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Autore: MissChanandlerBong    05/09/2015    18 recensioni
" Desideravo davvero che una cosa del genere potesse accadere, perché avrebbe significato il raggiungimento dell’atarassia che tanto agognavo. L’assenza di ogni sentimento, bello o brutto che fosse, era una cosa che desideravo così tanto che anche solo la grandezza della mia brama mi faceva pensare che non l’avrei mai raggiunta.
Sai, ci sono quelle cose cui ambisci ma proprio perché le vuoi così fortemente sei consapevole che non le raggiungerei mai. Chiamasi ironia della sorte, scherzi del destino, quello che vuoi, insomma. "
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Note: Questa storia partecipa al contest vizi e virtù indetto sul gruppo facebook "Efp famiglia". Il vizio che mi hanno assegnato è l'ira; questa è la consegna: "desiderio di vendicare violentemente un torto subito".
Il linguaggio potrebbe sembrare a tratti un po' volgare ma non è mai eccessivo.
Premetto che non avevo mai scritto nulla del genere, e nemmeno mi sarei aspettata di farlo, quindi spero che ne sia uscito qualcosa di interessante. Se perdete un po' del vostro tempo leggendo ciò che ho scritto mi farebbe piacere ogni recensione o critica costruttiva.
Buona lettura! 
                                               

 
And would it have been worth it, after all,
After the cups, the marmalade, the tea,
Among the porcelain, among some talk of you and me,
Would it have been worth while,
To have bitten off the matter with a smile,
To have squeezed the universe into a ball
To roll it towards some overwhelming question,
To say: “I am Lazarus, come from the dead,
Come back to tell you all, I shall tell you all”
 
 
 
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto, 
Dopo le tazze, la marmellata e il tè, 
E fra la porcellana e qualche chiacchiera 
Fra te e me, ne sarebbe valsa la pena 
D’affrontare il problema sorridendo, 
Di comprimere tutto l’universo in una palla 
E di farlo rotolare verso una domanda che opprime, 
Di dire: « lo sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti, 
Torno per dirvi tutto, vi dirò tutto » 

 
The love song of Alfred Prufrock, T.S.Eliot
 
 
 
Il sole mi colpì il viso svegliandomi, chi cazzo aveva lasciato le persiane aperte? Maledizione!
Avevo un mal di testa allucinante e come al solito non ricordavo un bel niente di ciò che avevo fatto la sera prima.
Sentii il calore di un corpo affianco a me e spostando lo sguardo verso l’altro lato del letto mi accorsi di una minuscola figura raggomitola, nel pieno del sonno. Chi diamine era?
La destai bruscamente e le intimai di andarsene immediatamente, non volevo ulteriori fastidi in questa giornata cominciata già nel peggiore dei modi. Quella non sembrò prenderla molto bene.
« Ma che accidenti ti prende? »
« mmm … », feci finta di pensarci un po’ su, « Credo … forse … nah, niente. Proprio un bel niente. Semplicemente non ti voglio tra i piedi, tutto qui » sfoggiai un finto sorriso a trentadue denti. « Ora smamma, mi stai facendo aumentare il mal di testa ».
« Se avessi saputo che eri così antipatico non ti avrei mai assecondato ieri sera. È proprio vero che siete tutti bravi con le belle parole quando si tratta di abbordare una ragazza » rispose lei mentre raccoglieva i suoi vestiti sparsi per la stanza.
Stavo quasi per rispondere all’istinto di conficcarle una scarpa nel fianco quando, per sua fortuna, si dileguò.
Pensai al casino che dominava la stanza, come se fosse passato un diavolo della Tasmania e cominciai a preoccuparmi delle lamentele di zia che sarebbero arrivate presto, fin troppo presto. Non mi avrebbe nemmeno dato il tempo di smaltire il mal di testa. Diamine, quanto odiavo lei e le sue maledette lamentele da brutta zitella!
Erano già le dieci passate, mi stupiva che ancora non fosse scesa a controllare, quanto tempo ancora avevo?
Pensai subito di svignarmela; fissai la porta d’ingresso: non mi conveniva uscire da lì, l’udito di quella scassa-maroni era anche troppo fine e abituato al cigolio che quella cosa provocava ogni volta. Senza contare che poi già quella ragazza aveva fatto fin troppo rumore per i miei gusti.
Decisi allora che sarei uscito dalla finestra e avrei usato le scale di emergenza. Molto meglio.
Dopo aver controllato che fossero puliti, infilai un paio di jeans che avevo trovato sulla sedia, ci abbinai una maglia a tinta unita e scappai.
 
