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Autore: SkyEventide    02/09/2015    1 recensioni
Un uomo uccide tutti coloro che possiedono il potere di modificare la realtà, per preservarne l'equilibrio. Ha trovato l'ultima di queste persone. Ma ha anche fatto un errore di calcolo nel pensare che l'esistenza venisse preservata e bilanciata con la morte di quelli come loro. La realtà si sta sfasciando. I due uomini hanno una conversazione. L'ultima conversazione prima di decidere che cosa fare dell'universo e di loro stessi.
Sollevò la testa, e quel che vide non gli suscitò alcuna pietà. Dubitava del resto che quello ne provasse alcuna per lui. O forse era proprio il fatto che la provasse, a dargli sui nervi.
Poco importava, alla fin fine. Era davvero difficile importarsene di nulla, ora come ora.
L'universo digrignava i denti, e loro due erano gli ultimi bocconi in via di masticazione.

Esperimento scritto a quattro mani.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A bullet that changes the world

 

Chiudi gli occhi. Tappati le orecchie. Trattieni il respiro. Precludi ogni via d'accesso ai segnali che s'affollano alle porte dei tuoi sensi e concentrati.
Lascia morire i suoni finché il tuo respiro non diviene un boato echeggiante nell'infinito.
Divora persino gli psichedelici ghirigori che le palpebre si ostinano a disegnare in nostalgia della luce.
Non ascoltare.
Non osservare.
Tutto quel che ti serve è qui, a portata di pensiero. Perché condividere un intero universo, quando potresti accaparrarti il dominio di te stesso?
Non spegnere il cervello, spegni il mondo. Una particella alla volta, offusca, fagocita, divora ed annulla il superfluo.
Elimina il "tutto" all'infuori di te, perché il "tutto" non divenga altro che "sé".
Eccoti qui, dunque. Dove non vi sono domande né risposte, perché da te non puoi aspettarti alcuna sorpresa. Cessano le delusioni. Scompaiono le responsabilità.
Un singolo respiro diviene atto divino e meritevole di soddisfazione. Finché c'è coscienza, c'è speranza.
Perché per quanto tu possa riconoscere che l'oblio ti circonda, il tuo più grande conforto è sapere che non ne fai parte. La consapevolezza, e la capacità d'essere consapevole.
Crogiolati nella tua esistenza finché puoi. Un secondo. Un minuto. Un'eternità. Nessuna fretta.
Nessuna fretta. Il mondo può aspettare, ma tu? Puoi dire che ciò ti basti davvero?
Non stai fuggendo. La vera fuga sarà quando tu deciderai di aprire gli occhi ed ammettere che il mondo esiste davvero. Sottometterti alle sue regole perché ne sei assuefatto.
E allora vattene. Va bene così. Lascia che l'universo ti ricordi di sé. Divieni nel suo divenire, abbandona te stesso alla sua rigida marea.
Dopotutto la libertà è anche questa. Decidere di credere che al mondo importi di te, quando difatti è l'esatto opposto.
Goditi l'ingratitudine.
Goditi quella che chiami esistenza.
Vai, perché tanto sai già che tornerai qui, alla fine di tutto.
Riaprì gli occhi con lo sguardo inondato di luce riflessa sul bancone lucidato a puntino, esattamente lì dove l'aveva lasciato: sotto la sua mano, chiusa pigramente sullo straccio insozzato. La vista del vecchio mogano scheggiato e della stoffa impregnata d'alcolici gli parve stranamente confortevole. Sapeva di vecchio, di passato, d'esistenza.
Gli faceva male la testa. No, non proprio: ogni singola molecola del suo corpo traballava in maniera anomala, aggrappandosi con disperazione ai legami che le manteneva saldate l'un l'altra nel tentativo di sopportare il peso di, beh, di tutto. Ora come ora, quel bancone e quello straccio, con i segni del loro uso addosso, rappresentavano una realtà più solida che mai, a dispetto di quella incerta che sentiva caricatasi sulle spalle da mani altrui. Fece una smorfia che avrebbe voluto essere un ghigno, e sospirò. Gli parve che l'inferno fosse esalato a bordo di quelle particelle di anidride carbonica sfuggitegli dalla bocca.
« Hai finito con le tue marachelle. Bravo. Ottima occasione per festeggiare con un drink, eh? »
Sollevò la testa, e quel che vide non gli suscitò alcuna pietà. Dubitava del resto che quello ne provasse alcuna per lui. O forse era proprio il fatto che la provasse, a dargli sui nervi.
Poco importava, alla fin fine. Era davvero difficile importarsene di nulla, ora come ora.
L'universo digrignava i denti, e loro due erano gli ultimi bocconi in via di masticazione.
 

