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Autore: Ser Balzo    06/09/2015    1 recensioni
Ti hanno detto che la guerra è arte, e che Clove e Dan non potrebbero essere più diversi.
Ti hanno fatto vedere che occorre esercizio, pazienza e una certa dose di estro poetico, e che quella sadica assassina e quello stupido mandriano non sono altro che due patetiche pedine, due profili su una parete scalcinata, miserabili vittime di un gioco ben più grande di loro.
Ti hanno insegnato tutto questo e tu hai imparato. E hai fatto bene.
Fino ad oggi.
Perché i Settantaquattresimi Hunger Games hanno spazzato via tutto, e ora niente ha più importanza. E chiunque tu sia, se un umile pedone, un coraggioso cavallo, un disciplinato alfiere o un'implacabile regina… sai già cosa accadrà, quando ti ritroverai tra il fango e le bombe, a pregare qualunque cosa perché ti rimetta gli intestini nella pancia e ti conceda finalmente l'oblio.
Ora guarda quei due ragazzi, quelle due anime inseguite da eserciti di ombre, braccate da legioni di demoni, e chiediti: qual è la prima regola dell’arte della guerra, la più importante?
Vincere?
Quasi.
Vincere è fondamentale, ma non essenziale.
Dovresti saperlo: prima della regola uno viene la regola zero.
Resta vivo.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clove, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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14. 

Il senso di Rose Martin per le fiamme

 

 

 

“Lately I'm not feeling like myself

When I look into the glass, I see someone else

 

I hardly recognize this face I wear

When I stare into her eyes, I see no one there

 

Lately I'm not feeling like myself”

 

- Lera Lynn, Lately

 

 

 

 

 

C’erano parecchie cose che potevano attirare gli occhi e la mente del tenente Conrad Baeley in quel momento: i prigionieri malridotti che attendevano il loro destino in riga davanti a lui, i cadaveri che giacevano scomposti fra le macerie, sparpagliati qui e lì dagli spiriti della guerra, i suoi uomini che sebbene stanchi morti sorvegliavano dritti e attenti il perimetro… e ovviamente Katniss Everdeen, la Ragazza di Fuoco, sul cui giovane volto era dipinta un’espressione indecifrabile, lo sguardo fisso sul terreno. Ma nonostante tutto lo spettacolo che si stava così generosamente dispiegando davanti a lui, l’unica cosa da cui non riusciva a staccare gli occhi di dosso era il fodero scuro della spada da cerimonia del capitano Aber, che dondolava ritmicamente seguendo i passi del suo proprietario. 

Da bravo abitante della capitale, Scipio Aber aveva una morbosa passione per tutto ciò che era teatrale, sgargiante ed intrinsecamente effimero, che fosse nel modo di comportarsi, di vestirsi o di condurre gli uomini in battaglia; ma, a differenza di altri militari suoi concittadini, bisognava ammettere che il capitano si era tenuto ben al di sotto dello standard capitolino: le uniche modifiche che aveva apportato alla rigida e funzionale uniforme della Fanteria Regolare erano una fascia di seta rossa in vita e, appesa ad una cintura al di sotto di essa, una magnifica sciabola in lega di titanio-diamante. Era un’arma sontuosa, scomoda da usare in battaglia e ridicola da portare in una guerra dove potevano farti scoppiare la testa da mezzo chilometro di distanza; ma, come il tenente Baeley poteva notare dall’accozzaglia di armi bizzarre accatastate ai suoi piedi, il capitano Aber non era certo l’unico a preferire la forma alla sostanza.

«Ordunque» disse il capitano, le mani intrecciate dietro la schiena dritta e lo sguardo altero. «C’è per caso un capo tra di voi? Un rappresentante? Una figura autoritaria? Qualcuno che possa parlare a nome di tutti?»

Il tenente Baeley sospirò mentre si sedeva sui talloni, chiedendosi se il capitano Aber si fosse reso conto che i prigionieri forse non erano tutti dalla stessa parte, visto che li avevano colti a massacrarsi allegramente fra di loro.

«Noi non c’entriamo nulla con loro!» sbottò la ragazza con l’armatura nera. Baeley la osservò con una certa apprensione mentre faceva un passo in avanti, tesa e pronta a colpire. «Il colonnello Rorke…»

A sentire quelle parole, Baeley avvertì un ingranaggio scattare nella sua testa. Aveva già sentito parlare di Aelius Rorke: il Capitol Herald una volta gli aveva dedicato la prima pagina, qualche anno prima. Ma era qualcosa che riguardava i Giochi, se la memoria non lo ingannava; non certo l’arte della guerra.

Anche il capitano Aber parve colpito dalle parole della ragazza. Si avvicinò lentamente, squadrandola da sotto le sopracciglia brizzolate.

«Il colonnello Rorke, hai detto?»

La ragazza gli restituì lo sguardo. «Artemisia De Nor, matricola zero cinque due quattro nove nove. Io e il mio compagno Ares» disse, indicando l’altro ragazzo in armatura «siamo alle dirette dipendenze del colonnello Rorke.»

«Alle dirette dipendenze, eh?» disse il capitano, divertito. «E allora, di grazia, cosa ci fate da queste parti?»

«La nostra missione era creare scompiglio nella flotta ribelle. Dovevamo fare rapporto al generale Lindle, ma il nostro hovercraft è precipitato.»

Il tipo grosso e minaccioso chiamato Ares fece un passo avanti. «Pertanto, signore, siamo pronti a fare rapporto a lei, o a qualunque altro ufficiale lei ritenga adeguato.»

