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Autore: Aleviv    09/09/2015    2 recensioni
Il buio continuava ad avvolgerci, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo.
Non sapevamo da quanto tempo fossimo lì dentro. Sembrava passata un’eternità.
La flebile luce della luna riusciva ad infiltrarsi tra le piccole fessure che coprivano le mura di quell’enorme villa.
Doveva essere un gioco.
Doveva essere il finale perfetto per l’ultimo giorno della nostra estate.
Genere: Horror, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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                     Ad Eternam

 
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                                                                                                     -  Capitolo I

      Il Ticchettio.

 
 
Il buio continuava ad avvolgerci, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo.
Non sapevamo da quanto tempo fossimo lì dentro.  Sembrava passata un’eternità.
La flebile luce della luna riusciva ad infiltrarsi tra le piccole fessure che coprivano le mura di quell’enorme villa.
Doveva essere un gioco. 
Doveva essere il finale perfetto per l’ultimo giorno della nostra estate.
 
 
Continuavo a correre lungo l’enorme salita che mi ero ritrovato davanti, con il vento che mi soffiava tra i capelli, scompigliando i miei piccoli riccioli neri.  Il sudore gocciolava lungo la mia schiena, dopo un’intera giornata passata passeggiando.
Era buio, e mi divertivo a lasciare indietro i miei amici, spaventati a morte.
<<  Andiamo!  >> Gridai, sorridendo.
Avevamo trascorso le nostre vacanze ad Ischia, quest’anno.  E, per concludere in bellezza la nostra estate, decidemmo di passare tutta la giornata in giro per l’isola.
Nonostante fosse stato un pomeriggio davvero caldo, quella sera d’agosto era davvero molto ventilata.   Ormai era quasi mezzanotte, ed eravamo giunti alla nostra ultima tappa: Il piccolo comune di Lacco Ameno.
Avevamo scelto quello come ultimo luogo da visitare, perché più piccolo e tranquillo degli altri.  Quale posto migliore per potersi rilassare senza pensare a ciò che avremmo dovuto fare nei mesi successivi?
Io, Maria e Stefano eravamo diciottenni da poco.   Continuavano tutti a dirci che ormai eravamo adulti, eppure noi eravamo sempre lì, a scherzare come dei bambini.  Ed effettivamente, esserci trascinati dietro un quattordicenne alto quanto noi non ci faceva certo sentire più grandi.
Avevamo programmato di distenderci su una spiaggia e riposarci, chiacchierando.  Ma, dopo aver girovagato un po’ per il comune, ci ritrovammo davanti un cancello aperto ed un’enorme salita buia.
Così mi sono detto, perché non andare a controllare? Dopotutto era l’ultimo giorno delle nostre vacanze, sfruttarlo al massimo l’avrebbe solo reso migliore ed indimenticabile.  
Non ci misi molto a convincere gli altri a dare un occhiata, e, con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto, cominciai a salire.
Ero stanco morto, tuttavia cercavo di mostrarmi il più attivo che mai, per incoraggiare gli altri ad arrivare fino in cima e controllare cosa ci fosse.  Effettivamente non era stata una buona idea girare l’isola senza qualcuno che la conoscesse, ma in un modo o nell’altro, alla fine saremmo tornati a casa.
 