 

Si sedette sullo sgabello e appoggiò i polsi al bancone, sorpreso dalla banalità stessa del gesto. La coordinazione del corpo è uno specchio interessante e infinitesimale, paragonata alla consequenzialità universale. C’era un che di confortante nel riconoscere il ciclo cosmico nelle cose più stupide.
« Marachelle », ripeté, come se davvero ci fosse qualcosa di divertente e bambinesco nel lavoro da lui portato avanti fin’ora.
La realtà, fino a poco prima, non c’era. Un annullamento completo, che mai sarebbe stato percepito da altri. Lui lo sapeva perché il suo potere trascendeva ciò che esiste. L’equilibrio, dopotutto, è formato da qualcosa che c’è e da qualcosa che manca, e la bilancia è influenzata da entrambe le cose.
Ecco dove entrava in gioco il barista.
Un barista, fra tutte le cose possibili.
Erano morti capi di stato, geni, luminari, tutti influenzati dal loro potenziale. Erano morti anche altri, neppure consapevoli del potere dentro di loro. Tra tutte le cose, quello che tra gli altri poteva cancellare l’esistenza era un barista.
La cosa lo incuriosiva. Lo disturbava. Un barista era un uomo come tanti (e anche lui era stato un uomo come tanti, anni prima), e il suo fato era colorato da un’ironia amara.
« Un bicchier d’acqua, per favore », aggiunse. Non era lì per bere, naturalmente, ma dirlo ad alta voce sarebbe stato ridondante. « E un po’ del tuo tempo. »
Trovarlo non era stato facile. Sapeva che esisteva, lo sapeva come sapeva che l’universo tutto era come l’architrave di una porta sorretto da due soli stipiti. Uno degli stipiti era lui stesso e l’altro l’uomo dall’altra parte del bancone. Purtroppo non è mai facile trovare qualcuno che non si nasconde nel senso comune del termine, ma nasconde tutto quello che ha attorno.
 