Il capitano li fissò per un lungo istante. «Sia, dunque. Vi scorteremo al Termodromo assieme alla signorina Everdeen e, se la vostra storia corrisponde a verità, farete rapporto e rientrerete in possesso delle vostre armi. Altrimenti… beh, immagino lo sappiate.» La sciabola dell’ufficiale tintinnò mentre si spostava verso gli altri prigionieri. «E voi? Anche voi siete alle dirette dipendenze di qualcuno?»

Baeley notò che il ragazzo alto e moro stava per aprire bocca, ma la donna mulatta con la fascia rossa al braccio lo precedette. «Signore, sono il sergente Ayla Wilkins, Ventiduesimo Fanteria di Linea. Questi uomini sono sotto il mio comando.»

Il capitano Aber si portò davanti a lei, poi fece un mezzo inchino. «Salute a voi, madamigella. Sono desolato di incontrarvi in questo luogo… e in queste condizioni.»

La donna non sembrava aspettarsi un comportamento del genere, perché parve improvvisamente a corto di aria. «Io…»

«Parlate pure, sergente. Non dovete temere nulla.» disse il capitano, affabile.Per un istante, il tenente Baley fu folgorato dal pensiero che il suo ufficiale superiore stesse facendo la corte a quella donna.

Va bene che è capitolino, ma fino a questo punto…

Dovette trattenersi per non scoppiare a ridere. Il capitano Aber e una ribelle: quella sì che sarebbe stata una storia da raccontare.

Che poi, ad essere sinceri, non è che ci sia tutto questo granché da corteggiare. Passabile, senza dubbio, ma certo neanche lontanamente paragonabile…

Improvvisamente, il tenente Baeley si rese conto del luogo bizzarro e inconsueto nel quale i suoi pensieri l’avevano condotto. Distolse lo sguardo dalla donna e lasciò che vagasse fra le rovine fumanti, mentre uno strano senso di vergogna continuava a fermentare nel suo stomaco.

Nel frattempo, la soldatessa era riuscita a riprendere il controllo di se’. «Vorrei soltanto sapere cosa ci aspetta… signore.»

«Oh beh, è presto detto» fece il capitano, cordiale. «Il comando ha dato ordine di portare Katniss Everdeen al Termodromo, qui vicino. Se non vi dispiace, sergente, voi e i vostri uomini la accompagnerete, come nostri graditi ospiti, finché non sarete affidati alle cure delle autorità competenti e, ahimè, toccherà salutarci.» Le labbra dell’ufficiale si dischiusero in un elegante sorriso. «È tutto chiaro, mia cara?»

Gli occhi del sergente Ayla Wilkins evitarono accuratamente di incrociare quelli del capitano. «Io… certo… sì…»

«Bene, sono lieto di saperlo!» Con un secco colpo di reni, l’uomo fece dietro front esibendosi in una piroetta impeccabile. «Tenente, li faccia muovere! Compagnia… in marcia!»

Conrad Baeley si alzò stancamente, facendo scrocchiare le ginocchia. A pieno organico, una Compagnia di fanteria era composta da tre plotoni, ognuno di una cinquantina di uomini e comandato da un tenente; al momento, la gloriosa Terza Compagnia, Ventiduesimo Reggimento, Quinta divisione, Terzo Corpo d’Armata del formidabile Esercito Regolare della Federazione di Panem si componeva di quindici uomini e sette donne, di cui due ufficiali: tutti quelli che erano riusciti a trascinarsi via dal mattatoio in cui si era trasformato il campo base sulla scogliera. 

Era pertanto ovvio che il capitano non avesse alcun bisogno di aiuto per far sì che i suoi ordini venissero trasmessi alla truppa; ma, come lui stesso amava ripetere alla vista di un’uniforme macchiata durante un’ispezione, “l’ordine, la disciplina e l'esser galantuomini sono le uniche cose che ci distinguono dalle bestie selvagge”.

«Forza ragazzi, avete sentito il capitano» borbottò Baeley «Ci muoviamo.» Si mise il fucile a tracolla e soffocò uno sbadiglio. «I prigionieri in fila per due, ognuno sorvegliato; la signorina Everdeen in testa alla fila, cinque metri più avanti, quattro per lei; Ortez, Leedo, voi aprite; Forrest, Donovan, a voi la retroguardia. Tutto chiaro?»

«Signore» fece uno degli uomini. «Cosa facciamo di lei?»
Legata ad un palo della luce c'era un'altra ragazza in armatura. «Non possiamo permetterci il lusso di seppellire i morti» fece il tenente. «Lasciatela lì.»
«Non è morta. È ancora viva.»
A parlare era stata la soldatessa con il vestito a fiori. Quando l'aveva vista, Baeley si era chiesto come potessero ritenere di essere dalla parte del giusto delle persone che mandavano dei ragazzini a combattere in prima linea.
«È una tua amica?» chiese. Senza essersene reso conto, aveva assunto il tono di chi parla ad un bambino che ha smarrito la madre. Evidentemente, la sua mente non riusciva a riconoscerla come un soldato nemico.
La ragazzina lo fissò con i suoi grandi occhi azzurri. «No. Ma è una mia paziente.»
«Sei... un medico?»
«Faccio quello che posso con quello che ho.»
Baeley distolse lo sguardo, profondamente a disagio. C'era qualcosa in quella ragazzina, in quel suo vestito strappato, quel suo elmetto e quei suoi occhi gelidi che lo facevano sentire parte di qualcosa di terrificantemente sbagliato, illogico, amorale.
«Allora forse potrai esserci utile. Abbiamo due feriti, ma non sappiamo come curarli.»
La ragazza annuì. «Vedrò che posso fare.»
«Bene.» Baeley si incamminò verso il soldato che gli aveva fatto notare la ragazza svenuta, lieto aver concluso la discussione. «Slegala, Simmons. La portiamo con noi.»