Stavo crepando dal freddo, nonostante avessi messo cappotto e sciarpa, ma questo era all’ordine del giorno in questa stramaledetta città grigia, cupa e senza vita.
Dire che ero incazzato era un eufemismo.
Odiavo tutto di Seattle, le persone che ci abitavano, il fatto che fossi stato costretto a trasferirmi da quella zitellona abbandonando tutti i sogni che stavo cercando di realizzare in Florida. Odiavo papà perché lui era stato la causa di tutto.
 
Da più di un anno ormai vivevo in questa cupola di rabbia dalla quale non riuscivo a scappare; il primo istinto la mattina era di picchiare qualcuno o spaccare qualcosa, urlare e strafottermene di chi mai avrebbe potuto sentire le mie grida.
E così procedevano le mie giornate senza scopi o mete, girovagavo alla deriva cercando qualche pretesto per arrabbiarmi ancora di più e sfogare la mia ira.
Di sera solitamente ero sempre stanco, ovviamente arrabbiarsi è un’attività complessa che fa perdere molte energie, e finivo sempre in qualche bar a ubriacarmi abbordando occasionalmente qualche ragazza facile.
Pian piano stavo diventando, seppur inconsciamente, tale e quale a quella bestia. Com’era il detto?! “Tale padre tale figlio”. Che fossero maledetti anche quegli stronzi che perdevano il loro tempo a inventare cazzate del genere alle quali poi la gente perdeva tempo ad associare le loro sfortune.
Perdonami mamma se stavo diventando come quel mostro; perdonami se ogni sera mi trasformavo in lui; perdonami e spero tu capisca che non volevo veramente diventare come lui in quella notte che ti aveva uccisa.
 
Non mi sembrava vero fosse passato così tanto da quella buia notte estiva; sembrava così simile alle altre che, quell’anno, si erano susseguite senza nessun evento degno di nota.
Eppure era lì, pronto a installarsi per sempre nella mia mente come se qualcuno lo avesse marchiato con un ferro rovente, quell’evento che mi avrebbe condannato a una vita piena di rabbia.
Sai cosa mi faceva andare avanti, mamma? Non era proprio il tuo ricordo  ̶  quello stava quasi per essere sotterrato sotto la gigantesca mole di ira  ̶  ma il desiderio di vendetta, l’essere convinto che da lì a poco avrei avuto il coraggio di ammazzare quel bastardo che, quella sera, ti aveva sparato a sangue freddo solo per “divertimento”.
Tu non lo immagini nemmeno, vero? Non sai cosa accadde in quei minuti successivi alla tua morte. Lui si accasciò a terra a gambe incrociate, come un bambino, e scoppiò a ridere.
« Ops … guarda Will … guarda cosa ho combinato, l’ho uccisa. Volevo solo divertirmi un po’ … non ce l’avrai mica con me, vero? ».
Il suo alito puzzava di alcol e compresi subito che quello non era l’uomo che avevi tanto amato e difeso, quell’uomo che mi aveva insegnato ad andare sulla tavola da surf. Era la bestia che si liberava, l’animale insensibile e cinico.
La notte, nella mia camera buia, incapace di dormire, sognavo ad occhi aperti il momento in cui avrei visto i suoi occhi spegnersi e la vita abbandonarlo. Desideravo ardentemente sentire le urla dovute all’atroce agonia, volevo vederlo implorare.
 
