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Autore: Luca Bertossi    04/09/2015    1 recensioni
“Ciao” dissi.
“Chi sei? È un piacere farti visita” la sua voce era robotica e diceva le parola, una a una come se appartenessero a frasi distinte.
“Io mi chiamo Marco” per quanto fosse possibile, stavo parlando con un oggetto, o almeno così credevo. Ma era veramente un oggetto? O poteva essere qualcosa di più?
Genere: Malinconico, Science-fiction, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ciao a tutti! Questo è un breve racconto sui social robot, il mio primo racconto completo :) e spero vi piaccia! Fatemi sapere cosa ne pensate :)


IL ROBOT 001
 
Un altro giorno stava terminando, il sole all’orizzonte emanava un’intensa luce arancione, ma le montagne di immondizie della discarica di Milano ricoprivano la mia casa nascondendola all’ombra. All’epoca ero solo un ragazzino, un povero orfano scappato dall’istituto per minori italiani. Vi domanderete come sia possibile che fossi scappato da un orfanotrofio se erano stati chiusi tutti in Italia con la legge 149 del 2001, che fissava nel 2006 l’ultimo giorno di vita di questi istituti. La risposta è tanto semplice quanto misteriosa: quando l’orfanotrofio di Milano chiuse, qualcuno tra il personale interno riuscì a continuare a lavorarci illegalmente. Così, tra le mura dell’edificio, poche persone tenevano a bada i pochi bambini rimasti chiusi lì dentro. Io ero uno di loro, avevo perso i genitori tanto tempo prima, nemmeno me li ricordo. Ma io non volevo rimanere lì dentro, così sono fuggito e mi sono rifugiato nella discarica fuori città.
Non avevo un bel carattere, ero sempre per i fatti miei e perfino nel periodo in cui ero all’orfanotrofio non parlavo mai con i miei compagni. Aspettavo sempre che fossero loro a parlarmi.
Fino a quel giorno. Quel giorno la mia vita cambiò.
Era un giorno come tanti, se non fosse stato per l’arrivo in discarica di un nuovo pezzo. Un camion con uno strano marchio che non avevo mai sentito arrivò scortato da tre uomini e lasciò cadere tra le montagne di rifiuti uno strano… non sapevo come definirlo, mi sembrava un essere di metallo tipo un robot, ma non avevo capito cosa fosse in realtà. La gente fa difficoltà a distinguere certe cose. Ecco, io non sapevo che quella cosa sarebbe stata importantissima per me.
Mi nascosi tra le immondizie per non farmi vedere. Nessuno sapeva che ero lì, nessuno sapeva che io esistessi. I bambini dell’orfanotrofio erano stati dati per scomparsi o deceduti. Nessuno era testimone della loro esistenza, e nessuno di noi avrebbe potuto far luce su questo mistero. Neanche il guardiano della discarica sapeva di me. Era un vecchio sempre ubriaco, figuratevi se si fosse accorto.
Quando il veicolo se ne andò, controllai che non ci fosse nessuno in zona e mi diressi verso quel nuovo strano oggetto. Ero sicuro che sarebbe stato qualcosa di interessante, magari qualcosa che avrei potuto barattare al mercato per del cibo, o magari avrei potuto smontarlo e poi avrei venduto i pezzi per sostentare. Arrivai nel punto dove lo avevano lasciato e lo vidi. I miei occhi si spalancarono mentre provavo una strana sensazione mista tra curiosità e paura. Era proprio un robot. Composto da due gambe, un torace, delle braccia, il corpo e la testa. Aveva sembianze umane e se non fosse stato per il fatto che era fatto di metallo, lo avrei scambiato per una cadavere. Se ne stava lì fermo, immobile. Morto. Io mi avvicinai con cautela. Non mi fidavo perché non avevo mai visto qualcosa del genere. Quando fui a un metro qualcosa si mosse. All’inizio non capii cosa era stato, ma poi mi resi conto che il rumore proveniva proprio dal robot. Feci un altro passo incerto e gli occhi dell’uomo di latta di accesero di blu. Le braccia iniziarono a muoversi così come il torace e le gambe. Io indietreggiai spaventato. In fondo sapevo che non avrebbe potuto farmi del male… anche se non avevo la certezza, ma qualcosa nel mio cuore mi disse di non scappare. Di attendere. Così rimasi lì immobile.
“Ciao”.
All’inizio non me ne accorsi nemmeno. Forse perché non me lo aspettavo, o forse non volevo crederci, ma quando ripetè “ciao” non potei fare a meno di rispondere.
“Ciao” dissi.
Il robot rimase zitto. Girava la testa a destra e sinistra e ad ogni movimento corrispondeva un rumore metallico.
Poi continuò.
