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Autore: Paradise36    09/09/2015    1 recensioni
“Noi non eravamo due linee parallele, assolutamente.
Noi stiamo stati due linee incidenti: ci siamo schiantati in un unico punto. Lo schianto poi, è stato così forse da farci riprendere la nostra strada dalla parte opposta.
Non ci schianteremo mai più, ma quel punto rimarrà sempre un nostro legame.
Rimarrà sempre un punto in comune che ci legherà, a vita.
Anche se ormai distanti.”
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Justin Bieber
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.



Il ticchettio della pioggia che si batteva contro la finestra della mia camera  quel 21 ottobre, era un sottofondo perfetto per il libro che stavo leggendo, seduta sul mio letto, con le spalle appoggiate alla testiera, da almeno un’ora. In realtà ero più concentrata sulla pioggia che sul libro, dato che io amavo la pioggia e tutto quello che riguardasse l’inverno in tutte le sue forme. Proprio mentre ci stavo pensando, sentii bussare alla mia porta. Sapevo che era mia nonna: ormai riconoscevo quel suono calmo che solo lei con le sue mani riusciva a riprodurre sulla mia porta; inoltre, doveva essere per forza lei. 
“Avanti” mormorai. Dopo poco vidi spuntare la sua capigliatura bianca da dietro la porta. 
“Lace... sono quasi le..”
“Giusto nonna, lo so. Vado a prepararmi” sussurrai. Con nonchalance chiusi il libro, senza neanche prendere l’accortezza di infilarci un segnalibro. Mi alzai dal letto e lei era ancora lì, con il sorriso stampato sulle labbra. Le regalai un sorriso anche io.
Lo faceva sempre, veniva ad avvisarmi quando si era fatto orario per andare a lavorare. Forse a lei devo il fatto che non ero mai in ritardo. 
Alla fine lasciò la stanza e io procedetti a preparami, facendo sempre le solite cose: lavarmi, vestirmi, truccarmi (poco), mettere le scarpe e infilare nella borsa i vestiti da lavoro. Infine scendevo giù in salotto dove recuperavo le chiavi della mia auto, regalatami da mia zia al mio diciottesimo compleanno, salutavo la nonna e uscivo di casa sentendo ogni dannata volta il vento freddo che quasi mi pungeva la faccia. 
Entravo in auto e dopo aver messo in moto, in dieci minuti ero a destinazione: lavoravo in un bar che in settimana era frequentato, per fortuna, da pochissime persone. Il week-end lì non ci lavoravo, ma le mie colleghe dicevano che c’era molta confusione. 
Condividevo il turno, dalle 19.00 a mezzanotte, con Sharon, una ragazza di colore con cui avevo stretto subito amicizia, poiché era davvero adorabile. Era due anni più grande di me, ma non ne aveva mai fatto un problema. Ci tenevamo compagnia dietro il bancone quando il bar era completamente vuoto, il che era raro; qualche persona c’era sempre. 
Parcheggiai la macchina al mio solito posto e mi incamminai verso l’entrata a passo svelto, con la borsa sulla spalla.
Erano le 18.45 e di conseguenza ora c’erano altre due ragazze a lavorare. Alle 19.00 in punto sarebbe spettato a me e Sharon prendere il loro posto. Di solito arrivavo sempre in anticipo perché dovevo cambiarmi e cercare di fare una coda di cavallo decente ai miei capelli... Non era semplice. 
Entrai, salutando educatamente le altre due ragazze e mi avviai nello spogliatoio. Sharon era già lì ad attendermi. Era già vestita e aveva già fatto la coda di cavallo ai suoi capelli ricci. 
“Hey” la salutai, sorridente. Lei mi sorrise, stampandomi un bacio sulla guancia. “Come stai?”, chiesi, appoggiando la borsa su una panchina. 
“Bene, tu?”
“Tutto ok” risposi. Mi cambiai velocemente: un pantalone stretto nero e una maglietta a maniche corte nera con una scritta rossa: il nome del bar. Nonostante facesse freddo, lì dentro, anche in inverno pieno, faceva sempre un po’ caldo. 
Alla fine alle 19.00 iniziò il nostro turno che non sembrò interminabile quanto tutti gli altri, forse perché c’era stata più gente o forse perché parlammo un po’ di più. 
Comunque, nonostante questo, alle 00.07 ero in auto verso casa, con un po’ di musica dalla radio in sottofondo. La via per arrivare a casa mia era sempre la stessa, buia, sperduta e isolata; ma quella sera c’era qualcosa di diverso. 