Quel giorno, dopo aver camminato per un po’, giunsi alla tavola calda dove mi fermavo sempre per fare colazione, il Tower.
Scelsi il solito tavolo e Martha, una cameriera sulla cinquantina, mi si avvicinò subito per versarmi del caffè.
« Oggi ti vedo più strano del solito, giovanotto » mi disse dopo avermi salutato. « cos’altro ti turba? Sai, potresti riuscire a dissotterrare quel sorriso se solo ti facessi aiutare. Mannaggia alla tua testa dura, mannaggia. Ancora non ti decidi a trovare nemmeno un amico? ».
Credo mi avesse preso in simpatia, non so. Chissà come dovevo apparire io agli occhi degli sconosciuti. Ero il ragazzo da compatire o l’ennesimo drogato senza rispetto per gli altri?
Beh, fatto sta che io, invece, apprezzavo veramente Martha: era l’unica persona alla quale, da quando mi ero trasferito dalla cicciona, non avevo mai riservato nessuna parola sgradevole o attacco di collera.
Pensavo che mi sarebbe mancata.
Non ero mica così ingenuo, cosa credi? Sapevo che a vendetta attuata la mia “libertà” sarebbe finita. Non avevo mica intenzione di sottrarmi alla giustizia. D’altronde la vita, da quando mi avevi lasciato, era diventata una solida prigione, ovunque io andassi o mi trovassi non faceva differenza.
 
In quel momento non aveva avuto tanto torto, ero davvero diverso. Forse perché dentro di me avevo acquistato la consapevolezza che era quello il giorno in cui avrei voluto attuare la mia vendetta?
Quando mi ero svegliato, non mi ero sentito strano o altro, ero il solito ragazzo senza speranza che ero stato negli ultimi mesi … quando avevo deciso tutto ciò? Non so dirtelo con precisione.
Certo è che, quando salutai Martha e uscii dalla porta principale, ero risoluto su ciò che avevo intenzione di compiere.
 
Sapevo dove era stato mandato, in un semplice carcere punitivo al confine dello stato dell’Oregon con la California. Da dove mi trovavo ci avrei impiegato qualche ora, lo sapevo già: avevo sperimentato più volte. In quei mesi mi c’ero recato spesso restando, però, ad osservare l’edificio da fuori. Non mi perderò in descrizioni perché non ne vale nemmeno la pena e lo troverei un totale e inutile spreco di tempo.
Non che io impiegassi il mio in qualcosa di realmente costruttivo ma avevo sviluppato l’idea che anche il far niente andava protetto da azioni ancora più futili. A quest’ultima categoria, ora, attribuirei la descrizione di quella prigione.
Perché non ero mai entrato? O meglio, perché mai mi ero azzardato, non una ma più volte, a giungere fin lì se sapevo benissimo che non avrei mai voluto scambiare anche solo un sospiro con quell’animale?
Credo fosse per il viaggio in sé. Ti ricordi vero che amavo viaggiare? Perdermi in riflessioni durante i lunghi tragitti? Beh, questa è una delle poche abitudini che ho conservato; forse l’unica, oserei dire. Peccato che non abbia spesso l’opportunità di viaggiare.
Cosa pensavo mentre mi trovavo in autobus?
Immaginavo lunghi dialoghi tra me e lui, ma non erano insulti, parole piene di odio o rancore, erano parole senza senso, discorsi futili che riguardavano il dettaglio più insignificante. Poi all’improvviso, senza dire nulla, mi alzavo e uscivo da dove ero entrato, come se nulla fosse stato.
Desideravo davvero che una cosa del genere potesse accadere realmente, perché avrebbe significato il raggiungimento dell’atarassia che tanto agognavo. L’assenza di ogni sentimento, bello o brutto che fosse, era una cosa che desideravo così tanto che anche solo la grandezza della mia brama mi faceva pensare che non l’avrei mai raggiunta.
Sai, ci sono quelle cose cui ambisci ma proprio perché le vuoi così fortemente sei consapevole che non le raggiungerei mai. Chiamasi ironia della sorte, scherzi del destino, quello che vuoi, insomma.
 