 
Difficilmente sarebbe potuto dirsi il bar migliore della città. O del quartiere. Il suo lavoro, ad ogni modo, lo svolgeva in maniera abbastanza decente da avergli evitato la chiusura per un buon numero di anni - sebbene una maggioranza di questi avessero rischiato di divenire "l'ultimo". Era una sghemba tinozza aperta a tutti coloro i quali ritrovavano la vita sul fondo d'un mare d'alcolici a basso prezzo in cui affogare... o, in altre parole, il secondo posto più gettonato dai reietti della società. Il primo era la prigione, la differenza sostanziale era il fatto che in quest'ultima ci si finiva soltanto un po' meno volontariamente. Non v'era orgoglio, nel fare gli spazzini d'ubriachi, ma se una possibilità infinitesimale fosse esistita, se un essere umano avrebbe potuto esplorare i limiti più abbietti e sordidi della dignità umana e provare un simile sentimento, sarebbe potuta venire a galla soltanto in simili circostanze.
Aveva fatto il pieno ai perdenti, agli idioti ed ai falliti, ricaricando la loro riserva di fantasticherie e volgarità biascicate, senza mai vociferare proteste. Eppure, ora che quell'uomo gli aveva rivolto la richiesta più garbata mai espletata tra le mura di quel postaccio, si sentiva offeso. Gl'importava poco, se a minimizzare la gravità della situazione fossero stati entrambi.
Deliziosa ipocrisia a prezzo zero, omaggio della casa.
« Te ne sei preso anche troppo, di tempo. Mio, e di quegli altri poveri bastardi. »
Le parole gli colavano dalla bocca come stanchi sospiri e scivolavano giù, incapaci di ergersi a difesa dei sentimenti che avevano dato loro vita. Si chinò a raccogliere un bicchiere di vetro che sembrasse abbastanza lucido e l'infilò sotto il rubinetto dell'attiguo lavandino, riempiendolo d'acqua. Ovviamente non filtrata. Non che facesse tanta differenza, ora come ora. L'unica maniera in cui quell'acqua avrebbe potuto intaccare quel bastardo sarebbe stato affogandocisi, e lui gliel'augurò con tutto il cuore mentre poggiava il bicchiere pieno sin quasi all'orlo dinanzi a lui sul bancone.
« Te la metto sul conto, insieme a tutto il resto. »
Acqua di rubinetto, gratis.
Una vita normale, senza prezzo. Tutto sommato, un affare.
Incrociò le braccia, raddrizzando la schiena e attendendo. All'altro piaceva dar fiato alla bocca, a lui serviva una scusa per non tirargli un cazzotto in faccia, o peggio.
Si chiamava Anatoly, e per quanto potesse non fottergliene poi un granché, su di lui pendeva gran parte del destino dell'universo.
 
 


Fissò il bicchiere, le gocce che scorrevano sul vetro e bagnavano il bancone e le bolle rimaste a fluttuare nell’acqua. Non aveva intenzione alcuna di bere, ma allungò lo stesso la mano e sollevò il cilindro di vetro, lasciando un cerchio d’acqua sulla superficie piana.
Bevve un sorso ferroso, che nondimeno gli rinfrescò la bocca, poi rimise il bicchiere al suo posto, esattamente dove il barista l’aveva appoggiato.
Si era preso troppo tempo?
Forse.
Ultimamente aveva ritardato gli interventi. C’è un particolare senso di indecisione che coglie gli esseri umani prima che compiano i passi finali, una volta che la maggior parte della strada è già stata percorsa. Come se l’inevitabile potesse essere cambiato, o evitato, semplicemente ritardando. Credeva di essere immune alla lusinga di quella speranza, ed evidentemente si sbagliava.
« Solo una parte di loro erano poveri, e quasi nessuno un bastardo », lo corresse, scegliendo di leggere l’affermazione in un modo troppo letterale.
In un certo momento aveva smesso di informarsi su chi fossero. Erano diventati vessilli per le anomalie di potenziale, ed era sufficiente per decidere di ucciderli. Non solo sufficiente, ma anche l’unica cosa necessaria. I nomi, la professione, i familiari, tutto superfluo al fine di liberare il potenziale che albergava in loro.
“Uccidere” era una parola troppo mondana, troppo violenta, troppo umana. Il resto del cosmo non aveva mai pensato in termini di omicidio. Certo, il cosmo non pensa, ma quello è un altro discorso.
Appoggiò i polsi sul bordo del bancone una seconda volta e fissò il suo barista. Gli sembrava teso, o arrabbiato. Il che, dopotutto, era comprensibile. Anche lui, forse, sarebbe stato arrabbiato se gli fosse mancata la conoscenza che aveva. Gli avrebbe fatto piacere essere arrabbiato.
« Tutto il resto? Sai che cosa ho fatto e perché l’ho fatto? » Era una sorta di domanda retorica. Chi oltre a lui poteva capirlo con altrettanta chiarezza? Ma lo chiese comunque, inclinando il collo, lasciando che l’incontro si svolgesse fino al suo finale senza alcuna fretta. Si era preso molto tempo, e avrebbe continuato a prendersi tutti i minuti necessari.
Quella bettola era un background talmente ridicolo per una conversazione cruciale.
 