Marco, il più piccolo tra noi, mi raggiunse prima degli altri, afferrandomi per la mia maglietta azzurra.
<<  Rob, siamo sfiniti, la smetti di correre?  >> Mi disse, guardandomi fisso negli occhi.
 Io annuì, passandomi una mano tra i capelli.  <<  D’accordo ma… muovetevi.   >> Risposi, sbuffando.
Continuammo a salire tutti insieme, notando che, quasi in cima, c’era un piccolo ristorantino poco illuminato.  Storsi un po’ il naso, guardandolo.  Non riuscivo a capire che senso avesse nasconderlo dove davvero poche persone lo sarebbero andate a cercare.  Non ci demmo comunque molto caso, poiché subito dopo di questa vi era l’enorme facciata di un’enorme villa che sembrava essere abbandonata da poco.  Era illuminata solo dalle poche luci del ristorante lì vicino, e dal basso riuscivamo a scorgere solo alcune delle tantissime finestre che la contornavano.  Alcune di queste erano coperte da un’enorme salice piangente, che catturò subito la nostra attenzione: I suoi rami altissimi brillavano, illuminati dai lampioni, formando una cascata di foglie che dava colore al buio delle mura.   Proseguendo sulla facciata vi erano due piccoli balconi, chiusi in un’arcata.  Rispecchiavano proprio il semplice e stupendo stile ischitano che avevamo cominciato ad apprezzare, distaccandoci dalla città.  Subito sopra di questi vi era quello che sembrava un piccolo terrazzo: Doveva essere davvero stupendo potersi affacciare da lì, ed ammirare la bellezza dell’isola verde.   Ed infine, al chiudere quella bellissima villa, vi era un’ultima balconata chiusa intorno a quattro mura, completamente nascosta dalla notte.
Avanzammo ancora un po’, incuriositi da quel posto misterioso.  Ci affacciamo lungo il parapetto che delineava la salita, osservando la bellezza dell’isola dall’alto.  Le luci degli alberghi e delle case sfumavano da un oro brillante ad un bianco chiarissimo, riflettendosi sull’acqua.]
Maria si avvicinò a me, aggrappandosi alla ringhiera.  Il bagliore della luna sembrava schiarire i suoi lunghi capelli biondi, e faceva brillare nell’oscurità i suoi splendidi occhi verdi.  Si strinse al parapetto, chiudendo gli occhi e facendosi accarezzare dal vento.   <<  Questo posto è fantastico. >>. Esclamò, voltandosi.  
<<  Non riesco a capire perché non ci sia nessuno.  >>
Rimasi fermo ad ammirare il paesaggio, senza risponderle.  << Non lo so.  >>  Dissi poi.
Non lo so.
 
Le foglie del salice piangente scricchiolavano sotto i nostri piedi, passo dopo passo.  Il vento ne faceva librare alcune nell’aria, dolcemente, poi le lasciava cadere scivolando lungo la discesa. Andai avanti velocemente sicuro di me.  Non ero molto spaventato in realtà, solo curioso.   Mi piaceva l’idea di esplorare senza avere la più pallida idea di dove fossi. 
Mi ritrovai al centro di un enorme piazzale, chiuso da due mura ed aperto solo lungo la fine del parapetto al quale c’eravamo affacciati poco prima.   Mi guardai intorno, cercando di scoprire qualcosa di più su quel luogo.   Notai che quella che pensavamo fosse una villa, in realtà era un museo.  C’era una piccola iscrizione incisa di fianco la porta, completamente sigillata.   Di fronte all’ingresso vi era un ulteriore cancello, quest’ultimo aperto, ma collegato ad una piccola finestra illuminata.  Notai l’ombra di un uomo muoversi lungo il vetro e decisi di allontanarmi attento a non farmi notare.
<<  Aspettate  >> Sussurrai, bloccando Marco, che sembrava più curioso di me nello scoprire cosa ci fosse lì dietro.   <<  Credo di aver visto qualcuno lì dietro  >>
Stefano mi guardò, nascondendosi dietro lo zaino enorme che Maria trascinava con se.  <<  Che diavolo ci fa qualcuno qui su?  >> Mi chiese sconvolto.
<<  Non so  >> Gli dissi scuotendo le braccia.  <<  Credo sia un guardiano o qualcosa del genere… Mi sa che non possiamo entrare da qui.>>
Lo vidi sospirare felice; Probabilmente sperava che non trovassimo altri punti in cui poter accedere alla villa, aveva un’aria così stupida, poiché cercava di mostrarsi coraggioso, senza accorgersi che notavamo benissimo che avesse paura.
Lo osservai ancora lasciando andare il piccolo Marco, che non riusciva a liberarsi dalla mia presa.  Ero davvero felice di essere lì, L’estate stava finendo certo; ma affrontare un nuovo anno con i miei migliori amici non mi dispiaceva affatto.   Avremmo superato qualsiasi problema insieme.
Maria si girò verso Stefano spingendolo indietro: <<  Smettila di rimanere lì imbambolato!   >>. Rise.
<<  Uhm… d’accordo Mary  >>.   Sbuffò lui avanzando.   Mi dispiaceva un po’ farlo sentire a disagio, ma una piccola parte di me si divertiva a stuzzicarlo.   E credo che l’avesse anche capito, visto che per un istante mi lanciò un occhiataccia con i suoi minuscoli occhi azzurri.
<<  Fatemi luce!  >> Gridò improvvisamente Marco, aggrappandosi ad una piccola porticina di legno rotta sul lato superiore.  Gli prestai velocemente la torcia del mio cellulare per fargli luce.  Tuttavia non vedemmo niente d’interessante; Solo roba vecchia e niente che potesse portarci all’interno.
Peccato.
Tornammo un po’ indietro, dove il salice piangente continuava a far cadere le sue foglie.   Questa volta però notai una cosa che prima non avevo visto:
Delle scale.
Sì, perché nascosta da quell’enorme albero, vi era una scala un po’ arrugginita che portava ad un piccolo cancelletto, facilmente scavalcabile.
Sorrisi leggermente afferrando Stefano per un braccio: <<  Beh … direi che abbiamo trovato la nostra entrata.  >>
 
