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Autore: Dregova Tencligno    08/09/2015    1 recensioni
La giornata di un vecchio Mai Artista, una creatura misteriosa che guarda la realtà con occhi diversi. I ricordi di un passato che non si è mai affievolito. Quadri pieni di significato. Il figlio dei vicini, il figlio mai avuto, che cresce insieme a lui e ai suoi sentimenti. La facciata è il colore raffermo, ciò che nasconde sentimenti che non vengono espressi se non alla fine.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi svegliai.
Feci colazione.
Mi lavai.
Mi vestii.
Guardai le foto che avevo nel portafogli e uscii di casa.
Era una mattina dal freddo pungente, il cielo era grigio, il sole coperto da nubi e tutto – persone, case, cani, macchine, biciclette – sembrava immerso in una sostanza oleosa che ne rallentava i movimenti estremizzando le angolazioni e le posture che i corpi dei passanti assumevano mentre camminavano, mangiavamo o semplicemente parlavano.
Un gruppo di ragazzini mi passò davanti. Sorridevano e avevano in spalla degli zaini pesanti, in tela verde. Non stavano dirigendosi a scuola, era il periodo delle vacanze natalizie e la città, più che altro il tranquillo paesino di cento e cinquanta anime, si era platealmente spopolato ed erano rimasti solo gli anziani che spesso e volentieri preferivano rimanere in solitudine nelle loro case e privarsi della frizzante freschezza di quelle giornate invernali. Forse a esclusione dei signori che abitavano sopra al mio appartamento.
Loro sì, strano a dirsi, erano giovani. Erano una coppia sposata da venticinque anni ed erano stati fidanzati per altri dieci. Li ricordavo come una felice coppia di novelli sposi, e continuavo testardamente a voler serbare così la memoria che avevo di loro. Ma non potevo comunque, se uso il pensiero critico, che ripensare al giorno in cui tutto cambiò per loro. Una sera d’inverno. Il venticinque dicembre. Il loro unico figlio di vent’anni era uscito per fare una commissione e non era più tornato a casa. Lo trovarono il giorno successivo sull’asfalto della via che circondava il paesino, il corpo addossato al marciapiede e portava segni di pneumatici che gli avevano rotto le gambe e sfondato la gabbia toracica. Una tragedia.
I poveretti non si erano ripresi dalla perdita e si lasciarono avvolgere dalle ragnatele di solitudine e tristezza che li aveva intrappolati in una profonda depressione che li portò ad ignorare i reciproci parenti e amici, le persone che avrebbero potuto dare loro una mano a superare quel difficile momento.
Simone, o più semplicemente Simo, era il nome del ragazzo, e posso dire di averlo conosciuto bene.
C’è stato un tempo in cui facevo come mestiere il pittore, prima di cimentarmi nella mia attuale occupazione. Non mi ero mai voluto definire un artista anche se molti mi descrivevano in questo modo. Possedevo una grande villa lasciatami dalla buon’anima di mia madre al momento della sua morte e non sapendo che farne la vendetti, divenne un museo nel quale mi fu chiesto, in seguito, di mettere in mostra le mie opere.
Fu così, legato a un momento triste della mia vita, che iniziai il mio mestiere di pittore seguendo quella che era sempre stata una mia naturale inclinazione. Ottenni una certa fama e assegni, da parte di facoltosi uomini e seducenti donne, che contenevano più zeri di quanti fossi mai stato anche solo capace di immaginare e che mi consentirono di vivere abbastanza bene. Ma anche con ciò, l’appellativo di artista mi stava scomodo, non avevo il genio che tutti dicevano con ostinata cocciutaggine avessi. Mi limitavo ad esprimere quello che una foglia, un bel viso, una musica un determinato riflesso di luce mi procuravano, niente di più, ma alla fine mi stancai e lasciai credere a tutto quello che volevano.
Ora, dopo tale giro di parole, potreste chiedervi come mai mi sia dilungato così e io vi assicuro che c’è una motivazione se ho lasciato un attimo da parte Simone per parlare un po’ di me. L’ho fatto perché per spiegarvi che dopo tutte i miri risultati positivi che avevo ottenuto non vedevo in me l’artista, ma lo vedevo in lui. Nei suoi occhi limpidi color e del miele, nelle sue forze che si agitavano in quel giovane corpo che stava cambiando e imparando a percepire quello che aveva attorno. L’ho fatto per farvi capire come mai mi sia intromesso nella sua vita.
Il piccolo Simone non era bravo a scuola, prendeva sempre brutti voti ed era ribelle, ma anche un bravo ragazzo, gentile ed altruista.