Così m’incamminai di nuovo verso l’appartamento della zia, non curante del fatto che quello era proprio l’orario in cui il suo essere bisbetica raggiungeva i massimi livelli. Metto in chiaro che ci tornavo solo per recuperare una cosa che avevo lasciato lì ed era indispensabile ai fini della mia missione. In altre condizioni non sarei mai tornato così presto, nemmeno era mai successo.
Quando tornai in camera, la ritrovai nelle stesse identiche condizioni in cui l’avevo lasciata; quella lagna non si era scomodata ad entrare, meglio ancora.
Con non poca fatica riuscii a liberare un po’ di spazio nell’armadio, in modo che potessi raggiungere con la mano uno scompartimento nascosto al suo interno. Lì, molto accuratamente, avevo nascosto la glock 17 che avevo comperato nel momento in cui il desiderio si era installato nella mia mente. Avevo scelto, volontariamente, lo stesso tipo di pistola che lui aveva utilizzato con te.
Dopo averla presa, preparai la borsa, presi i soldi necessari per il biglietto dell’autobus e urlai alla megera che sarei stato via tutto il giorno e che non doveva aspettarmi.
Non glielo avevo mai detto, il motivo per cui lo feci in quel momento è semplice: le avevo rivelato, senza che lei potesse comprenderlo, che molto probabilmente non mi avrebbe più rivisto.
 
Allo stazionamento comprai un biglietto di sola andata e Mike, il bigliettaio che ormai mi conosceva bene, fu quasi tentato di chiedermi perché non avessi chiesto anche quello per il ritorno. Vidi le parole sulla punta della sua lingua ma poi, chissà come, si ricordò del mio essere scontroso e antipatico. Capì che non avrei comunque risposto e conservò il suo lurido fiato da grassone.
 
Senza aspettare oltre, mi diressi verso l’autobus ancora vuoto e mi ci fiondai dentro. Scelsi un posto in mezzo, come mio solito, e mi sedetti con la schiena contro il finestrino e le gambe sul sedile affianco. Non mi preoccupavo di sporcarlo perché tanto era già così zozzo che con ogni probabilità mi sarei insudiciato io i pantaloni.
Non avevo portato con me nulla che avrebbe potuto distrarmi, né un libro né delle cuffie. Mi sarei accontentato di osservare il cielo attraverso il finestrino di fronte.
 
Il cielo era cupo e grigio, come se sospettasse già ciò che avevo intenzione di fare. Era così oscuro che arrivai anche a dubitare del fatto che il sole fosse sorto veramente quel giorno. Non era la prima volta che mi capitava di generare un pensiero simile, d’altronde quella città di merda mi offriva così tante possibilità.
Di nuovo l’ironia del destino aveva fatto la sua comparsa: da quando tu eri morta avevo smesso di vivere seriamente anch’io e così da una città sempre assolata ero arrivato in questo cimitero ambulante. Il fato ci mette sempre il suo zampino, anche se ci ostiniamo a credere il contrario.
 
Le cose cui pensai quel giorno non furono le solite conversazioni immaginarie che avevo con la bestia. No, quel giorno mi riservai pensieri più belli: tu, mamma.
Sapevo che mi avviavo verso la fine del burrone e pensai che per una volta avrei potuto concedermi un pensiero felice, quello cui avevo promesso di non tornare mai con la mente perché, per tutto quel tempo, avevo ingenuamente creduto di poterti fare un torto.
Che sciocco sono stato tutto questo tempo, eh?
Ho sempre pensato solo al mio odio, alla mia ira e con quella ho avvelenato tutta la mia esistenza, non capendo che anche se tu non c’eri più fisicamente io avrei potuto farti tornare in vita tutte le volte che volevo, raggiungendo uno stato mentale migliore di quello che l’imperturbabilità avrebbe potuto donarmi.
Chi è causa del suo mal pianga se stesso.
Ecco un altro dannato proverbio.
Ebbene, non ero stato io la causa originaria, ma avevo comunque continuato ad alimentare il fuoco della rovina che era stato appiccato.
A questa conclusione giunsi solo in quel momento. Ah, se fossi stato un po’ più accorto anche due minuti prima di salire quel bus, forse mi sarei salvato.
 