 

Il Termodromo non distava che un paio di chilometri dalla loro posizione; ma la geografia della città era stata completamente stravolta dai bombardamenti ribelli e dall’artiglieria capitolina, e delle strade e dei palazzi segnati sulle mappe tattiche rimaneva ben poco. Tutto si era trasformato in un labirinto desolante, intricato e pericoloso.

La Terza Compagnia si muoveva a fatica, intralciata dai detriti e dal passo lento dei prigionieri. Gli stivali del tenente Baeley scivolavano sui calcinacci, e più di una volta l’uomo rischiò di cadere.

«È un bel giorno per la nostra brava nazione» fece il capitano Aber soddisfatto, come se si trovasse ad un pic-nic invece che in una città sventrata dalla guerra.

«Panem per Sempre, signore» mormorò in risposta Baeley, più sarcastico di quanto avrebbe voluto .

«Suvvia tenente!» lo redarguì bonariamente il capitano. «È stata una mattinata faticosa, ma ora abbiamo tra le mani la chiave della guerra. Katniss Everdeen!» Il capitano ne esclamò il nome in una perfetta imitazione di Cesar Flickerman. «Ah, i ribelli hanno i giorni contati…»

Baeley non ne era così sicuro, ma non aveva alcuna intenzione di dirlo al capitano. Perché esprimere quel pensiero a voce alta lo avrebbe reso reale più di quanto già non fosse.

Il capitano intuì i pensieri del suo sottoposto. «Questi straccioni mordono, non c’è che dire» disse, sicuro di se’. «Ma finché avremo la potenza del Distretto Due e la guida illuminata del Presidente, la vittoria finale sarà inevitabile!»

Il sole era quasi tramontato quando la compagnia vide finalmente la grossa cupola del Termodromo fare capolino tra le sagome irregolari dei palazzi in rovina.

«Bene, figlioli, siamo quasi arrivati!» esclamò allegro il capitano Aber. «Ancora un poco e avrete cibo e riposo: ve lo siete più che meritato.»

Nessuno, però, sembrava condividere la gioia dell’ufficiale: via via che la massiccia sagoma si faceva più grande, infatti, gli spari e le esplosioni aumentavano di intensità. Il tenente Baley colse due soldati scambiarsi occhiate preoccupate; avrebbe voluto tirarli su di morale, ma in cuor suo sapeva di non poterlo fare.

Era ormai evidente: intorno al Termodromo si stava svolgendo una violenta battaglia.

I botti dell’artiglieria facevano ormai tremare i detriti più piccoli sul terreno. Quando un proiettile di mortaio si schiantò alle spalle della compagnia, fin troppo vicino anche per le ferventi illusioni del capitano, la colonna ebbe ordine di fermarsi.

Aber si guardò intorno con aria fosca. «Temo che la strada fino al Termodromo non sarà così semplice» mormorò. «Tenente, prenda due uomini e vada in avanscoperta: voglio sapere cosa ci aspetta.»

Baeley fece un cenno d’assenso. «Simmons, Thorne, con me.» Un uomo e una donna si staccarono dal gruppo e gli vennero stancamente incontro. «Quell’edificio mi sembra un buon punto d’osservazione» disse, indicando un complesso alto e squadrato quasi completamente integro. «Vediamo se riusciamo a salire.» Con un gesto fluido, imbracciò il fucile. «Mi raccomando, state bassi e occhi aperti: è proprio quando sei tranquillo che cominciano i guai.»

 

A giudicare dai macchinari semidistrutti e coperti di biancastra polvere di cemento, l’edificio doveva essere una qualche sorta di impianto di produzione industriale.

In ogni caso, ci vorrà un bel po’ prima che qualcuno qui ricominci a inscatolare aringhe.

I vetri delle grandi finestre crocchiavano sotto i piedi dell’avanguardia della Terza Compagnia; probabilmente erano state le prime cose a cadere, in quel posto. Da fuori, il bagliore sanguigno del tramonto e delle esplosioni gettava all’interno una luce fosca e sovrannaturale.

Baeley ispezionò il locale cavernoso: una scala di metallo si arrampicava su un fianco della fabbrica, aprendosi in tre piani di rampe e correndo a zig zag fino al soffitto.

«Lassù» indicò. «Se siamo fortunati, il tetto è ancora raggiungibile.»

Al termine delle scale, un grosso catenaccio arrugginito bloccava l’accesso al loro punto di osservazione. Baley lo spezzò con il calcio del fucile e spinse la pesante porta, che si lasciò aprire non senza una malinconica e dolorosa protesta.

I raggi del sole costrinsero per un attimo il tenente a schermarsi il volto. Fece qualche passo in avanti, ma non appena fu all’esterno una violenta folata di aria calda lo travolse, facendolo barcollare.

Con un gemito acuto, un hovercraft d’assalto passò a tutta velocità sopra la sua testa. Il velivolo si tuffò in picchiata, sganciò un paio di missili e poi risalì in alto con una vertiginosa cabrata, sfiorando pericolosamente la sommità di una torre di comunicazione e lasciandosi alle spalle due grosse esplosioni.