La prima volta che lo vidi disegnare fu con un pezzo di legno in mano con cui tracciava righe sulla terra fangosa, e lo sguardo che aveva mi spinse a parlare con i suoi genitori affinché mi permettessero di insegnargli qualcosa sull’arte.
Non seppero se ridermi in faccia o mettersi ad urlare, il mio nome era comparso su numerose riviste e il padre del bambino insegnava arte come giovane docente in un collegio maschile e quindi mi conosceva di fama. Increduli spiegai loro che con molta probabilità avrei potuto migliorare le modalità di apprendimento del loro figlio facendo leva sui tasti giusti. Mi chiesero cosa mi avesse spinto a volerlo come mio allievo e io risposi semplicemente che avevo visto in lui qualcosa che gli altri ignoravano per il momento ma che avrebbero scorto più il là negli anni. Non dissi altro e lasciai loro del tempo per decidere cosa volessero fare, se accettare o meno la mia richiesta. Il giorno dopo la madre di Simone si presentò alla porta del mio appartamento, ci mettemmo d’accordo sul compenso che avrei ricevuto mensilmente e sul calendario che avremo dovuto seguire. Da lì in avanti ci saremmo visti tutti i pomeriggi a giorni alterni, sarebbe tornato a casa dopo cena, prima delle dieci accompagnato da me medesimo. Non gli avrei insegnato solo arte, ma mi sarei occupato anche di seguirlo nei compiti assegnati dalla scuola.
Durante le ore di lezioni mi sorpresi felicemente che il fanciullo mi seguiva con attenzione e faceva i suoi compiti senza problemi, ma mentirei se dicessi che tutti i pomeriggi passarono lieti, e non perché facesse capricci o altro ma a causa della sua naturale curiosità.
Iniziò a farmi domande che riguardavano il mio passato, della mia defunta moglie spirata a soli ventisei anni a causa i un tumore al cervello quando in grembo aveva il mio primogenito. Non mi sposai più, nessuno mi avrebbe biasimato se lo avessi fatto, ero giovane, bello e famoso, avevo su di me l’attenzione di donne che avrebbero speso tutto il loro patrimonio solo per avermi, ma la mia dolce Nadia era e sarebbe stata l’unica. Come Michelangelo sarebbe stato per sempre il mio unico figlio anche se non avevo acuto la possibilità di stringerlo tra le mie braccia, vederlo e sentirlo piangere.
Qualche volta mi rattristai, altre ressi all’impatto emotivo e non aggirai le domande dandogli le risposte che ricercava.
Il mio scopo non era solo di farlo andare meglio a scuola, ma anche quello di nutrire la sua vena artistica e cominciai presto a dargli lezioni sui vari tipi di correnti artistiche e gli spiegai le varie tecniche per disegnare e colorare, come usare un pennello e quali colori poteva usare con quello strumento, come mischiarli per dare un effetto visivo senza pari. Riconobbi in lui il vero artista, non doveva pensare e rimuginare su quello che lo circondava per trovare l’ispirazione, a volte bussava alla porte della mia casa in pigiama, in piena notte, perché voleva disegnare, aveva scorto qualcosa nel buio della sua mente e voleva dargli assolutamente e in fretta una voce.
I suoi progressi non si fecero attendere, in tutti i campi. Ero riuscito a raddrizzare quell’alberello che il mondo stava torcendo e schiacciando sotto il suo peso.
Divenne un bel giovane e come ogni giovane sperimentò le pulsioni della pubertà, il dolore dei primi amori e io lo lasciai sfogare a parole che sulla tela, era giusto che si esprimesse in libertà, senza tabù, quello che si agitava nel suo petto.
Comprese quello che i greci intendevano per ‘bello assoluto’, prese questo concetto e andò oltre rendendolo proprio. Per lui la bellezza non si fermava solo alla rappresentazione estetica dei corpi, era una modalità statica, anche se si rappresentava il movimento dei muscoli, essa doveva invece essere rivolta a quello che ogni persona aveva dentro. Lo ammiravo per come, nonostante la giovane età, avesse cominciato ad osservare il mondo con quell’esperienza propria della mia di età.
Lo iniziai alle mostre e ne rimase affascinato, a sua insaputa esposi un suo dipinto che ottenne molto successo tutti dissero che era per merito mio, che stavo plasmando il mio erede, ma si sbagliavano. Lui s stava formando da solo, io lo avevo solo fornito delle armi necessarie per farlo.
Purtroppo ogni casa bella è quella che con troppo anticipo sfiorisce e così, senza nemmeno avere la possibilità di salutarlo, persi il mio Simone. E rivissi quello che aveva significato perdere la mia famiglia.