Ora mi trovo in questo isolato e bianco spazio cui non so assegnare nemmeno un nome. Lo chiamiamo Limbo?
Perfetto. Allora sono in questo limbo e mi lascio andare a questo monologo, ben sapendo che comunque tu non ascolterai nemmeno uno di questi miei pensieri, ancora inutili; così come ogni cosa che mi riguarda da quella sera.
Forse non ne uscirò mai quindi aspetto il momento in cui mi addormenterò anche qui, per sempre, sul serio.
 
Ebbene cosa accadde quando giunsi in quella cittadina sconosciuta il cui nome farò rientrare in quella stessa categoria di cui ti ho parlato poco fa?
M’incamminai senza fretta verso il carcere e la guardia mi rivelò che non potevo presentarmi così, su due piedi, chiedendo di visitare un detenuto. Avrei dovuto richiedere il permesso almeno un paio di giorni prima.
« Non importa », le dissi allora, « lei inoltri ora la richiesta, io aspetterò. Non ho altro da fare ».
La guardia, una ragazza sui venticinque anni  ̶  proprio il tipo che mi sarei fatto se mi fossi trovato in condizioni d’animo migliori  ̶  mi guardò scettica, come se fossi un essere anormale giunto chissà da dove, mi rispose che avrebbe fatto del suo meglio per garantirmi l’entrata quel giorno stesso. Se ne andò subito dopo, lasciando il suo posto a un uomo detentore della faccia più brutta che avessi visto in vita mia.
Nemmeno quella merita una mia descrizione. Forse ho sviluppato un’avversione generale per le suddette, chissà. Forse le ho inserite tutte, inconsciamente, in quella stessa categoria che ora ti nomino per la terza volta.
Questo mi offrì di aspettare nella sala antecedente a quella dei controlli ma io rifiutai, preferivo aspettare di fronte, rivelai. Non avevo voglia di stare rinchiuso in una stanza con un tanfo orribile insieme a tante persone che puzzavo ancora di più, manco fossero corpi in decomposizione.
 
Non so esattamente quanto tempo restai seduto a terra, con la schiena appoggiata a quel muro, ricordo solamente che a un certo punto di quella grigia giornata la ragazza mi raggiunse dall’altro lato della strada per dirmi che sarei potuto entrare, se avessi acconsentito ai dovuti controlli.
 
Ora starai pensando: che diamine c’avevo per la testa se pensavo seriamente di entrare in prigione con una pistola? Era abbastanza ovvio che non me lo avrebbero permesso. Lo avevo sempre saputo, ma avevo comunque deciso di intraprendere quel viaggio.
Sarei tornato nuovamente indietro?
No, non avevo intenzione di farlo. Così come avevo già detto, la zia non doveva aspettarmi.
Dissi alla ragazza che prima avevo urgente bisogno di andare in bagno. « Non voglio rivedere mio padre con i pantaloni che puzzano di piscio ».
Furono queste le squisite parole che utilizzai con la ragazza.
Lei mi guardò disgustata, io provai un macabro senso del divertimento a vedere quella smorfia sul suo grazioso viso.
Dico davvero, me la sarei fatta seduta stante ma, purtroppo, questo non rientrava nei piani.
 
Un’altra guardia, più grande e possente, mi condusse ai bagni. Inutile dire che anche quelli si trovavano in condizioni pietose, come ogni cosa con la quale avevo avuto a che fare quel giorno.
 
Ora mi chiedo quanto tempo è passato, e devo dire che me lo sono chiesto spesso da quando mi trovo qui. Continuo a non aver risposta.
Il punto è che mi sembra che sia stato soltanto ieri il momento in cui mi sedetti col culo su quel water. Lo ricordo vivido nella mia mente.
Eppure contemporaneamente mi sembra che il tempo trascorso qui dentro sia stato lunghissimo.
 
Cosa feci, mamma?
Prima di rivelartelo voglio chiederti per l’ultima volta perdono. Mi perdoni? Solo così potrò davvero addormentarmi. Ci ho tentato, davvero, ma non ci riesco.
Ho provato, inutilmente, su quel water quando presi la glock e mi sparai, senza ulteriori indugi, un colpo alla tempia.
Quindi perdonami, mamma, perché non ho più una pistola con la quale sfogare la mia ira repressa e ho un disperato bisogno di dormire.
   
 
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