Salì le scale lentamente, aggrappandomi alla ringhiera grigiastra che le contornava.   Infilai un piede sull’inferriata del cancello e lo scavalcai, stando attento a non farmi male.  
Improvvisamente sentì qualcosa tirarmi per una gamba e un leggero bruciore diffondersi lungo il mio ginocchio destro.  Non riuscivo a vedere molto bene cosa ci fosse, ma probabilmente ero stato graffiato da uno dei ramoscelli che sbucavano dalla recinsione intorno alla ringhiera.
La piccola scala continuava a salire, ma aspettai che scavalcassero anche gli altri prima di avanzare.
Marco fu veloce e attento, tanto da non sfiorare nemmeno il ramo che mi aveva graffiato.   Anche Maria riuscì ad oltrepassare il cancello senza problemi, nonostante avesse paura di rovinare il suo vestito.
Stefano invece fu un po’ più problematico.   Infilò entrambi i piedi sulla ringhiera del cancelletto e, provando a superarlo lentamente rotolò a terra, graffiandosi tutto il viso.
<<  Cristo!  >> Imprecò, mentre l’aiutai a rialzarsi.   Aveva graffi sia sulle braccia sia sulle gambe, ed una leggerissima ferita sulla fronte, che veniva però nascosta dai suoi capelli castani.   <<  Che tu sia maledetto, Roberto.  >> Sussurrò, stringendo con forza la mano che aveva afferrato per tornare in piedi.  
Camminammo lentamente, uno dietro l’altro, salendo la stretta scala che portava in cima alla villa.  Illuminai tutto con la torcia del cellulare, cercando di evitare di tagliarmi ancora.  Ed infatti il graffio sul ginocchio continuava a bruciarmi e a sanguinare, ad ogni mio passo.  Provai a voltarmi di scatto, osservando di nuovo la bellezza del lacco da quell’altezza.
I colori sfumati delle piccole palazzine si mescolavano al verde scuro delle colline, per poi declinare nell’oscurità del mare.   Riuscivo ad ammirare per fino l’isolotto del fungo, che sbucava dall’acqua e veniva illuminato dalle luci dei panfili ormeggiati lì vicino.
È davvero stupendo.  Pensai, continuando a salire.
 
In pochi secondi ci ritrovammo di fronte ad un enorme patio, coperto da una lunga serie di travi in legno, che pareva infinita. 
Era davvero molto ampio e, nonostante fosse coperto da numerose radici, manteneva ancora una certa armonia.  Alberi di vari tipi riempivano il paesaggio intorno a noi, e pensai che davvero visitarlo di giorno non sarebbe stato male.   Perché mai avevano abbandonato un posto del genere?
Corridoi e corridoi che s’intricavano tra loro, circondati da alberi e immensi giardini, cespugli e fiori di ogni genere.  La fredda luce della luna ne illuminava una parte, facendo sembrare la villa un posto quasi magico.  Il pavimento rossastro era perfettamente in equilibrio con le colonne bianche che mantenevano le travi, tutte coperte di foglie e fiori colorati.  Non mancavano delle erbacce, ma di certo non danneggiavano la bellezza di quel luogo incantato.
Anzi, non facevano altro che accrescere la maestosità e l’eleganza di quel maniero nascosto sulla cima di Lacco Ameno.
Improvvisamente il vento sembrò aumentare, e soffiò forte su di noi, facendoci rabbrividire.  Le foglie che fino a poco prima scricchiolavano sotto i nostri piedi e quelle che erano rimaste ferme sulle ringhiere dei corridoi presero a volare via, trascinate via dalla notte.
E poi un ticchettio.
Un battito leggero, che cresceva pian piano, diventando sempre più forte.
Un rumore normalissimo, ma che sembrava così estraneo alla pace di quel posto, appartato e disabitato.
Un rumore che penetrava nella mente, e che non l’abbandonava più.
Un rumore leggero e pesante allo stesso tempo, che rimbombava nella testa, come se mi stessero colpendo.
Sentì il sangue raggelarsi nelle vene, accarezzato da quella brezza che non ne voleva sapere di andar via.
<<  Ragazzi … lo sentite anche voi?  >> Chiesi, rompendo quel silenzio angosciante che si era venuto a creare.  Ero rimasto così preso ad ammirare il giardino che quasi avevo dimenticato di non esserci venuto da solo.
<<  Ragazzi?  >> Balbettai, questa volta alzando la voce.
<<  Insomma, sarebbe davvero cortese se qualcuno di voi si decidesse a rispondere…  >> Gridai, voltandomi.
E fu così che mi accorsi che loro non c’erano più.
Erano spariti, lasciandomi solo, in mezzo a quel corridoio.   Solo, con quel ticchettio assordante che continuava a ronzarmi nelle orecchie, facendomi impazzire.
< < Ragazzi…  >> Sussurrai, spaventato.
 