 

Il mondo divenne un vortice confuso aggrappatosi agli angoli della sua visione mentre gli occhi gli roteavano nelle orbite. Si crogiolò in quel fugace istante della momentanea assenza del suo ospite d'onore, la sua nemesi, il martello che gli aveva spinto il chiodo nell'anima un omicidio alla volta, e si chiese cosa gli sarebbe costato fare un passo indietro, cancellare l'attimo presente e tutti quelli che sarebbero venuti, in un atto di codardia. Nell'oblio, ci sarebbe stato soltanto se stesso a rimproverarlo, ed aveva imparato parecchio tempo fa di essere una persona particolarmente accondiscendente con le proprie mancanze.
Le pupille si soffermarono sulla faccia di quell'uomo che lo fissava di rimando con l'innocenza d'un bimbo curioso, il mondo era rimasto così come l'aveva lasciato all'inizio di quella breve escursione nella propria impazienza. Aveva scelto di nuovo la via più difficile, di fronteggiare il problema invece di riporlo in un cassetto e lasciarlo a marcire nella stasi del nulla eterno.
Il petto gli sobbalzò in un accenno d'amara risata, mentre si chiedeva da dove esattamente questa parvenza di raffazzonato orgoglio gli fosse spuntata in testa.
« Non m'interessano le tue ragioni. Fossi il messia o Satana, fai il cazzo che ti pare, purché non ci vada di sotto io. »
Al diavolo la città, al diavolo il mondo. Al diavolo l'umanità e la vita e l'universo, al diavolo le leggi della fisica. Al diavolo la logica, purché l'ego potesse sopravvivere. S'era sbagliato. Il bambino era lui, e stava sbattendo i piedi perché mettere su il broncio era il massimo che si potesse di fare riguardo alla situazione.
Agitò con gesto vago la mano, scacciando via pensieri che come invisibili mosche gli tartassavano la testa, o forse era la realtà che scavava, scavava, scavava la sua bella tana nel suo essere.
« Tanto hai già fatto il tuo bel lavoro. E ora tocca a me, prima d'incassare la tua bella paghetta, mh? »
Possedere il mondo nel palmo d'una mano, oceani di quattrini in cui affogare i propri desideri, il riecheggiare del proprio nome attraverso secoli di storia umana a venire. Per quanto ci pensasse, non riusciva davvero a vedere in lui alcuno di simili desideri. E allora perché? Perché?
 

 

« Sei coinvolto, che tu lo voglia o meno. Come lo erano tutti gli altri. »
Forse avrebbe dovuto correggersi e dire che lui lo aveva coinvolto, ma non sarebbe stato del tutto vero in ogni caso. Fino a che punto era stato lui stesso ad influenzare il cosmo, e fino a che punto aveva giocato secondo le regole dell’esistenza, non poteva dirlo con certezza. Quello che sapeva era di essere arrivato all’ultima svolta.
Strusciò il polpastrello sul bordo del bicchiere, in circolo. Era lievemente sbeccato in più di un punto e l’irregolarità lo spinse a sfiorare il vetro più volte con la punta del dito.
“Non mi interessa” echeggiò nella sua scatola cranica e lo costrinse al silenzio per più di un secondo. Si chiese se valesse la pena aggiungere altro. Se non fosse meglio ucciderlo, finire il lavoro. Una volta morto il barista, sarebbe rimasto lui soltanto.
Ma forse, forse qualcuno a cui non interessava niente delle sue ragioni era il candidato ideale. Uno a cui non importava niente avrebbe potuto fare la scelta che veniva dopo senza essere influenzato dalla consapevolezza onnisciente del reale. Sapere troppo è difficile, alle volte.
Sospirò e allungò la mano verso la propria giacca. Un movimento lento, come se stesse per tirare fuori un pacchetto di sigarette e avesse tutte le intenzioni di gustarsene una. Naturalmente stava estraendo una pistola.
La appoggiò sul bancone, di fianco al bicchiere, e tenne la mano sopra l’impugnatura.
Con l’arma tra di loro, alzò di nuovo gli occhi sul barista.
« Tocca a te, sì. Oppure a me. Ma se io muoio e tu no, forse vorrai sapere che cosa viene dopo. »
 
