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Autore: WillWalker    03/09/2015    11 recensioni
Qualsiasi cosa mi stia accadendo, devo contenerla. So perfettamente cosa succederebbe se non lo facessi: Lei verrebbe qui e mi porterebbe nel luogo da cui è impossibile far ritorno e in cui finiscono le anime dannate.
Il Tartaro.
Genere: Dark, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Immortal
 
Piove quando entro a Callaghan. Gli scarponi affondano nel terreno fangoso e vi restano per un attimo affossati, avverto soltanto lo scrosciare incessante dell’acqua. Il cappuccio perennemente calato sugli occhi, il volto chino e il crepuscolo di fronte mi impediscono una corretta visuale. Ma conosco la strada, per cui continuo a camminare. Faccio scorrere il mio sguardo sulle case ai lati della via principale e mi accorgo che negli ultimi cinquanta anni Callaghan non è cambiata così tanto.
Poco lontana da me, una ragazza sta correndo sotto la pioggia che le bagna tutta la veste. Mi guarda di sfuggita e inorridisce. Non è la prima volta che mi capita, da quell’incidente. Il mio volto incute timore e allontana la gente, ma ne sono felice. E’ di vitale importanza per la mia missione.
Nella piazza principale finalmente trovo delle pietre sulle quali poter pulire gli scarponi appesantiti. Non mi importa se il mantello da viaggio si sta infradiciando, sono abituato a intemperie ben peggiori.
Raggiungo l’osteria del “Boccale Infernale” e mi fiondo dentro sbattendo la porta alle spalle. Le torce del locale mi abbagliano per un attimo, abituato come sono alla penombra. Attorno a me c’è la solita feccia che urla e che beve. Rimango sulla soglia a osservare tutti i volti, uno per uno, ma del mio obiettivo non c’è traccia.
E’ chiamato Sam Settefalce. Su di lui pende una taglia di venti monete d’oro sonanti, per cui mi è impossibile dimenticare quei connotati feroci e spaventosi. Ma i miei lo sono di più, perciò non ho paura di quell’assassino. Mio padre mi diceva da ragazzino: “Perché avere paura di qualcosa se puoi essere tu ciò di cui quella cosa ha paura?”
Muovo un passo. Poi un altro. L’attenzione dei presenti scivola sempre più verso di me. Immagino che per loro sia un’immagine poco rassicurante vedere entrare di sera uno sconosciuto ammantato in una cappa nera. Decido di non rivelare il volto, per il momento, o qualcuno potrebbe fuggire in preda al panico.
Celato nell’ombra della veste sogghigno di compiacenza e mi siedo a un tavolo, facendo in modo di avere la porta di fronte e il muro alle spalle. Non mi preoccupo nemmeno di svestirmi dagli indumenti bagnati.
Immediatamente si presenta il proprietario, un uomo grassoccio e unto, che mi consiglia i piatti forti. E’ impossibile non leggergli l’espressione tesa in volto. Ordino un maialino al latte con le patate e una bella pinta di birra, poi calo il cappuccio. I fiati che sento trattenere mi fanno capire che sono ancora oggetto degli sguardi dei commensali e presumibilmente argomento di discussione della serata. Mantengo il mio sguardo distaccato e vuoto per tutto il tempo d’attesa, finché non la vedo.
Per un momento penso sia lei, e il suo nome mi sfugge dalle labbra come uno sbuffo. «Thalia» dico. Poi mi ricordo che lei non c’è più. E’ morta e non potrò più rivederla. Eppure si somigliano così tanto.
Si destreggia per i tavoli portando le pietanze e facendo ondeggiare quella bella chioma bionda a destra e a sinistra. Quando mi guarda, i nostri sguardi si allacciano e affogo nelle sue iridi azzurre. Mi aspetto che trasalisca, o che lasci cadere i piatti a terra, o che urli, o che scappi, ma non lo fa.
Qualcosa dentro di me si rompe.
Continua a fissarmi con uno sguardo pieno di… amore? Dispiacere? Compassione? Non provo più queste sensazioni da troppo tempo, non so distinguerle.
Tra i due sono io quello che rimane stupito. Da quanto tempo qualcuno non reagiva in malo modo guardandomi? Da prima dell’incidente. Ma quelli erano altri tempi, il mondo era diverso. Io ero diverso.
