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Autore: _Breath    04/09/2015    1 recensioni
-Dafne Valenti?-
Dafne sorrise dolcemente, vagamente intenerita, sentendolo pronunciare il suo nome. A dispetto delle apparenze, Gabriele non era un suo normale coetaneo e non era neppure un deviato mentale come tutti le volevano far credere,ma era qualcosa di più. Un eterno Peter Pan o, magari, un Peter Pan che non aveva avuto la possibilità di crescere, che non era riuscito a varcare veramente il mondo degli adulti.
E lei aveva sempre voluto essere una Wendy.
-Si?-
-Se fossi stato un ragazzo normale, se fossi stato un tuo amico, proprio come quello lì, se non fossi stato un presunto pazzo chiuso da anni dentro uno stupido manicomio e non puzzassi come un cane abbandonato a se stesso in un deserto privo di acqua... Ecco... In quel caso, solo in quel caso, tu usciresti con uno come me?-
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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  PROLOGO.

Quando Gabriele aprì gli occhi, il sole doveva ancora sorgere. Ma era un sole metaforico, quasi inesistente quello che lui cercava, perché anche se questo fosse già stato alto nel cielo, lui probabilmente non lo avrebbe visto.
Erano anni che si chiudeva a riccio nella sua stanza, le gambe strette al petto e la schiena ricurva, mentre le sue labbra sottili, bianche e screpolate, ripetevano ininterrottamente la stessa parola.
Il suo nome. 
Gabriele Esposito. 
Quella era l'unica cosa che Gabriele era certo di ricordare; erano passati così tanti anni dall'ultima volta che era uscito da quella stanza, da fargli dimenticare anche come fosse fatto il mondo. Ed anche il suo volto. Erano dodici  anni che Gabriele non vedeva la sua faccia, riflessa in uno specchio, in una finestra o anche in una pozza d'acqua. 
Forse, alcune volte, si chiedeva anche se lui avesse veramente un viso, dei connotati, degli occhi, e principalmente di che colore questi fossero.
Era un ragazzo di colore?
Era castano, biondo?
Era un ragazzo?
Ogni volta che i dubbi sulla sua identità lo assalivano, Gabriele si prendeva la testa fra le mani e la scuoteva forte, come se così potesse mettere ordine nella sua mente e riportare tutti  i cattivi pensieri al loro posto. Alcune volte urlava, altre volte piangeva. Delle volte urlava e piangeva nel sonno.
Al suo risveglio, però, come ogni mattina, Gabriele si guardava intorno e vedeva sempre lo stesso muro grigio, spento, opaco, triste. Non c'era nemmeno una foto o un poster a fargli compagnia, segno che il colore  era stato letteralmente dimenticato in quel mondo ingiusto. 
Gabriele non sapeva mai che ore fossero, non era a conoscenza neppure del tempo che passava e se realmente trascorreva; delle volte si limitava a guardarsi le scarpe, i piedi nudi, mentre si dondolava sul posto con la schiena ricurva. I suoi capelli gli coprivano la fronte facendogli solletico, ma lui non li scansava; alcune volte aveva paura che se lo avesse fatto, avrebbe perso la concentrazione e avrebbe smesso di sentire quel suono caldo, confortante e di compagnia che gli rimbombava nelle orecchie.
Quella era la sua voce ed era l'unico suono che lui udisse da anni.
Ripeteva: "Gabriele Esposito non è pazzo." 




CAPITOLO 1.


L'ultima volta che Gabriele aveva visto i suoi occhi riflettersi in qualche superficie, aveva avuto all'incirca dodici  anni.
Ricordava vagamente di possedere incredibili occhi color nocciola, quasi dorati, come quelli un cerbiatto in difficoltà che non sa ancora quale  strada percorrere. Solitamente si guardava intorno, con quei occhi, poi si sfiorava il mento in una carezza leggera e vaga, come se gli prudesse il volto e se lo volesse grattare. 
Quando aveva dieci anni sua madre era solita tenergli la mano stretta fra la sua, come una calda coperta, un cuscino terribilmente confortevole e rassicurante; poi sua madre era morta e con lei se ne erano andati anche i buoni propositi di essere felice. 
Aveva undici anni quando Gabriele scoprì di non saper più piangere, ormai. 
Era stato costretto da suo padre ad andare al funerale di sua madre, nonostante lui non volesse, nonostante lui non ci credesse.
Una volta si era opposto a quella morte, aveva sbattuto i piedi per terra, poi aveva fronteggiato Franco Esposito con rabbia, quasi con sfida.