 


Si scoprì sorpreso di sentire il respiro mancargli, mentre quella mano dal gesto lento e posato seminava i suoi occhi nei meandri della giacca. Credeva d'essere pronto a fronteggiare la conclusione, ma si era sbagliato. La sua non era stata un'illusione diversa da quella di un uomo che leggeva della morte di cento uomini in un volo d'aereo e con una scrollata di spalle passava alla pagina dello sport, riducendo una tragedia a mera carta insozzata d'inchiostro.
Per te il cimitero era un riflesso aldilà del vetro di un autobus.
I terroristi che falciano innocenti a colpi di mitragliatore nei film d'azione della televisione via cavo.
Il rumore dell'ambulanza che occasionalmente t'accarezza le orecchie.
La parola fine sull'ultima pagina di un buon libro dal finale malinconico.
Cose d'altri che non gl'interessavano. Lui credeva di sapere, di darlo per scontato, ma la verità era tutt'altra. Pensava d'averla affittata ad altri, la morte, e che finché non fosse stato lui a scegliere d'andare a reclamarla, non ci sarebbe stato di che vessarsi.
La pistola sedeva tra di loro come un promemoria metallico di quella verità sotterrata nei meccanismi d'autodifesa con cui il cervello tentava disperatamente di preservare se stesso. Deglutì, e col grumo di saliva gli parve d'aver ingoiato buona parte della propria sicurezza. Se i pugni serrati e la fronte corrugata gli davano l'aria d'essere arrabbiato - e non si poteva dire che non vi fosse anche questa, tra le sensazioni che gli si stavano affollando in testa - era soltanto dovuto al fatto che la frustrazione aveva da lungo tempo trovato un'ideale dimora sui suoi tratti facciali.
Si trovava sull'orlo d'un baratro tra la vita e la morte, ma almeno avrebbe salvato la faccia dinanzi al suo potenziale assassino.
« Parla. » Nonostante la tensione, le parole gli si articolavano in bocca con una calma e chiarezza che sorprese se stesso. « Niente più giri di parole, niente più stronzate, dimmi tutto chiaro e tondo. »
E poi fai quel che devi fare. Non lo disse, perché l'istinto gli diceva di no, gli diceva di voltare le spalle a quell'orrendo oggetto, al suo proprietario, a tutta quella faccenda e guadagnarsi anche un secondo più di vita.
La pistola era così vicina che avrebbe potuto facilmente afferrarla, e non era una coincidenza. Tutto seguiva un piano, un filo conduttore invisibile a tutti tranne che a lui, ed ora, finalmente, forse sarebbe riuscito a scorgere dove la matassa finiva d'aggrovigliarsi.
 
 