“Chi sei? È un piacere farti visita” la sua voce era robotica e diceva le parola, una a una come se appartenessero a frasi distinte, tanto che feci difficoltà a capire la prima volta, ma poi mi abituai.
“Io mi chiamo Marco” per quanto fosse possibile, stavo parlando con un oggetto, o almeno così credevo. Ma era veramente un oggetto? O poteva essere qualcosa di più?
Così gli feci io una domanda. Gli chiesi: “e tu, chi sei?”
Lui sembrò squadrarmi in faccia e piegò la testa di lato come per pensare. Pensare.
Alla fine rispose: “Piacere Marco, io sono Teox”
Capii subito che non aveva sesso, ma la domanda che mi ponevo era: che cosa è? Un robot o cos’altro? Quando ero all’orfanotrofio leggevo sempre libricini di robot che vivevano come esseri umani e mi piacevano parecchio. Così chiesi, quasi a botta sicura: “Sei un robot?” più che una domanda era un affermazione, ma mi sbagliavo.
Teox si alzò su duce gambe e si avvicinò a me gentilmente. Ad ogni suo passo corrispondeva uno strano rumore meccanico ma soft.
“Da dove vieni Marco?”
Non aveva risposto alla mia domanda e in quel momento non capivo che cosa avevo detto di male, così feci finta di niente e gli risposi.
“Io abito qua, nella discarica”.
L’espressione di Teox sembrò cambiare. Gli occhi si accesero colorando due lacrime tristi e la voce divenne triste. “È brutto questo posto. Sei scappato di casa? Ti facevano del male?”
In un certo senso aveva capito tutto, ma non sapevo se la verità era quella che intendeva lui, non sapevo quale era il suo livello di intelligenza, ma pareva che mi potessi fidare.
“Io sono un orfano, i miei genitori sono morti quando ero piccolo e… sì, sono scappato dal posto in cui abitavo, perché…” mi scese una lacrima “era un brutto posto”. Là dentro quei pochi che erano rimasti a controllarci utilizzavano la violenza per tenerci a bada ma non mi andava di dirlo. Non volevo rievocare determinati ricordi.
La discussione non andò oltre. Io mi zittii e lui sembrò fare lo stesso, come se avesse capito che c’era qualcosa che non andava e non voleva farmi stare peggio. Così stemmo l’uno davanti all’altro per qualche minuto, in silenzio.
Il sole ormai era calato ed era diventata notte. Gli occhi di Teox affievolirono la loro luce adattandosi alla notte. Io feci per andarmene, diretto verso “casa” rendendomi conto che non avevo trovato niente che avrei potuto rivendere per guadagnare. No, niente del genere, ma avevo trovato un compagno, un amico che forse poteva finalmente capirmi.
Proprio in quel momento anche lui si alzò e mi seguì. Me ne accorsi subito a causa del suo rumore.
“Dove vai Marco?” disse con la sua voce robotica.
Io mi fermai e mi rigirai verso di lui. Era dietro di me, a due passi. Sembrava che fosse creato apposta per stare con le persone, apposta per fare compagnia alla gente. Poi gli rifeci la domanda.
“Cosa sei Teox?”
Lui rispose che mi avrebbe detto tutto una volta arrivati a casa che lì non era sicuro, così ci dirigemmo verso il mio nido.
Abitavo accanto ad una montagna di immondizia. Un’automobile era incastrata come a formare un tunnel sotto la collina e io mi ci infilavo sempre dentro per dormire. Lì nessuno mi aveva mai scoperto. Era un posto sicuro.
“Io non sono un robot” mi disse. Io rimasi sconvolto. Non capivo dove volesse andare a parare e lasciai che proseguisse. “Un robot è una lavatrice, un ventilatore. Un robot è un macchinario che non ragiona che non possiede una sua intelligenza! Esegue semplicemente le azioni ma non in maniera autonoma!”
“Tu… tu sei intelligente!”
“Io sono stato creato per assistere le persone che hanno bisogno di aiuto. Sono un social robot! È questa la differenza. Un robot sociale comunica con gli esseri umani, condivide pensieri ed emozioni! Può essere dotato di intelligenza artificiale!”
In quel momento capii quanto era separato dal mondo reale. Quante cose non sapevo! Ma la mia mente era scattata anche in un’altra direzione.
“Quindi… sei qui… per… me?” chiesi indeciso. Avevo paura. Questo significava che qualcuno sapeva della mia esistenza. E se fosse stato mandato per riportarmi all’orfanotrofio? Preso dalla paura tirai un calcio a Teox che volò fuori dalla macchina e mi chiusi dentro. Mi rannicchiai sotto il sedile del passeggero e mi addormentai per la notte.