Mi sembrò giusto restituire le sue opere ai genitori rimasti orfani di un così valido giovane e loro mi ringraziarono dicendomi che per il loro figlio ero stato un secondo padre, un mentore, il migliore amico. Mi sentii in colpa perché tacqui loro di essermi riservato il diritto di tenere un dipinto fatto da Simone: un olio su tela terminato il giorno prima della sua morte. Un suo busto, un autoritratto, che lo raffigurava sorridente. Ero rimasto estasiato dall’abilità con cui era riuscito a far sembrare i suoi occhi così reali, aveva riprodotto alla perfezione l’incarnato e quel tenero arrossire delle sue guance quando gli facevo i pochi complimenti che mi sentivo di fare. Lo incorniciai e lo appesi nel mio studio accanto al ritratto di mia moglie.
Passeggiavo per le via con le mie tre zampe, avanzando lentamente respirando il dolce profumo che riempiva l’aria, potevo sentire il cambiamento che coglieva quel periodo, come ogni anno, e veramente mi sentivo l’animo più leggero.
Istintivamente misi la mano nella tasca della giacca a vento e con la punta del dito accarezzai il contorno del portafogli al cui interno custodivo gelosamente le foto di Nadia e di Simone.
Passai davanti a vetrine luminose che esponevano abiti, gioielli, orologi, mobili, tutti i negozi mostravano con orgoglio il cartello dei saldi, stelle di plastica multicolore e pupazzi raffiguranti Babbi Natale, renne, elfi e pupazzi di neve. tutti con facce buffe e movenze abbozzate e goffe.
Sorrise e mi sistemai la sciarpa bordeaux sopra al naso, faceva veramente freddo, tanto che mi sentivo intirizzite le ossa, ma facevo finta di nulla e continuavo nella mia camminata solitaria scrutando i pochi passanti da sotto il bordo del cappello.
Il bastone colpiva il marciapiede amplificando il suono dei miei passi e scandendone il ritmo; gli altri non sembravano vedermi, ero invisibile come un fantasma e per questo potevo osservare in santa pace, era quello che facevo per vivere, i loro sguardi con minuziosa attenzione e tutto quello che li rappresentava. Facevo il critico d’arte.
Tutti mi parevano usciti direttamente da qualche racconto natalizio: giubbotti morbidi e rossi, cappellini di lana con al vertice palle bianche che somigliavano a code idi coniglio, sorrisi stampati sui volti, mano vellutate da guanti blu, verdi e rossi e qualche garzone coraggiosa aveva indossato maglioni con motivi natalizi.
Dalle finestre delle case usciva la luce dei televisori e qualche canzone natalizia che canticchiai. Tutti fingevano di provare qualcosa di diverso, un sentimento nuovo, ma era solo un’illusione. Quella gioia, quel sentimento uro di luce, era sempre stato il loro colo che per la maggior parte del tempo erano troppo presi dagli obblighi mondani per rendersene conto e così lasciavano che venisse magicamente a galla nel giorno in cui sotto abeti di plastica apparivano in forma materiale i loro sogni.
Un’altra illusione nel quali si perdevano consapevoli di naufragare.
Come quegli oggetti potevano renderli felici? Come potevano sostituire il calore delle persone? Non ero mai riuscito a capirlo e giunto alla mia età armai ro più che certo che non ci sarei riuscito. Forse al momento dell’ultimo respiro ma conservavo i miei numerosi dubbi ed ero altrettanto convinto che sarei rimasto della mia opinione, era il sorriso delle persone, il calore che riuscivano ad emanare con i loro sentimenti a renderci felici, non qualcosa che si metteva sotto abeti di plastica per poi scartare. Non potevano essere sostituiti i ricordi che avevo della mia famiglia e in questo periodo mi accorgevo sempre felicemente che mi mancavano e che il loro ricordo era dentro di me immutato.
Comunque, potreste dire che pecco di presunzione – e forze avete ragione – perché dopo la morte della mai compagna di vita e dei miei due figli mi sono rinchiuso in un appartamento a vivere da solo, ma abbiate pietà di un povero vecchio brontolone. Dato il mio lavoro ero abituato a criticare tutto ciò che la vita mi offriva e poche cose erano riuscite a strapparmi qualcosa di positivo dalla bocca, forse eccetto quel bambino che disegnava con un pezzo di legno tra le mani.
Storsi il naso quando mi passò vicino una donna anziana con indosso una giacca di pelliccia, l’aveva preceduta un profumo dolce, dalla consistenza corposa e che mi lasciò un gusto acido in bocca e nelle narici.
Mentre camminavo m ricordai di un avvenimento che mi aveva coinvolto quando Simone compì i suoi diciotto anni. Quel pomeriggio avremmo dovuto fare una breve lezione, ma cambiai idea e lo portai in giro per il paese, c’era un locale, lungo il corso che doveva essere ristrutturato per renderlo un centro di esposizione di opere d’arte. Non ci ero più passato da quel giorno e non sapevo cosa fosse accaduto a quel luogo, se lo avessero aperto e se fosse fallito.