-Io non ci vengo al cimitero con te,- aveva urlato. -Io non ci vengo a trovare la mamma. La mamma non è morta, la mamma è qui con me. Diglielo mamma!- aveva poi continuato a urlare, voltandosi alla sua destra, verso un qualcosa di inesistente che però solo lui vedeva. -Diglielo che io non ci vengo, che posso restare a casa con te a vedere i cartoni. Papà  è cattivo, non mi ascolta. Papà dice che sei morta perché è cattivo e avete litigato. Diglielo mamma, io voglio più bene a te.- 
Ricordava ancora perfettamente lo sguardo di sconforto che Franco Esposito  gli rivolse con sgomento, le sue iridi grigie che si liquefacevano per lo sforzo di trattenere le lacrime. Era una sensazione che qualunque bambino avrebbe vissuto in modo singolare e personale, ma non Gabriele.
Gabriele semplicemente non la viveva, ma la ignorava. Si nascondeva dietro il velo fitto dell'immaginazione, ignorando di indossare un completo troppo elegante per un bambino di soli undici anni,  con una rosa legata al colletto della linda camicia. Se lo strappò di dosso quel fiore, poi lo gettò a terra e ci saltò sopra, caparbio. Franco lo osservò per molto sconvolto, con fare attento, cercando di metabolizzare i movimenti di quel figlio che si era riscoperto orfano troppo in fretta. Troppo presto.
Era come se Gabriele cercasse di denunciare quell'avvenimento, di annullarlo, modificarlo, perfezionarlo e riviverlo nella sua mente come meglio lui credeva. Si ribellava al presente, perché il passato era come una macchia di caffè bollente che si allargava sul suo polso. Odiava stare ad osservare impotente quella cicatrice che prendeva forma, mentre lui non poteva fare niente per evitare che prendesse il sopravvento; soffiarci sopra amplificava solamente il dolore. 
La psicologa disse che la sua era una rara visione del mondo- rara, non impossibile- che solitamente  i bambini di quell'età non erano soliti abbracciare. A undici anni si era ancora troppo giovani, troppo deboli, troppo piccoli per poter essere in grado di prendere in mano la propria vita e cambiarla a seconda dei propri piaceri. Molte volte questo era impossibile farlo anche in tarda età, quando ormai si è maturi e uomini e consapevoli dei propri limiti, fisici o morali. 
Era una dottoressa in gamba, lievemente sopra le righe, ma quale medico poteva cercare di capire i pensieri di un pazzo se non un ulteriore deviato?
Perché questo Gabriele era, questo era almeno ciò che vedeva Franco dai suoi occhi di genitore spento, indebolito e sofferente da quel lutto che anche lui doveva ancora accettare e superare.
Non era raro trovare Franco seduto a gambe larghe sul loro divano ampio e vuoto, così vuoto senza di lei, così spento senza la sua risata intrisa nei cuscini. Era qualcosa che solo i muri conservavano, come se vi ci fosse intrisa dentro, nello specchio di una macchia che nessuno sarebbe mai riuscito a scalfire. E distruggere. E portare via, almeno da lì. 
I sabati sera in casa Esposito erano tutti miti e ripetitivi, freddi, come le mattonelle del pavimento quando Gabriele camminava scalzo la sera per raggiungere il bagno. Era un susseguirsi di episodi, movimenti, azioni; Franco trovava Gabriele sempre placidamente addormentato la  sera, quando prima di ritirarsi nella sua stanza passava accanto a quella del figlio. Tranne una volta. Eccetto una notte.
Gabriele aveva solo dodici anni, qualche dente da latte ancora attaccato alle gengive e una leggera miopia all'occhio destro, ma a parte questo era come ogni bambino della sua età. Eccezion fatta per la sua deviazione mentale, ma quella ormai era diventata un segno particolare della sua pelle, come la famosa macchia di caffè che si allargava giorno dopo giorno sul suo polso e nel suo cuore. 
Quella sera non faceva ancora freddo, ma le prime tracce di un pungente autunno iniziavano a farsi sentire; le dita delle mani di Franco erano gelide, ghiacciate, e nel ricordo di quando sua moglie  gliele stringeva fra le sue, se le riscaldò con le labbra. Ci soffiò sopra una, due, tre volte...poi si alzò dal divano.
Qualcosa gli suggeriva che Gabriele a quell'ora stesse dormendo, ma volle ugualmente andare a controllare. Se solo non lo avesse fatto, probabilmente non avrebbe visto ciò che non avrebbe dovuto vedere e la sanità mentale di suo figlio non sarebbe stata messa ulteriormente in discussione. Eppure si sa, il tempismo umano è qualcosa di così assurdamente fuori luogo da risultare comico, quasi come una moglie orgogliosa e cocciuta che si ostina a voler cucinare il piatto preferito del proprio marito nonostante sia consapevole di essere  un disastro tra i fornelli.  