Inspirò e annuì. Era venuto per quello, per dirgli tutto. E per ucciderlo o morire.
« Una volta mi occupavo soltanto di chi abusava il proprio potenziale e comprometteva l’equilibrio della realtà. Capisci? C’erano esseri umani che potevano stracciare l’universo singolarmente. Ti chiederei se non avresti fatto lo stesso, ma... » La voce si perse in un sorriso sghembo e un po’ sconfitto.
Lasciò passare un momento, per darsi il tempo di ricordarsi di se stesso e delle sue scelte. C’era un percorso logico in quel che aveva fatto, eppure avere la piena consapevolezza del proprio io era drasticamente più difficile che comprendere il cosmo tutto. La rivelazione aveva del paradossale. Ticchettò le dita sull’impugnatura della pistola.
« Poi capii che la semplice esistenza di... di noi, di concentrati di potenziale, era una minaccia sufficiente all’equilibrio. » Abbassò gli occhi sulla pistola e pensò che le conseguenze di quella realizzazione non erano dettagli che il barista avrebbe voluto conoscere. Come erano morti gli altri, i loro volti... non se li ricordava neppure tutti, o con particolare precisione.
« In tutto questo c’è stato un... errore di calcolo. Di comprensione. » L’ammissione gli diede un nodo alla gola. Alzò l’altra mano con il palmo all’insù e accennò ai loro dintorni, come se fossero una finestra sul cosmo invece che una stanza dai muri incrostati. « Il potenziale che ho liberato sta sfilacciando quello che esiste. E anche quello che non esiste, ma lasciamo stare quella parte. C’è un passo finale da fare prima di raggiungere l’equilibrio. Immagino che tu capisca. » Lanciò uno sguardo alla pistola. « Uno di noi due muore. Il perché dico “uno di noi due”... Non sono qui per una rissa da bar. »
Ricordava che alcuni non erano morti senza difendersi. Quelli erano coloro che gli avevano ricordato di non essere un superuomo, almeno non nel fisico. Un promemoria necessario.
« Il punto è che quello che sopravvive diventerà una calamita per tutto il potenziale libero dell’universo. Sarà l’ultimo... sarà come un faro, come una diga che previene a tutto questo potere di disperdersi ovunque. Ma il potenziale disperso sarebbe il contrario dell’equilibrio, sarebbe pura anarchia. Come rifare il cosmo da capo, come dare a tutti, a tutti un assaggio di quello che siamo. Capisci che cosa intendo? »
Capisci perché ti siedo di fronte?
« Chi di noi sopravvive trascenderebbe l’umano. Il mio potere... si avvicina molto all’illuminazione divina, ma qualunque cosa tu possa pensare di me, non sono arrivato qui per diventare una divinità. Se tu muori... »
Le parole gli morirono in gola una seconda volta. Era possibile che, una volta diventato l’ultimo, le preoccupazioni mondane e mortali, i rimorsi di coscienza, i dubbi, lo avrebbero lasciato completamente, e non era certo di preferirlo.
« Chi sopravvive sarà l’arbitro finale. Se io dovessi finire quello che ho iniziato, una volta morto tu... dovrei uccidermi. Se sarò ancora in grado di pensare lucidamente, dovrei uccidermi. »
Un’altra pausa, per darsi il tempo di metabolizzare l’ipocrisia della sua prossima frase. Di rivelare, come davanti all’estrema unzione, la debolezza delle sue ultime ore.
« Non voglio scegliere il divino, perché mi tradirei, e tradirei quello che ho fatto fin’ora. Ma non voglio neanche scegliere di sparare prima a te e poi a me stesso. Non voglio morire. Dopotutto sono solo umano. »
Ecco che si toglieva il fardello dalle spalle e lo buttava addosso a qualcun altro. Non aveva mai considerato l’idea di dover morire, di doversi togliere la vita. Non aveva mai pensato che lì lo avrebbe condotto il suo cammino. O almeno, non lo aveva pensato finché l’illuminazione cosmica non gli aveva dato la risposta, aprendo l’ultimo sipario e rivelandogli il finale.
E così poteva solo vivere, e diventare ciò che non avrebbe mai dovuto essere – un dio; oppure accettare l’errore e la morte. Non intendeva fare nessuna delle due cose.
Con quello, spinse lentamente avanti la pistola, strusciandola sul bancone, e mettendola a portata dell’altro uomo. Poi ritirò la mano.
« Uno di noi due. »
 