Se ne torna in cucina, facendo frusciare la veste rossa. Un attimo prima di svanire dietro la porta mi getta un’ulteriore occhiata, e io le rispondo. Per la prima volta da secoli i miei occhi non sono spenti – pur essendo bianchi come il latte e spenti dell’anima che una volta avvampava.
Vedo l’oste passarmi di fianco e gli tiro con una mano la camicia. Quello si volta e inizia a boccheggiare, temendo chissà cosa.
«Chi è la ragazza?» domando con la mia voce profonda e spaventosa, facendo cenno col capo alla cucina.
Quello continua ad aprire e chiudere la bocca. «E’ mia figlia» dice infine con un filo di voce. Deglutisce, ma è evidente che ha la gola secca. «Se vuoi, può essere tua per questa notte per cinque monete di bronzo.»
Un brivido mi percorre la spina dorsale. La notizia non dovrebbe farmi quell’effetto. Mi sono impegnato duramente per reprimere i sentimenti, ma una parte del vecchio uomo che ero è riemersa incontrando la ragazza così simile a Thalia.
Lo congedo con un cenno della mano senza dire altro. Qualsiasi cosa mi stia accadendo, devo contenerla. So perfettamente cosa succederebbe se non lo facessi: Lei verrebbe qui e mi porterebbe nel luogo da cui è impossibile far ritorno e in cui finiscono le anime dannate.
Il Tartaro.
Un rumore di passi alla mia destra mi fa voltare: la figlia dell’oste è tornata carica di pietanze e appoggia la mia sul tavolo.
«Buon appetito, straniero» mi dice cordialmente. Mantengo lo sguardo basso e non rispondo.
Si allontana per servire un altro uomo a tre tavoli di distanza. Vedo che inizia a parlare con il cliente. In una manciata di secondi, quello ha già iniziato ad allungare le mani verso le sue forme.
Mi sforzo di rimanere calmo. Non devo cedere alla rabbia. Affondo il mio sguardo sull’arrosto di maiale e mi concentro su quello. Ha un odore fantastico. Bene, lo finisco in fretta e poi…
La sento urlare. L’uomo ha iniziato a essere troppo irruento e lei non vuole essere trattata in quel modo.
Calmo, mi dico, ora smetterà e tutto tornerà come prima. Ma l’altro cliente non accenna a smettere e senza accorgermene mi ritrovo in piedi. Inizio a camminare senza sapere perché. In un attimo mi sono avvicinato abbastanza da poterli sfiorare. L’uomo si ferma e sbotta: «E tu che vuoi, mostro? Va a stare nel recinto con i suoi simili!»
Risate tra gli amici seduti al tavolo con lui e tra quelli sparsi nel locale.
«Lasciala andare» scandisco a fior di labbra. Mi sto irritando. Nessuno può permettersi di prendersi gioco di me e rimanere impunito.
Mi sputa addosso.
Non attendo oltre: con un unico movimento fulmineo – oliato da anni e anni di esercitazioni – porto la mano destra sotto il mantello, afferro l’elsa della spada, la sguaino e gliela punto alla gola.
Lo vedo spalancare le pupille dal terrore e bloccarsi. «Non farlo» mi prega.
«Perché?» ringhio, beffardo.
«Perché lo dico io» mi risponde la ragazza, appoggiando una mano candida sulla mia. Il contatto mi fa perdere tutta la mia sicurezza e abbasso l’arma.
In quel momento sento un lievissimo fruscio dietro la spalle, quasi impercettibile alle orecchie dei comuni umani – ma non per me. Mi volto di scatto e intercetto il braccio di un altro uomo che stava cercando di fracassarmi il cranio con una bottiglia di vetro. Glielo torco con violenza fino a romperglielo e lo lascio cadere a terra mentre urla selvaggiamente.
In meno di un attimo scoppia l’inferno. O meglio, scoppia la confusione. Io l’ho visto realmente l’inferno. Lei me lo ha mostrato, per farmi capire quale sarebbe stato l’esito del mio fallimento. E non ha nulla a che fare con quello che accade al “Boccale Infernale”, seppure il nome lo ricordi.
Almeno altri cinque o sei uomini si alzano in piedi afferrando qualsiasi cosa gli capiti sotto tiro per farmela pagare. Poveracci. Rinfodero la spada e mi preparo a menar le mani.