Baley era salito fin lassù per dare un’occhiata alle vicinanze, ma per qualche istante dimenticò quale fosse la sua missione. Dinanzi ai suoi occhi, la battaglia per il Distretto Quattro si stagliava in tutta la sua terrificante gloria.

In fondo alla sua destra, ad Ovest, il sole al tramonto si inabissava nelle acque dell’oceano, infiammando le creste delle onde. Poco più avanti, una nube di polvere e fumo avvolgeva ancora la scogliera e il campo base della Terza Armata. Poi la città, i bianchi edifici, le rovine e le fiamme, tutto a comporre un terrificante, maestoso paesaggio.

«Signore» disse la soldatessa Thorne. «Il Termodromo…»

Baeley si voltò, ancora turbato per la visione di un’intera città in guerra. Non ebbe tempo di riprendere fiato: un altro spettacolo gli si parava davanti, facendo sembrare quello che aveva appena ammirato scialbo e insignificante.

La cupola del Termodromo dominava la scena, colpita in più punti ma ancora integra. Alla sua ombra, spiccando come neve in un letto di carbone, le file bianche della Fanteria Regolare avvampavano ogni volta che una devastante raffica si abbatteva sui nemici, una massa scomposta e brulicante che sbucava da ogni luogo, circondando le posizioni capitoline.

Un improvviso moto d’orgoglio si accese nel cuore del tenente alla vista dei suoi commilitoni che affrontavano la battaglia con tanto sangue freddo, ma altrettanto rapidamente si rese conto che l’esito dello scontro era ormai già deciso.

Baeley sapeva che il numero degli abitanti dei Distretti ribelli superava di gran lunga quello della capitale e dei distretti ricchi; ma quello che circondava il Termodromo non era un esercito. Era un’invasione inarrestabile, uno stormo diabolico di cavallette, un’onda anomala talmente alta da oscurare il sole: contro un simile numero, spinto da una simile rabbia, non c’era disciplina che potesse tenere.

Nessuno dei tre soldati parlò. Rimasero immobili, muti e sgomenti, mentre le linee bianche si assottigliavano sempre di più e venivano infine travolte da quell’infinita marea sporca, delirante e senza pietà.

 

«Qui è il capitano Aber, Ventiduesimo Fanteria, codice di identificazione alfa-zero-delta-sei. C’è qualche galantuomo che gentilmente può rispondermi?» 

I frusciare statico della radio fu l’unica cosa che il capitano ricevette in risposta. «C’è nessuno? Mi sentite? Oh, per la miseria, Darnell!» esclamò, rivolto al soldato che si occupava della radio da campo. «Perché questo marchingegno non funziona?»

«È Daniell, signore…»

«Daniell? Che sia dannato, vile furfante! Tagliare in modo così proditorio le linee di comunicazione…»

«…no, signore, Daniell sono io.»

«Che cosa?» Il capitano Aber squadrò il giovane soldato. «Figliolo, state cercando per caso di prendervi gioco di me?»

«No, certo che no, signore…»

«E allora cosa farfugliate, in nome del Presidente?»

«…è che mi chiamo Daniell, signore, non Darnell. Il nome… insomma…»

L’ufficiale rimase qualche istante in silenzio, interdetto, poi finalmente parve capire. «Oh, certo, il nome! Certamente, sì. Ma ora basta perdervi in chiacchiere, Darnell, e fate funzionare quell’affare!» Posò una mano sull’elsa della spada, assumendo un’aria tronfia e soddisfatta. «Il Termodromo dev’essere avvertito del nostro arrivo. Casomai il generale Lindle volesse congratularsi di persona…»

«Temo dovremo aspettare per quello, signore.»

Il capitano si voltò, sorpreso. «Ah, tenente, siete voi. Ebbene, che accade? Ci sono forse degli inconvenienti?»

Il volto di Baeley non dava luogo a fraintendimenti. «Il Termodromo è caduto, signore» disse senza mezzi termini. «E con esso molto probabilmente anche il resto della città.» 

«Oh, per tutti i numi» ribatté il capitano, con l’aplomb di chi ha scoperto che il suo ristorante preferito ha appena terminato le tartine al caviale. «Occorre un nuovo piano, dunque.»

«La fabbrica nel quale sono stato è ancora sufficientemente integra, signore» suggerì Baeley. «Potremmo passare lì la notte e poi decidere il da farsi.»

«Sì» mormorò il capitano. «Sì, faremo così. Bene, tenente, ci guidi alla fabbrica: noi la seguiremo.»

 

«Sono deluso, Clove. I morti non tornano, e i saluti vanno ricambiati.»

Rorke era lì, in piedi dietro la sua scrivania. Questa volta, però, non sorrideva.

«Ma io l’ho fatto!» replicò lei con veemenza.

«Il tuo amico, qui, sembra non essere d’accordo» replicò Rorke, gelido e compunto, indicando con un cenno della mano Cato, dritto sull’attenti come un bravo soldatino.

«Signorsì signore!» esclamò il ragazzo, lo sguardo che fissava intensamente qualcosa qualche centimetro sopra la testa di Clove. «I morti non tornano, e arrivano sempre per ultimi!»

«Voi non capite!» strillò lei, scattando in piedi. «Guardate qui, ho le prove!»

Una cartelletta portadocumenti volò sul tavolo di Rorke. L’uomo si chinò ad osservarla, la aprì, guardò per qualche istante il contenuto e  scoppiò a ridere. 

