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Autore: K u r a m a    09/09/2015    0 recensioni
Una descrizione senza pretese di Itachi dal punto di vista di un nuovo personaggio misterioso
Fu come cercare un ago in un pagliaio, in mezzo a quello stormo d’uccelli neri bellissimi, che orgogliosi macchiavano il cielo del loro cupo colore, eppure lui se ne stava lì, fermo, in mezzo a loro, con gli occhi chiusi ad assaporare le carezze del vento che quelle enormi ali creavano; era come al centro di un ciclone, eppure lui stava fermo, immobile, ad ascoltare quel battito d’ali e quei versi rapaci.
Non avevo mai visto corvo più bello nella mia vita: si narrava che anticamente i corvi fossero bianchi come il latte, macchiati poi di nero a causa del malumore del divino Apollo e da allora etichettati come uccelli del malaugurio, portatori di morte;[...]
Genere: Generale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Itachi, Nuovo Personaggio
Note: Nonsense | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun contesto
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Ricordo che una volta mio padre mi raccontò la storia di un corvo solitario, nero come l’inchiostro di seppia, elegante e maestoso come una pantera, dagli occhi rossi come il sangue, ma dotato di artigli gentili che potevano strappare il velo della notte e il lungo e acuminato becco pronto a inghiottire le ombre del male.
Quella era stata forse la mia seconda favola preferita, quella che mi era rimasta impressa dopo la storia d’amore di mia madre e di mio padre; probabilmente, la seconda storia che avrei voluto si potesse avverare e che forse da sempre avevo desiderato di vivere.
Senza accorgermene avevo bramato la vista di quel meraviglioso corvo, minaccioso, ma allo stesso tempo fragile come un candido fiore di loto che poteva crescere solo dopo mille anni, per poi perire dopo un misero battito di ciglia.
Probabilmente avevo sempre desiderato vederlo e accarezzarlo, magari perfino ammaestrarlo; tuttavia, questi desideri non mi erano mai stati chiari fino a quel momento, quello in cui lo vidi per la prima volta in tutta la sua bellezza.
Fu come cercare un ago in un pagliaio, in mezzo a quello stormo d’uccelli neri bellissimi, che orgogliosi macchiavano il cielo del loro cupo colore, eppure lui se ne stava lì, fermo, in mezzo a loro, con gli occhi chiusi ad assaporare le carezze del vento che quelle enormi ali creavano; era come al centro di un ciclone, eppure lui stava fermo, immobile, ad ascoltare quel battito d’ali e quei versi rapaci.
Non avevo mai visto corvo più bello nella mia vita: si narrava che anticamente i corvi fossero bianchi come il latte, macchiati poi di nero a causa del malumore del divino Apollo e da allora etichettati come uccelli del malaugurio, portatori di morte; lui aveva una candida pelle diafana, che ricordava la nitidezza delle stelle, macchiata però dalla pece lucida e corvina dei suoi lunghi capelli, legati in una bassa e lunga coda che fluttuava dell’aria. Neri erano anche i suoi vestiti, macchiati da nuvole rosse, come il sangue che tinteggiava i suoi occhi, che si erano aperti e si erano rivolti su di me, in uno sguardo che voleva pietrificare, essere minaccioso, ma che io non potevo far altro che vedere come malinconico e solitario.
Lui era il simbolo della nigredo, ovvero del passaggio alle tenebre; il Caronte terreno, pronto a portare le anime verso la porta del loro inizio o della loro fine.
Quel viso bellissimo, macchiato dalla solitudine e solcato dagli anni di mille battaglie e dolori, si era riflesso su quelle profonde e lunghe rughe espressive ai lati nel naso, che scendevano morbide fin quasi all’altezza della bocca.
Il corvo nella storia che mi narrò mio padre era anche simbolo di disgrazie, ma quel regale animale era anche dotato di una fine arguzia, che avrebbe potuto sconfiggere anche quella di una volpe.
Lo osservai attentamente, mentre lui scrutava me fermo ed immobile, irraggiungibile e solitario, ma anche predatore; bello come un Dio e maledetto come un povero diavolo buttato tra le fiamme dell’inferno e destinato a bruciare per l’eternità, fino a che il fuoco stesso non avesse deciso di cessare le sue pene e ridurlo finalmente in cenere.
Lui, probabilmente uno dei corvi di Odino, “pensiero” e “memoria” mi stava guardando per cacciarmi, prendendomi con le sue tenaglia dure e poi farmi librare nell’aria prima di cibarsi delle mie fragili carni.
Eppure, nonostante fossi conscio di questo, non riuscivo a provare alcuna sorta di paura. Sarei dovuto essere terrorizzato, eppure non riuscivo a provare quel sentimento; potevo solo stare fermo e immobile, ad ammirarlo e a sentire il cuore palpitare all’interno del mio petto, indomito.
Quando mi sorrise, mi mancò il respiro, fu come se il sole fosse sorto e in fondo forse era proprio così, perché il corvo era anche la creatura più amata dalla dea del sole Amaterasu.
Fu su quel pendio, su quella roccia che sporgeva al di sotto di un dirupo che portava al mare che vidi il corvo di quella favola e quello fu anche il momento in cui mi innamorai di lui, di quel corvo travestito d’allodola che simboleggiava il sacrificio.
   
 
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