitano con cui parlai era nientemeno che Phoebus de Châteaupers (gioii malignamente pensando alla faccia della Esmeralda quando lo avrebbe visto), il quale si recò subito alla Grève assieme ai suoi arcieri.
Io tornai a Notre-Dame. Non ero più triste come lo ero stato. Ridevo e piangevo insieme, ormai ero un dannato, un empio, un demonio. Avrei guardato dall’alto della torre campanaria della cattedrale l’esecuzione della donna che mi aveva ammaliato, stregato, dannato, che aveva causato la morte di Jean (indirettamente) e della mia anima (direttamente).
In nomine Domini nostri Patris, Filii et Spiritus Sancti. Amen. [5 luglio 1482]


Così si concludono le Memorie di dom Claude Frollo. In realtà, la sorte dell’arcidiacono fu differente.
Mentre osservava dall’alto della torre settentrionale di Notre-Dame l’esecuzione della Esmeralda, Frollo fu visto da Quasimodo. Il gobbo non poté credere ai propri occhi vedendo il prete ridere crudelmente davanti al corpo della gitana penzolante dalla forca. Così, Quasimodo spinse il prete giù dalla torre.
Frollo si aggrappò a un gargouille, cercando un ultimo appiglio alla vita. Ma, come aveva scritto più volte, il suo destino era quello di seguire Esmeralda all’inferno. E, dopo un volo di più di duecento piedi, il corpo dell’arcidiacono si sfracellò sul selciato.
Così spirò dom Claude Frollo, arcidiacono di Josas, l’uomo che da dotto prete divenne un empio demonio.

   
 
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