«Sapevo che eri una perdente, Clove, ma non fino a questo punto!»

Lei si avvicinò alla scrivania, furente. Ma invece del rapporto dettagliato della missione in cui spiegava come era riuscita a vincere la guerra uccidendo Artemisia, c’era un un unico foglio bruciacchiato sul qualche qualche stupida bambina aveva disegnato un grosso, sgraziato sole giallo.

«Oh cielo, è davvero disgustoso» disse Katniss Everdeen, proprio dietro le sue spalle. Lei si girò di scatto, portando la mano alla cintura; le dita, però, strinsero il vuoto.

Ma dove aveva la testa? Aveva ceduto tutti i suoi coltelli a Cato, in cambio di un cucciolo di cane. E quel miserabile aveva finito per regalarli tutti a Rose Martin!

«Ti odio, Rose Martin!» gridò, avventandosi su Katniss Everdeen.

«Niente Giochi, quest’anno» rispose la ragazza, sprezzante. Poi prese fuoco.

Lei balzò all’indietro, le braccia ormai completamente avvolte dalle fiamme.

«Rose Martin!» gridò di nuovo, mentre il fuoco avanzava inesorabile, bruciandole la carne e divorandole le ossa. «Rose Martin!»

«ROSE MARTIN!»

«TI ODIO, ROSE MARTIN!»

 

Le tenebre erano ormai calate sulla martoriata capitale del Distretto Quattro. Gli spari e le cannonate si erano fatti sempre più radi, fino a scomparire quasi del tutto. Quando Clove rinvenne, il silenzio era praticamente completo.

Sbatté rapidamente le palpebre, mentre il suo campo visivo si faceva sempre più nitido. Davanti a lei, un alto soffitto si stendeva immenso e cavernoso. Era sdraiata a terra, e alla sua sinistra avvertiva una fonte di luce. Qualcuno stava parlando. Una voce di giovane donna.

Katniss Everdeen!

Cercò di gridare, ma riuscì ad emettere soltanto un mugolio strozzato. Improvvisamente, si rese conto di avere la bocca asciutta e la gola riarsa. Aveva sete. Dannatamente sete.

«Già sveglia? Non credevo avresti aperto gli occhi prima di domani.»

Clove voltò la tesa, facendo scrocchiare il collo indolenzito.

Una ragazzina con un vestito a fiori la stava osservando. Era seduta accanto ad una lampada da campo, con le mani appoggiate sui polpacci nudi sporchi ed escoriati. Indossava un vestito a fiori e un elmetto troppo grande per la sua testa. 

«Se aspetti… un attimo… ti faccio vedere un altro paio di cosette» biascicò Clove con voce roca, fallendo miseramente nel tentativo di sembrare spavalda.

La giovane non rispose. La luce della lampada illuminava i suoi occhi azzurri, che la squadravano con compassato distacco. Occhi stanchi. Occhi indifferenti.

Occhi vecchi.

Clove deglutì, mentre la stessa sensazione che l’aveva colpita nell’ufficio di Rorke le pizzicava la nuca.

«Ti ho pulito e medicato le ferite» disse la ragazzina, compunta e formale. Tutto in lei strideva e cozzava: era come se una bambina innocente e una implacabile guerriera fossero costrette a condividere lo stesso corpo. «Non credo di aver fatto un buon lavoro, ma questo è quello che hai a disposizione al momento.» Si alzò in piedi, stappando una borraccia e avvicinandola alla bocca della sua paziente. 

Per qualche istante Clove meditò se rifiutare l’acqua, ma la sete era troppa. Prima che potesse rendersene conto, aveva sollevato la testa e stava bevendo rumorosamente e senza ritegno.

«Piano, o ti prenderà un colpo» disse la ragazzina, sottraendo la borraccia alle sue labbra assetate. «Sei una resistente, non c’è che dire. Ma vista la placca di acciaio che ti hanno messo in testa non c’è poi molto da stupirsene.»

«...placca?» borbottò Clove, ansimante per la bevuta vorace.

«Certo» ribattè la ragazza. «Altrimenti non vedo come saresti potuta sopravvivere quando Dan ti ha sparato.»

Dan.

Dunque era così che si chiamava il giovane biondo che sembrava avercela così tanto con lei.

Dan... che diavolo vuoi da me?

Non che le importasse poi molto. Si era messo contro di lei. Aveva cercato di ucciderla. Aveva fallito. 

Pessima mossa.

Nel frattempo la ragazzina si era avvicinata di nuovo a lei, questa volta stringendo tra le mani una barretta di multienergetico concentrato. Clove addentò un boccone generoso, masticò rumorosamente e mandò giù con gran soddisfazione. Poi però, qualcosa parve accendersi nella sua mente.

«Se cerchi di impietosirmi...» ringhiò all’indirizzo di colei che la stava nutrendo. Era una frase terribilmente ridicola da dire vista la sua posizione, ma a lei non importava.

Lo sguardo della ragazzina si fece di ghiaccio. «Non voglio niente da te. Faccio solo il mio dovere.»

«Ma che bravo soldatino» ribatté lei con stupida veemenza. Il bruciore delle ferite stava cominciando a farsi strada in tutto il suo corpo, e il fatto di essere lì a terra, senza alcun controllo della situazione, le faceva ribollire il sangue.

La ragazzina rimase qualche istante in silenzio. Poi avvicinò il suo volto a quello di Clove, fin quasi a sfiorarla.