La mattina successiva, quando mi svegliai, Teox era ancora lì fuori, che mi guardava.
“Sei ancora lì?” gli chiesi riluttante.
“Non mi hai lasciato finire la frase Marco”.
In quel momento capii che forse mi sbagliavo, forse non era stato mandato per catturarmi. Ma perché allora?
“Io sono uno scarto della mia azienda. Sono qua e ti ho incontrato, ma è solo un puro caso”.
Mi preoccupai. “Perché sei stato scartato?”
“Io volevo solo avere una vita normale, volevo avere qualcosa che non potevo ottenere”.
E solo in quel momento capii quanto avevamo in comune io e Teox, due vite che non potevano essere accettate nel mondo in cui vivevano.
Passarono i giorni e io e Teox facemmo sempre più amicizia. Ci raccontammo tantissime cose, le nostre vite, le nostre esperienze, le nostre figuracce. Mi resi conto che era molto più di un robot sociale, era il mio unico compagno. Il mio unico amico. E capii anche che i social robot erano il futuro della società.
Un giorno si fece triste all’improvviso. In realtà durante la nostra convivenza avevo notato alcuni momenti durante i quali esitava, come se dovesse dirmi qualcosa, ma non voleva… quel giorno però pareva si fosse convinto di farsi avanti.
“Marco, devo dirti una cosa” mi disse di punto in bianco, tanto che mi domandai cosa potesse essere di così importante. Erano passati due mesi e il nostro legame era più forte che mai.
“Dimmi, non aver paura!” lo incoraggiai.
Teox si avvicinò a me.
“Io non potrò stare per sempre al tuo fianco”
“Credevo che voi robot foste immortali” ero stupito.
“Non è questo il punto”.
Non capivo.
“Questa è una discarica… cosa succede a tutti gli oggetti che vengono portati in discarica?”
In quel momento capii. Capii che a breve lui non sarebbe più potuto stare con me e presto sarei tornato da solo”.
Ma in quel momento, le porte della discarica si aprirono per far passare un uomo. Ci fu una cosa che mi colpì. Quell’uomo era familiare. Lo avevo già visto da qualche parte. Solo quando tirò fuori il manganello – quel manganello – lo riconobbi. Era uno delle persone che lavoravano al manicomio. Ricordo ancora quante volte aveva minacciato di colpirmi. Non lo aveva mai fatto ma ci era sempre andato vicino.
“Dobbiamo nasconderci” gli dissi.
L’uomo continuava a cercare e cercare e cercare. Ma proprio quando eravamo sicuri di averlo seminato tra le colline di rifiuti, lui ci trovò.
“Marco” disse.
Si ricordava il mio nome. E io mi ricordavo la sua faccia, le sue rughe. Una per una. I suoi capelli marroni sempre stirati.
“Marco torna a casa, sono da anni che ti cerchiamo”.
Teox si mise tra me e l’uomo. Mi difendeva. Voleva difendermi e avrebbe sacrificato la sua vita per proteggere la mia.
“Togliti maledetta macchina!”
Teox non si muoveva. Poi, successe tutto all’improvviso, come al rallentatore. L’uomo si fece avanti e scagliò il manganello addosso al mio compagno. Lo colpì in testa e lui cadde tra la polvere. Io non riuscivo a scappare, avevo le gambe immobilizzate. Teox si rialzò pronto a combattere per me.
Ricordai una frase che mi aveva detto tempo prima: “il mio compito ora è proteggerti, farò quello per cui sono stato programmato”. Un altro colpo lo investì, poi un altro e un altro ancora. In pochi secondi che sembrarono lunghi un’eternità l’uomo fu addosso a Teox mentre lo colpiva ripetutamente e lo disintegrava in pezzi. Finito il lavoro si alzò sudato e mi guardò. Non so che sensazione provasse in quel momento, so solo quello che successe dopo.
Prese il telefono e lo portò alla bocca. Le sue parole mi rimasero in mezzo allo stomaco e lo sono ancora. Le ricordo come se fossero ieri, come se quel giorno si fosse ripetuto ogni volta che pensavo a ciò.
Prese il telefono e disse: “Ho trovato il robot 001!”
Non ascoltai più la conversazione che seguì, ero troppo disperato per la fine che aveva fatto Teox e non avevo capito perché lo stessero cercando.
No, non potevo mai capirlo, perché cercavano me.
L’uomo tirò fuori una pistola e mi sparò dritto in fronte. Non ricordo le sensazioni che provai, ma quando ci penso riprovo ogni volta quel dolore, come se dopo la mia riprogrammazione e il mio superamento del test di Turing (cosa che avevo fallito da piccolo) non avessero cambiato niente.
Sono un robot, lo sono sempre stato.


 
   
 
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