Mi misi in marcia e mi incamminai per una stradina stretta e maleodorante che mi condusse sul corso, un largo viale adibito a zona pedonale. Se non mi ricordavo male si trovava dopo il terzo incrocio dopo la pasticceria più buona che avessero mai aperto nel paese, e infatti l’unica che ancora sopravviveva alla sfortuna che colpiva in quel periodo molti commercianti che quasi chiudevano ancor prima di aprire.
Il locale era ancora lì, e si stava svolgendo anche una mostra. Non seppi rinunciare e i miei occhi mi precedettero, i piedi li seguirono e alla fine anche il mio corpo entrò nella grande sala che ospitava quadri, sculture classiche e moderne.
Non c’erano molte persone a gustarsi quella miscela di forme e colori posti in un unico luogo, e forse era proprio questo, era come ricevere un pungo dalle mille sfumature agli occhi, troppe cose messe assieme, un’accozzaglia di elementi che stonavano fra loro ed ero sul punto di ritornare sui miei passi se non fosse stato per un particolare che mi cadde all’occhio come una freccetta, proprio com’era successo quando vidi disegnare Simone.
Era bellissimo, sicuramente la cosa meglio riuscita al genio umano e contenuta in quella stanza. I segni imperfetti sembravano quasi essere stati voluti in quel modo, le macchie celate parzialmente dalla cornice color fumo scheggiata qua e là mostrando la sua reale natura marrone al di sotto nella vernice. Sembrava un’opera di altri tempi, ma non era così in quanto l’artista era un giovane ragazzo magro e allampanato dalla capigliatura trasandata, come Simone, come qualsiasi altro artista.
Tornando a degustare la creazione oltre la barriera trasparente che ci divideva mi sembrò di capire le scelte e le emozioni che lo avevano portato ad esprimersi in questo modo. Ovviamente non potevo, ma è presunzione comune asserire di essere riusciti a capire realmente cosa quei poveri geni incompresi – per tale ragione – avevano in mente e così mi accinsi pure io a peccare.
Quella sagoma scura, l’orma di una persona che si proiettava su una parete panna, era costituita da spirali, tantissime. Alcune riuscivo ad individuarle con gli occhi dell’anziano che sono, altre erano talmente intrecciate da creare illusioni che a loro volta potevano essere decifrate in infiniti modi, ma avrei finito col fare quello che è il lavoro di un veggente e a me bastava capire solo in parte ciò che si agitava nell’animo di quel ragazzo, il resto era giusto lasciarlo alla sua privacy…
Purtroppo sono vecchio e alcune volte, di sovente anzi, mi capita di dilungarmi in discorsi che non centrano nulla con quello che è il tema principale intavolato.
Comunque. Continuavo a fissare tutte quelle spirali che si intersecavano e coprivano a vicenda a pensavo a quando erano simili agli eventi che la breve vita umana accoglie nel suo ventre.
In principio mi ero concentrato più sull’insieme, sull’ombra stagliata sullo sfondo, ma, mi accorsi, in un’epifania crescente, che erano invece più importanti i singoli dettagli.
Tutte le spirali. I singoli eventi. Perché erano loro il reale corpo di quello che era poi l’immagine, e mi convinsi che fosse questo quello che era nelle intenzioni dell’artista: dire ‘siamo ciò che gli eventi ci portano ad essere’.
Avrebbe potuto usare qualsiasi figura, ma aveva scelto le spirali e a ragione… ogni momento della nostra vita è uno spirale, un susseguirsi di eventi che girano su se stessi portandoci, però, mai al punto di partenza, ma ad essere qualcosa di più. Migliore o peggiore.
Mi sistemai il cappello sui capelli bianchi ed inforcai gli occhiali che avevo tolto per guardare meglio il dipinto.
Strinsi il bastone e uscii da quella sala lasciando quel giovane ragazzo ai suoi sogni.
Era al principio del suo cammino e gli augurai tutta la fortuna che gli sarebbe servita per diventare grande.
Non era, e non è tutt’ora, ad essere cosa che mi contraddistingueva, fare complimenti, ma non ero così cieco anche se aveva la mia bell’età sulla spalle e sapevo benissimo che tutti possono diventare grandi, ma che la grandezza è in pochi. E lui, forse lui, come Simone, qui lo dico e qui sempre lo nego – al fine di preservare la mia temuta reputazione –, aveva quella luce che poche volte avevo scorto e che quel giorno mi portò sulla tomba del mio allievo, del mio figlio adottivo, a versare le lacrime che mi ero sempre tenuto dentro.
   
 
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