«Potrei tagliarti la gola prima che tu possa gridare aiuto, e anche se ci riuscissi nessuno farebbe poi molto per salvarti. Perciò stai zitta, e sarà meglio per entrambe.»

Clove respirò profondamente con il naso, pronta a rispondere a muso duro a quella stupida mocciosa. Ma quando aprì la bocca, nessuna parola al vetriolo si precipitò fuori. Solo aria. Aria e vuoto.

«Si è svegliata?»

Il volto della ragazzina si tolse dalla sua visuale, e Clove vide un ufficiale dell’Esercito Regolare dall’aria stanca avanzare con incedere lento e pesante verso di loro. Per un minuscolo, delirante attimo, Clove fu grata all’uomo per averla tolta d’impaccio da uno scontro verbale che l’aveva messa con le spalle al muro.

Piantala, cretina! Una volta che ti sarai ripresa, caverai quei begli occhietti azzurri a quella insopportabile bambinetta e le dimostrerai che solo tu hai il diritto di avere l’ultima parola.

Appagata da quell’immagine truculenta, Clove si adagiò sulla barella sulla quale era stata messa.

«I tuoi compari stanno mangiando» stava dicendo intanto l’ufficiale. «È tempo che tu vada.»

«Sì, ho appena finito di sistemarla» rispose la ragazzina, accennando a Clove. «Arrivo subito.»

L’uomo lanciò uno sguardo imperscrutabile a Clove, poi fece dietro front e si diresse verso il falò. Due soldati, che fino a quel momento erano stati alle sue spalle, comparvero improvvisamente nel suo campo visivo e si posizionarono ai fianchi della ragazzina, con l’intenzione di scortarla via. Dopo qualche passo, la voce arrochita di Clove la raggiunse.

«Rose Martin.»

L’acerba soldatessa si bloccò, fulminata. Lentamente, si girò verso Clove. Il suo sguardo era di furente disprezzo. Strinse i piccoli pugni sui fianchi, e si avviò a rapide falcate verso la ragazza ferita, seguita a ruota dai due militari in divisa bianca.

«Non osare anche solo pronunciare...»

«…chi è Rose Martin?»

Dana si bloccò di nuovo. Questa volta, però, sul suo volto era dipinta la più completa sorpresa.

Per qualche istante, tra le due non ci fu altro che silenzio.

«Davvero non lo sai?» mormorò infine la ragazzina.

«No, o mi risparmierei di abbassarmi a chiedertelo» sputò Clove con un ringhio.

Sul volto di Dana passarono spettri di diverse emozioni. Incredulità, rabbia, sconforto, pena.

«Era sua sorella.»

La bocca di Clove si accartocciò in un ghigno sarcastico. «E cosa dovrei c’entrare io con una stupida...»

«L’hai ammazzata.»

La frase di Clove rimase lì, troncata a metà.

Uccisa?
Dana osservò con disprezzo la confusione sul suo volto. «Già. Non ti è mai servito sapere il suo nome.»

Ancora una volta, Clove non seppe cosa rispondere. La ragazzina la guardò per un ultimo istante, poi si allontanò finalmente da lei, diretta verso il tepore del fuoco e la soddisfazione di un pasto caldo, per quanto severamente controllato. Clove osservò l’elmetto sproporzionato ballonzolare sopra la sua testa, la mente confusa.

Non capiva. Prima di quel giorno, non aveva avuto occasione di uccidere qualcuno.

A parte quei tre stupidi idioti il giorno in cui ho incontrato... Pavlov.

Chi era Rose Martin? Quel ragazzo non aveva esitato quando l’aveva vista: era passato dall’incredulità all’odio bruciante in un istante. 

Sapeva chi ero. Lo sapeva benissimo.

Ma come faceva a conoscerlo così bene, mentre lei non aveva idea di chi fosse? In quale occasione si sarebbe mai potuta verificare una cosa del...

...oh.

Clove si sentì terrificantemente stupida. Era palese, lampante, ottusamente ovvio.

Aveva finalmente capito.

Ora sapeva dove aveva ucciso Rose Martin.

Che la fortuna sia sempre a vostro favore.

Nello stesso luogo dove avevano ucciso lei.

 

Gale era intento ad aprire la sua lattina di concentrato proteico quando Johanna esplose in un roboante colpo di tosse. Il contenitore sobbalzò violentemente fra le sue mani e per poco non si versò tutta la cena addosso. 

«Ma porca merda, questa roba fa schifo» abbaiò la ragazza con il suo solito tatto, fissando con disgusto la brodaglia biancastra contenuta nella sua lattina. «E io che credevo che il cibo della mensa al Distretto Tredici fosse terrificante.»

«È pur sempre cibo» rispose Penelope O’Brian.

«Un cibo senza sapore» borbottò in risposta la ragazza.

«Meglio niente sapore che un sapore orribile» sentenziò Penelope. «Hai mai sentito parlare delle tarme dei cingoli?»

«…no?» rispose Johanna, sarcastica.

«Sono dei grossi insetti pigri e lucidi. Si nutrono della gomma degli pneumatici e dell’olio motore. Sono pieni di proteine, ma ti sembra di mangiare una vecchia ruota immersa nel petrolio. Non è il massimo.»

Johanna la guardò disgustata. «Davvero li hai mangiati?»

«Sono un ottimo spuntino per rinvigorirti durante i turni pesanti. Alcuni li portano a casa e li bollono. Non che ci sia altra alternativa» aggiunse la giovane soldatessa.