Mi basta ben poco per stenderli. Sono troppo veloce, troppo forte, troppo esperto per farmi pestare da un branco di ubriaconi.
«Fuori di qui!» mi urla l’oste non appena colpisco anche l’ultimo degli aggressori. «Non vogliamo risse, qui! Siamo gente perbene!»
Ma non ascolto e torno a finire la cena al tavolo in tutta calma, mentre attorno a me la gente uggiola di dolore, mi scaglia contro i peggiori anatemi che gli vengano in mente o semplicemente mi guarda incuriosita. Nessuno osa continuare lo scontro.
Un’ombra mi si para davanti. E’ lei. Il cuore perde un battito. Alzo lentamente gli occhi.
«Grazie» mormora.
Rispondo con un cenno assente del capo.
Ma non se ne va. Rimane lì a fissarmi. Così sono costretto ad allontanarmi io, lasciando parte della mia cena a raffreddarsi sul tavolo. Appoggio sul bancone un paio di monete e mi getto nuovamente sotto la pioggia battente, con il fido cappuccio già calato sulla mia chioma argentea.
«Straniero» sento chiamarmi da dietro.
Non ho bisogno di voltarmi per capire di chi sia la voce. Non accenno minimamente a rispondere e continuo imperterrito.
«Straniero» ripete, questa volta più vicina.
Un attimo dopo si aggrappa al mio mantello. Sono costretto a girarmi e a lanciarle lo sguardo più glaciale che posso. Di solito mi riesce naturale, ma sento il mio spirito vacillare per un attimo. Spero non se ne sia accorta.
«Non mi avete detto il vostro nome» si lamenta, mentre i capelli iniziano ad appiccicarsi al volto.
Ho voglia di scostarglieli dagli occhi, ma mi trattengo. Mi specchio su quelle iridi azzurre che sembrano rifulgere al chiaro di luna. Dato che piove non posso percepire bene il suo odore, ma immagino che sia quello dei fiori che sbocciano in primavera.
«Non ho nome» dico, poi faccio per voltarmi, ma mi ferma nuovamente con una mano.
«Cosa siete?»
«Un mostro, non vedete?» scosto il cappuccio dal volto e indico le grosse cicatrici.
Lei scuote il capo. «Non sono d’accordo. Vi trovo strano, questo sì, ma bello. Ho come l’impressione che non siate come cercate di far apparire. Siete una rosa coperta dalla neve fresca. Sepolta, ma essa si conserva intatta, lo sapete? Basta solamente un po’ di calore per riportarla in superficie» mi sorride mentre indica il mio cuore.
La frase mi spiazza, i ricordi mi abbagliano.
 
Io e Thalia eravamo innamorati. Proprio quel giorno avevamo deciso di sposarci. Stavamo riposando all’ombra di un albero, sussurrandoci parole d’amore e facendo piani per il nostro futuro insieme, quando quell’uomo sbucò dal nulla e la prese in ostaggio, puntandole un coltello alla gola. Lei invocò il mio aiuto e la sua pietà. Piangeva, mentre io me ne stavo impalato, non sapendo che fare. Rimanemmo a guardarci negli occhi per non so quanto, finché non apparve un cacciatore di taglie che stava inseguendo l’altro da qualche giorno. Voleva la sua testa, ma quello era intenzionato a vendere cara la pelle. Il cacciatore tirò una freccia, e io trattenni il fiato, ma per fortuna colpì il fuggiasco a una spalla, lordando di sangue anche la bella Thalia.
Così quello appoggiò la lama al collo della mia promessa sposa e le incise un grande sorriso rosso con disinvoltura; poi la scaraventò addosso al suo inseguitore per rallentarlo.
Ricordo di essere caduto in ginocchio e di aver pianto tutte le lacrime che avevo, finché i singhiozzi e i sussulti non cessarono e del mio dolore non rimase che una grande sonnolenza.
Passarono due giorni prima che mi rendessi conto che bramavo la vendetta. L’agognavo più di qualsiasi cosa al mondo. Forse anche più della possibilità di poter abbracciare ancora una volta Thalia.