Sul marciapiede opposto al mio c’era un gruppetto di quattro ragazzi che ridevano e scherzavano, avanzai piano fino a quando questi quattro scomparirono. Fu solo allora che mi accorsi di una figura umana che si adagiava a terra, ignara di tutto quello che era successo. Da lontano non riuscivo a capire niente, ma il mio cuore si fermò un secondo. Spensi l’auto, o aiutavo quella persona o chiamavo qualcuno, oppure potevo lasciarlo morire lì, ma io non l’avrei mai fatto. La seconda opzione mi sembrava troppo lunga da svolgere quindi optai per la prima. Ebbi tanto paura, però dovevo farlo. Presi le chiavi della macchina e le infilai nella borsa che portai con me. Chiusi lo sportello e mi avvicinai frettolosamente a quella persona che poi confermai fosse un ragazzo. Aveva gli occhi chiusi ma il suo petto si alzava e si abbassava e sentivo il suo respiro che mi tranquillizzò un istante. Aveva la faccia ricoperta di sangue e un’occhio completamente nero. Mi accovacciai, per essere più vicino a lui. Aveva le nocche sanguinanti e la maglia stracciata: notai un taglio e quasi caddi per terra. Era un taglio di un coltello e io non stavo facendo niente per aiutarlo, stavo soltanto tremando. 
Gli toccai piano la spalla, poi più forte. “Hey, mi senti?”, chiesi, toccandogli la spalla. Aprì piano l’occhio sano fino ad aprirlo del tutto. Non sapevo che dire. Optai con la più banale. “Come stai?”, chiesi. Poi guardai il suo taglio e usciva sangue, era logico che non stava bene. “Senti io ora ti porterò in ospedale, ma tu dovrai collaborare.”
Questo tizio scosse la testa, quasi sofferente. 
“Anche a me non piacciono gli ospedali, ma dobbiamo andare. Il taglio ti farà male ma forza e coraggio.” Cercai di prenderlo dalla schiena, consapevole che mi sarei sporcata tutta di sangue ma in quel momento non me ne importava. La vita di una persona era più importante. Fece qualche sforzo e si alzò, quasi non si reggeva in piedi. Faceva smorfie di dolore e mi si stringeva il cuore dinanzi a quelle immagini che stavo vivendo. Appoggiò un braccio intorno al mio collo e io intorno alla sua vita. Era più alto di me di almeno quindici centimetri. Vidi dal suo occhio sano una lacrima scendere e mi venne da piangere ma non ci pensai. Arrivai fino al posto del passeggero e pensai alla mia macchina semi-nuova tutta insanguinata, ma non mi importava neanche di quello. L’avrei portata a lavare. 
Aprii la portiera cercando di non cadere, poiché avevo praticamente tutto il suo corpo addosso. Lo feci sedere e appoggiò subito la sua testa allo schienale, ancora con gli occhi chiusi. Cercai di scrollarmi un po’ la maglia e corsi fino alla mia portiera. Salii dentro buttando la borsa dietro e partii velocemente verso l’ospedale più vicino che distava minimo quindici minuti. Nel viaggio silenzioso e impaurito, mi giravo ogni due secondi per controllare come stesse. Poi decisi di parlare.
“Hey, tutto bene?” Lui annuì ma sapevo che non era così. Quella strada, che tra l’altro avevo cercato sulla mappa della mia macchina, sembrava interminabile. Ma quando arrivai, volevo tornare subito indietro. Troppe brutte e vecchie esperienze. Mi salii un’ansia interminabile, c’erano parecchie auto e tre autoambulanze fermate fuori l’edificio alto sette piani. C’era un via vai incredibile. Fermai l’auto davanti l’edificio, beccandomi pure qualche occhiataccia, ma non mi importava.
“Ascolta, vado a chiamare qualcuno che ti metti su una barella. Tieni duro.” Non sentii la sua risposta perché sapevo che non c’era tempo, aveva un taglio così profondo all’altezza della pancia che doveva essere davvero grave. Entrai nell’ospedale di corsa e quell’odore mi fece quasi vomitare. Incontrai un infermiere altissimo che aveva una cartella in mano. Mi bloccai davanti a lui e quest’ultimo sobbalzò.
“Ascolta ho una persona in auto qui fuori che rischia la vita, aiutami per favore, ha un taglio profondiss...”
Sentii due mani sulle mie spalle, mentre i miei occhi mi stavano per tradire e sarei scoppiata a piangere. 
“Stai tranquilla. Andrà tutto bene” mi disse. Parlò con un’infermiera di passaggio che subito andò da qualche parte, dopo tre secondi c’erano cinque infermieri attorno alla barella che mi guardavano interrogativi. Corsi fuori per arrivare alla macchina e aprii lo sportello. Il ragazzo aveva gli occhi chiusi. Lo scossi un po’ e lui emise un gemito. 