«Ma che schifo

«E non hai mai mangiato un vermebuco» sentenziò Gale. «Quelli che fanno schifo.»

«Oh, piantatela!» esclamò Johanna. «Mi fate vomitare, cazzo.»

«Sembra proprio che gli anni da vincitrice ti abbiano rammollita» disse Gale, con l’intento di fare dello spirito. Ma appena quelle parole ebbero lasciato la sua bocca si rese conto di aver parlato con troppa leggerezza.

L’espressione di Johanna cambiò con la velocità del lampo. I lineamenti si irrigidirono, lo sguardo si fece di pietra, la bocca divenne una minuscola fessura.

«Tu non sai nulla di quegli anni, Gale Hawthorne.»

Il silenzio scese attorno al fuoco da campo improvvisato. Gale aprì la bocca diverse cose, poi gettò la spugna e affogò il suo sguardo nel concentrato di proteine.

«Se non altro ci hanno lasciato accendere un fuoco… e non sembrano molto interessati a sorvegliarci strettamente» disse Lee dopo un po’. Si guardò intorno, prima di continuare. «Per la verità, me li aspettavo decisamente più cattivi.»

«Sono soldati come noi» disse Ayla, che fino a quel momento era rimasta in silenzio. «Fanno il loro dovere… almeno credo.»

«Che si fottano» berciò Johanna. «Io non combatterei mai per quel bastardo di Snow.»

«Alcuni di loro potrebbero dirti che non combatterebbero mai per il Presidente Coin» replicò il sergente. «Forse per loro Panem è il male minore.»

Johanna la squadrò sorpresa. «Li stai forse difendendo?» 

«Io non difendo niente e nessuno» rispose la donna. Gettò un pezzo di carta sudicia e appallottolata nel fuoco. 

Riesco a malapena a difendere me stessa.

«Beh, in ogni caso» disse Lee, guardandosi di nuovo intorno per sincerarsi che nessuno dei loro carcerieri fosse in ascolto. «Meglio soli che male accompagnati.»

«Che intendi?» disse Gale, gettando un’occhiata alle spalle del ragazzo.

«Penso che non sarebbe male se avessimo… un piano. Del tipo “prendi la ragazza e scappa”, non so se mi spiego.»

Ayla si permise una fugace occhiata alla sua sinistra, dove, accanto al secondo fuoco, Katniss Everdeen era strettamente sorvegliata da quattro soldati. «Lee ha ragione. Dobbiamo essere pronti ad approfittare di qualunque occasione ci si presenti.»

«Bene. Noi siamo otto, quindi…» Lee si interruppe, fissando qualcosa al di sopra della spalla di Ayla.

Il sergente si girò, temendo che fossero stati scoperti. Il cenno che Dana le rivolse le diede più sollievo di quanto avrebbe immaginato.

La ragazzina si sedette a terra. «Ho una fame tremenda. È rimasto qualcosa?»

Ayla le porse una lattina. «Tieni, te l’abbiamo tenuta da parte.»

Dana fece un cenno di ringraziamento, prese la lattina e cominciò a mangiare il concentrato usando la mano come un rudimentale cucchiaio.

«Questa roba fa schifo» disse, fra un boccone e l’altro. «Ma sempre meglio di un vermebuco…»

Johanna guardò lei, poi Gale, poi di nuovo lei. «Voi del Dodici siete proprio dei cazzo di soggetti.»

«Com’è andata?» chiese Lee alla ragazzina. «Voglio dire, i feriti e tutto il resto…»

«I loro non ce la faranno» rispose la ragazza, con una freddezza che spiazzò tutti. «Lei invece sì.»

«Lei?» chiese Lee, perplesso. «Intendi…»

«…Clove.»

Tutti si girarono verso colui che aveva concluso la frase. Dan sedeva in disparte, appoggiato ad un grosso schedario arrugginito. Nella penombra, i suoi occhi scintillavano in modo inquietante.

«…sì» mormorò Dana. Ayla fu sorpresa nel sentire la voce della ragazzina prima tanto sicura incrinarsi improvvisamente.

Non sono l’unica che gioca ad essere più forte di quello che è.

«È in grado di muoversi?»

La voce di Dan era un sussurro roco: sembrava provenire dritta dall’oltretomba.

«È… stabile. Non ho mai visto nessuno guarire così in fretta.»

«Già.»

Nessuno parlava. Ayla cercò di dire qualcosa, nel tentativo di distrarre i presenti come aveva fatto Lee prima, ma non riusciva a staccare gli occhi da quelli di Dan. Quel ragazzo le aveva salvato la vita, eppure adesso non riusciva a trattenere un brivido di paura.

Ti prego, fa’ che questa guerra finisca presto.

«Dan…» Dana sembrava provare la stessa pena del sergente nel cercare di tirare fuori le parole dalla gola. «Lei… ha chiesto di Rose.»

Ayla poté sentire il cuore del ragazzo mancare un battito. 

«Che cosa?»

Non era una voce umana, quella. Non poteva esserlo. Era rabbia, pura e semplice furia omicida.

Dana deglutì, cercando di trattenere le lacrime. «Dan… non aveva idea di chi fosse.»

Il ragazzo non rispose. Ayla ebbe l’impressione che tutta l’aria fosse stata appena risucchiata fuori da quella fabbrica fantasma.

«Già. Non ha mai avuto bisogno di saperlo.» La figura di Dan si stese a terra. «Credo che riposerò, adesso. Dovreste fare lo stesso.»