 
Si era preparato ad un silenzio rotto soltanto dall'ambiguità di pochi, inutili sussurri. Il fiume di verità gli straripò addosso con la forza di uno tsunami, stordendolo al punto di doversi aggrappare, seppur inconsciamente, agli orli arrotondato del vecchio bancone.
Le rughe sulla fronte erano dune in un deserto dove non v'erano oasi di conoscenza in cui dissetarsi, bagnato dalla pioggia per la prima volta nella sua esistenza. Stava ad ascoltare, con le labbra spezzate in un inebetito silenzio, perché non avrebbe potuto fare altrimenti.
Di domande ne aveva fatte tante da dimenticarsene, ma soltanto ora quell'uomo gli stava gettando addosso più risposte di quante ne avesse desiderate. Non capiva, ovviamente, i meccanismi di cui loro non erano che ingranaggi più oliati di altri, ma quel che la sua mente riusciva a filtrare in un composto comprensibile gli bastava ed avanzava.
Credeva che tutto stesse andando a puttane, quando di fatto erano già oltre quella fase. La conoscenza di tutto quel ch'era venuto prima era resa pressoché superflua dalla consapevolezza che tutto quel che contava, che sarebbe mai contato, si concentrava in quell'attimo infinitesimale dell'immensa storia dell'universo.
Gli ingranaggi giganti ruotavano, ruotavano, nel loro mostruoso, confuso macchinario minacciato da un paio di schegge. Ed ora lui gli stava spingendo addosso la responsabilità di decidere se lasciarle fare, o tentare di perdere un braccio nel tentativo d'estrarle.
Che schifosamente garbata gentilezza.
Lasciò che i secondi riempissero l'intervallo per cui la sua bocca si ritrovava incapace di fare altrettanto, fissandolo. Lui, che si proclamava "nient'altro che un essere umano". Aveva sempre pensato a lui come un mostro, un parassita indesiderato che s'era accollato la responsabilità di rovinare la vita a lui ed altri poveracci, ma ora...
Ora, quello che aveva davanti era solo quello. Un uomo in una posizione estremamente delicata, esattamente come lui.
Avremmo potuto spassarcela, in un altro frangente. In un universo un po' meno crudele. Chissà cos'avrebbero fatto a quella tua faccia noiosa, un paio di drink offerti dalla casa.
La mano s'avventò sulla pistola con un ché di famelica bruschezza, sollevandola: pesava più di quanto avesse creduto, cullata con cura sotto il proprio sguardo mentre la rigirava per rimirarne l'ottima fattura. Le dita stringevano l'impugnatura come se fossero nate a quello scopo, mentre soltanto l'indice esitava ad infilarsi laddove il grilletto attendeva, paziente, di porre la parola "fine" su questo straccio di storia.
Si accorse di non tremare, non più. Si sentiva sopraffatto da una calma così naturale da accettarla senza interrogarsi sul motivo. Del resto, era sin troppo ovvio: gli attori si trovavano sul palcoscenico a recitare la parte che loro spettava. Era lì che dovevano essere, così aveva deciso il fato, o forse era proprio la loro ribellione contro esso, volontaria o meno, che gli dava il permesso di rilassarsi.
Forse era semplicemente stanco, e non vedeva l'ora di chiudere con tutto ciò. Come, esattamente, non contava: era un peso che entrambi volevano togliersi di dosso, tutto qui.
« Uno di noi due, mh? »
Il braccio si mosse, l'indice carezzò il grilletto, e la pistola puntò contro il bersaglio che sin da principio sapevano designato.
Anatoly buttò fuori un respiro rassegnato. Non era affatto sorpreso della sua scelta. Sapeva che v'erano altre opzioni, naturalmente, ma nessuna era la sua, e tanto bastava.
Applicò una lieve pressione sul grilletto, e finalmente si sentì sollevato.







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Il finale non è stato scritto. Potete divertirvi a scegliere, siore e siori, magari sarà aggiunto un capitolo con i diversi finali possibili.
La cosa è nata tutta cercando cose su TVtropes. Abbiamo beccato il Punch Clock Hero, cioè un eroe che fa quello che deve fare solo perché è costretto, e l'Enlightened Antagonist, cioè un antagonista che possiede qualche genere di conoscenza superiore e agisce influenzato da essa. Questo è quel che ne è uscito. I pov dell'antagonista sono scritti da me, mentre quelli dell'"eroe" sono scritti da Ryo?, che però non ha un account EFP.

Buona lettura. ...O buona fine di lettura, forse.

Kupò.
   
 
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