Tornai indietro velocemente, cercando di calmarmi.   Come potevano essere spariti tutt’ad un tratto? 
Pensai che avrebbero potuto avere paura, e così avevano deciso di tornare indietro.  Che mi sarebbe bastato tornare sui miei passi per uscire dalla villa e ritrovarli.
Spensi la torcia del mio cellulare, per non scaricarlo.  Purtroppo non aveva alcun segnale, quindi non riuscì a chiamare nessuno.
Mi fermai per un istante, prendendo fiato.  Ero stato io a voler entrare lì dentro, come potevo essere così turbato solo per aver perso di vista i miei amici? 
Rimasi in quel punto ancora un po’, aspettando che sbucassero dal nulla.  Ma non successe.  Ero da solo, con il frinire dei grilli rimbombava come un eco tra quelle fredde mura.
E poi lo realizzai.
Non era l’essere rimasto solo che mi faceva paura.
Era quel dannatissimo ticchettio che mi perseguitava. 
Basta.   Pensai.   
Basta.  Ripetetti, parlando tra me e me, cercando di coprire quell’odioso rumore.  
<< Andiamo ragazzi, se è uno scherzo, è davvero di pessimo gusto.  >> Urlai, velocizzandomi.
Ma, più avanzavo, più mi sembrava di rimanere fisso nello stesso punto.   Non credevo di aver camminato molto, né di aver cambiato direzione.  Eppure ero sempre lì, a camminare lungo un corridoio immenso.
Più andavo avanti, più mi sentivo come intrappolato in un labirinto infinito.  Passo dopo passo, lo stretto passaggio che avevamo oltrepassato per entrare nella villa sembrava allontanarsi sempre di più, per poi sparire e trasformarsi ancora e ancora nello stesso corridoio.
Un corridoio interminabile, che si ripeteva allo stesso modo, senza modificarsi mai, accompagnato da quello stridulo suono.
Pensai che fosse la paura.   Che lo stupido scherzo organizzato dai miei amici mi stesse facendo spaventare a morte.  Alla fine non ero coraggioso come volevo far credere.
Magari ero anche più terrorizzato di loro.  
Ma perché quel posto mi stava dando alla testa?
Decisi di fermarmi.   Continuare ad andare avanti non aveva senso, probabilmente senza rendermene conto avevo cominciato un altro corridoio e mi ero perso.   Anche se non fossi riuscito a tornare indietro, gli altri avrebbero chiamato aiuto.   O nella peggiore delle ipotesi, avrei dovuto aspettare che facesse giorno per capire dove fosse finita l’uscita.
Fu in quel momento che mi balzò in testa una strana idea.   Un’idea stupida e che mi terrorizzava.   Ma se non potevo tornare indietro, tanto valeva andare avanti.
Tanto valeva seguire il ticchettio.
 