Franco quella notte si era mosso circospetto tra il corridoio, perché aveva paura di poter svegliare in qualche modo Gabriele dal suo sonno tranquillo;alcune volte era solito sentire suo figlio urlare nella notte e piangere, per poi nascondere la testa nel cuscino perché probabilmente voleva evitare che Franco lo sentisse. Ma lui era sveglio, e questo probabilmente Gabriele non lo avrebbe mai saputo;erano mesi che Franco non dormiva, erano anni che non riposava sereno. La sua vita era come  condannata alla sofferenza, come se l'inferno lo avesse abbracciato con le sue calde fiamme e lo invitasse ogni giorno a lasciarsi ustionare. E lui, masochista, sofferente, si lasciava torturare perché delle volte era quasi certo di meritarsi quel dolore. Era convinto che fosse la sua punizione e il rimanere impotente davanti le lacrime del suo bambino ne era l'ulteriore prova.
Alcune volte sarebbe voluto andare da lui per dirgli che non doveva piangere, ma che diritto ne aveva lui di negargli il proprio dolore? Proprio lui, quando era il primo a piangere disperatamente la sera con la testa sul vecchio cuscino della moglie?
Dunque inforcava la testa nelle spalle, appoggiava un orecchio sul ripiano della porta e stava ad ascoltare i singhiozzi infantili di suo figlio, sperando che un giorno si potessero tramutare nuovamente in una risata. 
Franco non ha mai avuto il piacere di ascoltarla quella risata, e un po' è anche colpa sua. Principalmente colpa sua. 
Sono passati ormai dodici  anni da quella sera, Gabriele ormai ha ventiquattro anni e un po' di barba incolta sul volto, eppure mantiene sempre lo stesso sguardo sperduto, immaturo, sbarazzino e malizioso che ogni bambino di dodici anni ha di diritto. E' come se Franco gli avesse bloccato la crescita, perché Gabriele ha smesso di diventare grande per paura di assomigliare all'adulto odioso che era diventato suo padre. Gabriele ha semplicemente preferito l'immaturità, quella giovinezza eterna, allo sguardo fermo e deciso di Franco Esposito. Non era lo sguardo di un uomo quello di Franco, perché nessun uomo potrebbe rinchiudere il proprio figlio in un manicomio, nonostante sia spaventato, freddo, solo e bisognoso di affetto. Del suo affetto, dell'affetto di un padre, di un genitore, di un amico, di un qualunque essere umano  disponibile a fargli compagnia. 
Franco ha privato Gabriele della possibilità di farsi una vita, perché da dodici  anni a questa parte quella di Gabriele Esposito non può essere più considerata come tale. 
E' un esistenza spenta la sua, insolita, ripetitiva. 
Alcune volte Gabriele si ferma a pensare al motivo che ha spinto suo padre a quella decisione, poi scuote la testa e si porta le mani sul capo. E' sconvolto, ha paura, è terrorizzato dai fantasmi del suo passato.
E pensare che Gabriele è finito in un manicomio esattamente per lo stesso motivo che ora lo spaventa terribilmente. 
Parlava con i fantasmi, diceva.  Parlava con sua madre e aveva uno sguardo terribilmente spiritato quando lo faceva da sembrare quasi indemoniato. 
-Lei è qui. Ti guarda, ci guarda. Ti odia e presto ti ucciderà, papà, esattamente come tu hai ucciso lei. Sei tu il suo assassino!-
Era questo che disse a Franco quella fatidica sera, gli occhi bianchi e rossi, un sorriso perverso sulle labbra e la voce così fredda e incolore totalmente diversa da quella che gli era sempre appartenuta.
E quindi era stato richiuso in un manicomio, in quel triste ospedale psichiatrico che da un po' di tempo era diventata la sua casa. Ma che casa è quella che ti tratta come un deviato mentale? Gabriele era sempre vissuto con l'ideale di una famiglia amorevole, compatta, unita... eppure questo suo desiderio era andato scemando con la morte di sua madre.
Certe volte si chiedeva come sarebbe stata la sua vita se solo lei non fosse deceduta, poi però ricordava cosa l'avesse portata alla morte e trovava una spiegazione a tutte le sue domande. 
Suo padre l'aveva uccisa e dunque sua era la colpa. 
Franco Esposito era un assassino.
Se Gabriele era rinchiuso lì dentro, dunque, non era perché la sua era una malattia mentale, ma perché diversamente era l'unico troppo sano capace di vedere la realtà dei fatti.
E il vero pazzo, colui che veramente meritava quelle atroci punizioni, quella triste reclusione, era ancora in libertà.
Ancora per poco, promise quella sera a se stesso. 
  
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