«Dan…»

«Buonanotte, Dana.»

Rimasero in silenzio, ascoltando i borbottii dei soldati e il rumore del loro respiro. Alla fine, Dana passò la lattina vuota ad Ayla. «Grazie, sergente» disse, recuperando il tono neutro che le era tanto familiare.  

Ayla abbozzò un sorriso storto. «Non c’è di che.» La guardò per un istante, cercando di entrare nella sua testa, fra quelle martoriate regioni mentali di innocenza infranta. «Sai che puoi chiamarmi Ayla, vero?»

«Sì, sergente.»

La donna esitò. «Ma se preferisci sergente, non c’è pro…»

«Un sergente che muore fa parte della guerra. Se muore Ayla, invece, è diverso.»

Ayla aprì la bocca, ma non aveva la minima idea di cosa dire. «Io…»

«Non voglio che Ayla muoia, sergente.»

La donna deglutì, impotente. «Neanche io, Dana. Neanche io.»

«Bene. Buonanotte, sergente.»

«Buonanotte.»

Le due soldatesse si sdraiarono sul pavimento, seguendo l’esempio di Dan. Gale e Johanna li seguirono subito dopo, e in breve il suono dei loro pesanti respiri si unì al crepitare delle fiamme morenti. Mentre chi poteva dormiva, il sergente Ayla Wilkins rimase immobile, gli occhi persi nel vuoto, a chiedersi da quanto tempo ormai mentire fosse diventato per lei semplice come respirare.

 

Questa volta non c’era nessuna palude, nessun tronco ricurvo e nessun cielo marcio. Il sole illuminava tiepido una radura erbosa, al centro della quale si trovava una curiosa struttura a forma di corno. Una ragazza gli dava le spalle, la lunga coda di capelli scuri agitata pigramente dal vento. Era lei. Era l’assassina.

Dan avanzava di soppiatto verso di lei, stringendo in mano una scheggia di vetro. I bordi taglienti dell'arma improvvisata gli ferivano le mani, ma doveva tenere a bada il dolore: sapeva bene che nessuno dei due sarebbe sopravvissuto se l’altro non fosse morto. Doveva farlo, non c’era altro modo. 

La ragazza continuava a rimanere immobile. Dan gettò all’aria ogni prudenza, si lanciò in avanti e la girò bruscamente, infilzandola con il pezzo di vetro affilato.

E mentre il sangue caldo della ragazza gli inzuppava la mano, unendosi con quello delle sue ferite, Dan si rese conto di aver sbagliato bersaglio.

«Non funziona così, Danny» disse Rose, la voce stranamente calma e profonda nonostante il rivolo di sangue che le fuoriusciva dalla bocca. «Io sono già lì.»

Dan indietreggiò, terrorizzato. «Come sempre, prima le femminucce!» esclamò Rose, allegra; poi ondeggiò di lato e stramazzò al suolo, morta stecchita.

Dan cadde in ginocchio. Gli occhi di Rose lo stavano fissando, ma non erano più quelli di sua sorella. 

L’assassina, la Favorita del Distretto Due di nome Clove, lo guardò con aria divertita. 

«Che c’è, Danyl Martin, vuoi uccidere anche me?»

«No!» 

Dan si lanciò su di lei. Voleva chiederle scusa, era così mortificato per quell’increscioso incidente. «Non volevo, non volevo!» gridò, sollevando il corpo morto di Clove. «È tutto sbagliato, tutto… nessuno doveva morire, non era nei piani, non era previsto…»

Un colpo di cannone, e il prato prese fuoco. La struttura a forma di corno si sciolse in un lago sfrigolante di metallo fuso, mentre le fiamme divoravano tutta la radura.

Dan sentì il fuoco mordergli i vestiti, salirgli sulla schiena, pizzicargli il viso. Poi, mentre tutto stava per scomparire in un accecante vortice di fiamme e luce, la ragazza gli sorrise.

«Non preoccuparti, Dan. Dovunque tu andrai, ci sarò anche io.»























 

 

 

 

 

L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Le vacanze sono finite, la scuola ricomincia, la sessione di settembre spalanca le sue mefitiche fauci... e il vostro amichevole Ser Balzo di quartiere ritorna alla carica con la sua gente psicolabile e le sue avventure presuntuose. Ci eravamo lasciati un po' (sempre troppo) tempo fa con i nostri eroi catturati dal vile nemico, in un perfetto ZAN ZAN ZAAAAN da fine puntata: un nemico talmente vile e terribile che è composto da una ventina di uomini stanchi morti guidati da un tipo uscito direttamente dal secolo decimo ottavo ("messieurs les anglais, tirez les premieres!") e da un tenente costantemente in lotta contro la propria disillusione. I nostri sembrano poter tirare un attimo un sospiro di sollievo, dunque, anche se la loro situazione non è certo delle più rosee. Ce la faranno i nostri? Cosa accadrà? E soprattutto, la pianteranno Dan e Clove di fare sogni carini e coordinati dove tutti prendono improvvisamente fuoco?
Le domande sono parecchie, le risposte sembrano farsi attendere (principalmente perché sono un miserabile scribacchiatore lento, e poi perché se no dove la mettiamo la saspens): la strada per Capitol è ancora lunga, ma la partenza è ormai sparita dietro la curva. Avete ancora le cinture allacciate? Bene, continuate a tenerle strette: la battaglia per Panem è più furibonda che mai.
Al prossimo capitolo dunque, tante care cose e alla prossima!


 

 
  
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