Il vento soffiava sempre più forte, ed era ormai notte fonda.   Non sapevo che ora fosse, e non sentivo il bisogno di controllare.   La mia mente era totalmente presa da quel rumore che aumentava sempre di più, ad ogni mio passo. Le mie pupille si erano abituate al buio, e quasi riuscivano a delineare tutto ciò che c’era intorno a me.  Dai cespugli ai sottili ramoscelli che sbucavano dal nulla.
Avrei potuto evitarli, ma non lo facevo.  Lasciavo che grattassero sulla mia pelle, graffiandomi.   Lasciavo che mi lacerassero lentamente, come delle lame.
Ma non faceva male.
No, non provavo alcun dolore.   Perché quel ticchettio copriva ogni cosa.
Era diventato come un’ossessione.
Trovai finalmente una nuova entrata.   Superai l’arco al termine del corridoio e mi avventurai all’interno del parco immenso che circondava il museo.
La luna illuminava gli alberi imponenti che coprivano le grosse mura.   Vi era un piccolo parco giochi per bambini, nascosto lì dietro.   Alcune delle giostre erano completamente arrugginite e non la smettevano di cigolare.
Ma, nonostante quel cigolio fastidioso, riuscivo ancora a distinguere quello che era il motivo per cui ero andato avanti.   Il rumore che mi stava dando alla testa, facendomi impazzire.
Dovevo capire cosa fosse.   Dovevo farlo smettere.
Continuai a seguirlo, camminando lentamente.  Stavo attento a non fare troppa pressione sul terreno, per non coprirlo con il rumore dei miei passi.   Superai l’altalena, che dondolava spinta dal vento.
Mi sembrò di sentire una sottile risata, e mi guardai intorno.
Andai oltre lo scivolo che, nonostante fosse coperto dalle foglie, riusciva a riflettere il mio viso:
Mi guardai, abbozzando un sorriso.  I miei riccioli neri erano completamente scompigliati e i miei occhi marroni sembravano neri come la pece, nell’oscurità di quella notte.
Scoppiai a ridere.
Non so perché lo facessi.   Non so perché guardare la mia immagine suscitasse tanto divertimento dentro di me.
E poi lo sentì di nuovo, ancora più forte.
Era lì, alle mie spalle.
Adesso siamo solo noi due.
Mi avvicinai di scatto a quello che sembrava un piccolo pozzo di pietra e rimasi immobile ad osservarlo, in silenzio.
Per un attimo il vento smise di soffiare.   Il cigolio dell’altalena al mio fianco cessò, e le nuvole coprirono quel poco di luce che la luna piena riusciva a darmi.
Ma quel ticchettio rimase, più forte di prima.
Batteva incessantemente dal fondo di quel pozzo, prendendomi in giro.
Ma sta volta no, non mi avrebbe portato alla pazzia.   No, io l’avrei fatto smettere. 
 
Afferrai con le mie mani sottili l’enorme masso che ricopriva metà dell’apertura e provai a spostarla, usando tutte le mie forze.
I graffi sulle mie braccia cominciarono a bruciare, e adesso ne sentivo il dolore intenso che mi provocavano.
Il sangue che scivolavano lungo la mia pelle pizzicava ad ogni mio movimento.
Strinsi i denti, e mi sforzai a buttare via quella pietra che mi separava dal mio obiettivo.
E poi la spostai.
Con un botto, la roccia cadde al suolo, provocando un rumore assordante.
L’erba sul terreno si mosse leggermente, e la luna tornò a risplendere, illuminandomi.
Appoggiai le mani sulla gelida pietra intorno alla cavità del pozzo, con il cuore che mi batteva a mille.  
Ero agitato e spaventato.
Mi feci forza, nonostante le gambe mi tremassero al tal punto da fare fatica a reggermi.
Guardai al suo interno, affacciandomi leggermente e tenendo ben sale le mani dove potevo tenermi.
Il battito del mio cuore si faceva sempre più forte, arrivando quasi a coordinarsi con il ticchettio.
Rimasi immobile a guardare nel vuoto, ascoltando quel battito aumentare sempre di più.
E poi scoppiai ancora una volta in una grossa risata di gusto.
Risi, senza staccare le mani dalla roccia al quale mi ero aggrappato.
Risi, mente le lacrime scivolavano lungo il mio volto, bagnandomi le guance.
Risi, perché forse avevo capito che quella notte sarei impazzito.
Risi, perché capì che quel rumore altro non era che il battito del mio cuore.


#Angolo dell'autore:
Salve a tutti! Questa è la mia prima storia con una tematica horror.  Quindi beh, sto ancora cercando di padroneggiare questo tipo di narrativa.  La storia è ambientata in una villa realmente esistente (Che è proprio quella che vede nell'immagina posta sopra), mi piaceva l'idea di ambientare un racconto in un luogo reale.  Che dire, spero vi piaccia questo primo capitolo che possiate lasciare una piccola recensione,  magari per farmi capire come me la cavo con questo genere.  Ah, il protagonista è sì impazzito già da adesso, ma non a caso.  Ma... Se vi dicessi tutto nel primo capitolo, che senso avrebbe andare avanti? Darò un senso ad ogni cosa capitolo per capitolo, abbiate fiducia.  Non è tutto senza senso come sembra... ricordatelo.   Alla prossima!
-Aleviv. 
   
 
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