Partii quindi alla ricerca della mia vittima, ma non ebbi una gran fortuna. Dopo un anno di peregrinazioni, venni a sapere che era già stato ucciso da un altro cacciatore tre mesi prima. Vinto dallo sconforto, senza più alcuna ragione di continuare quella triste esistenza, tentai il suicidio, ma qualcuno me lo impedì. Una fanciulla avvenente vestita con abiti molto succinti e rossi come il fuoco che facevano risaltare la carnagione chiara, aveva fermato la mia mano e mi guardava con aria afflitta. «Cerchi la vendetta?» mi chiese. Risposi con un cenno del capo. «E l’avrai» continuò quella. «Solo a una condizione…»
 
Interrompo il filo dei ricordi. Sono troppo dolorosi, persino dopo tutto questo tempo.
Lei se ne accorge. «Ho ragione, non è così?»
Non so che dire. Abbasso lo sguardo afflitto per la prima volta da cinquecento anni. «Io…» cerco di dire, ma la ragazza prende l’iniziativa e mi bacia sulle labbra. Mi perdo in quel mare del suo odore – finalmente ora lo sento -, delle sua presenza accanto a me e del suo corpo stretto al mio. I nostri cuori sembrano battere all’unisono, concordi che l’altro è quello per cui valga la pena innamorarsi ancora.
Penso di respingerla, di percuoterla, di minacciarla e di ucciderla contemporaneamente, ma non lo faccio. Ricambio il bacio, e mi stupisco da solo. Sento un’orribile sensazione crescere dentro di me – che sia l’amore?
Le parole della bellissima Vendetta in persona mi risuonano dentro la testa e mi rivedo ai suoi piedi, pregando per avere la mia di vendetta, ancora distrutto dalla perdita di Thalia.
 
La Vendetta mi guardò dritto negli occhi. «Solo a una condizione: d’ora in avanti, la vecchiaia e le malattie non potranno più spegnere la tua vita, ma una spada o una freccia sì. Vagherai di città in città e diventerai un cacciatore di taglie, strappando le anime da coloro i quali si macchiano di omicidio. Così potrai vendicarti per la tua amata perduta…»
Mi prese il volto con una mano e sorrise. I suoi lineamenti erano così delicati, così innocenti. Eppure dentro doveva ardere un fuoco nero, folle come il demonio. È un fiore pericoloso da cogliere. Cela di sicuro qualcosa di malvagio non visibile in un primo momento e ammantato da un bell’aspetto.
«… ma non dovrai mai più cadere nel gioco dell’Amore o trascurare la caccia ai banditi, altrimenti finirai nel Tartaro.»
Deglutii a fatica. «Cos’è il Tartaro?»
Quella fece scorrere un braccio davanti a sé e come per magia ebbi la visione di un posto buio, caldo, umido, che puzzava di zolfo e con fiumi di sangue e lava bollenti che scorrevano placidamente al pari di un ruscello in montagna. Attorno vidi vulcani eruttare rabbiosi e mostri di tutti i tipi, irti di peli e di aculei, aggirarsi per quella landa desolata, camminando a quattro zampe, a due, o volando. Poi colsi un movimento. Strizzai gli occhi. Alcune persone stavano correndo a perdifiato mentre venivano inseguite e mangiate da quelle mostruosità, o cadevano nei fiumi ardenti e bruciavano.
«Ecco il Tartaro: è un luogo per le anime dannate. Qui gli individui peccatori nascono e muoiono decine di volte al giorno e provano sofferenze al limite della sopportazione.»
«Accetto» dissi in un soffio. La mia vita ormai non aveva più senso, perché non buttarsi nelle braccia della Vendetta quando il Fato era stato così meschino?
 
Mi ritrovo avvinghiato alla ragazza dell’osteria, le mie labbra ancora premute sulle sue, la mano posata sulla sua nuca in maniera così dolce.
Mi assale un’ondata di terrore.
La stringo a me con un presa sicura facendole sfuggire un gridolino di piacere.
Ma dalla manica estraggo silenziosamente un corto pugnale.
La vedo che sta per dirmi qualcosa, ma le tronco il respiro. La lama penetra nella sua schiena, nell’unico punto in cui possa toccarle il cuore e ucciderla senza farla soffrire troppo. Questa per me è gentilezza.
Ella spalanca gli occhi dallo stupore, un’espressione tipica delle persone che si accorgono solo quando è troppo tardi che hanno commesso un errore imperdonabile.
Sbuffa la sua anima con un gemito e si accascia.
La lascio cadere a terra senza degnarla di uno sguardo. Poi mi volto e mi allontano, con l’anima ancora più nera e il colore delle iridi sempre più sbiadito.
  
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