“È qui” mormorai. Mi toccai i capelli e la testa così tante volte che persi il conto, ma quando misero quel ragazzo sulla barella, crollai. Scoppiai a piangere contro la portiera della macchina ormai chiusa, mentre tutte le immagini della mia vita e del mio passato ritornavano velocemente nella mia mente. Mi morsi il labbro guardando il mio riflesso dal finestrino e mi asciugai le lacrime, mentre alcune persone mi guardavano. Salii in macchina solo per prendere la mia borsa e chiusi di nuovo  la macchina. Entrai subito nell’ospedale e non c’era più traccia di quello sconosciuto che forse avevo salvato, né di un medico che l'aveva messo sulla barella. 
Mi sentivo disorientata, mi guardavo intorno ma non vedevo nessuno tra milioni di gente. Evidentemente dovevo avere un aspetto orribile perché tutti mi guardavano e poi sparivano. Un’infermiera bionda e con gli occhiali mi si avvicinò titubante. 
“Sei tu la ragazza che ha portato quel ragazzo?” Annuii, guardandola negli occhi. “Posso farti alcune domande?” Annuii ancora, forse incapace di parlare. Mi sorrise ma io non ricambiai come era mio solito fare. “Seguimi” disse, toccandomi la spalla. Camminai di fianco a lei, con la borsa ancora sulla spalla e gli occhi lacrimanti e bagnati. Chissà se il poco trucco che mettevo si era sciolto e ora la mia faccia era nera, ma non mi importava. Mi portò dentro una saletta dove trovai l’infermiere che avvisai per primo. Mi sorrise anche lui, ma non ricambiai. L’infermiera si sedette dietro una scrivania. Indicò la sedia che era davanti a me. “Puoi sederti se vuoi” mi disse.
“Grazie ma sto bene così” sussurrai. 
“Va bene.” Sfogliò alcuni fogli bianchi e poi prese una penna, intanto l’infermiere era seduto su una sedia di lato attaccato al muro celestino. 
“Tu conosci quel ragazzo?”
“No.”
“Quindi non sai neanche come si chiama o quanti anni ha o da dove viene?”, chiese.
“No.” 
“Allora la domanda principale è: perché l’hai portato qui?”
Sospirai. “Stavo tornando dal lavoro quando ho visto questo ragazzo a terra. Non potevo lasciarlo lì, così mi sono avvicinata, ho cercato di farlo sedere al meglio nella mia macchina e l’ho portato qui” spiegai, mentre lei annotava. 
“Era un perfetto estraneo, quindi.”
“Lo è ancora, ma dovevo salvarlo. Come sta?”
“Non bene. Ha diverse fratture, ha l’occhio completamente tumefatto ma è il taglio la cosa più grave” disse. Mi sentii stringere il cuore, quindi guardai in alto per cercare di non piangere, ma alla fine non ci riuscii. Piansi in silenzio con una mano davanti agli occhi, ma sentivo le lacrime amare nella mia bocca. Poi sentii due mani stringermi le spalle e mi calmai, alzando lo sguardo davanti a me. Era l’infermiera che mi guardava con una faccia piena di tenerezza. 
“Perché piangi?” 
Scossi la testa. “Cerchi di non importartene, fingi che va tutto bene perché tu quella persona non la conosci, ma poi ti fermi un attimo a pensare e ti chiedi: ma perché succedono queste cose?... E tante tante altre cose” dissi.
“Quanti anni hai?” 
“Quasi diciannove” risposi. Non so se era un privilegio o meno.
Mi sorrise. “Complimenti. Non tutti avrebbero fatto il gesto che hai fatto tu, ma ora torna a casa, si vede che sei stanca. Torna domani mattina se ti va, ora è completamente inutile restare qui” mi disse. Io annuii. Uscii dalla stanza piccola e mi chiusi la porta alle spalle. Attraversai l’atrio dell’ospedale con l’ansia che mano mano saliva dentro di me. Arrivai in macchina e mi guardai subito nel piccolo specchietto di fronte a me. Non avevo il trucco sciolto in faccia ma si vedeva che avevo pianto e non ero dell’umore perfetto. Guardai la mia maglia blu dall’alto e vidi schizzi di sangue qua e là. Infine sul sedile nero c’erano chiazze di sangue che la mattina dopo avrei pulito. Ora ero troppo stanca per fare tutto, persino di tornare a casa, anche se alla fine lo feci.

   
 
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