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Autore: Kengha    11/09/2015    1 recensioni
Naga galoppò al mio fianco e mi superò con poche falcate, raggiungendo agilmente il marciapiede opposto, guardandomi e scodinzolando appena. Quando la raggiunsi le carezzerai una volta la testa bagnata e poi ripresi a camminare, oltrepassando con le gambe tremanti quel cancello che dopo quasi quindici anni avevo preso ad odiare fin troppo profondamente. Non eravamo credenti, nessuna di noi due lo era mai stata, ma l’idea di farla seppellire lì l’aveva avuta suo padre e, altra cosa che col tempo avevo avuto modo di imparare fin troppo bene, nessuno poteva dire di no ad Hiroshi Sato.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, FemSlash | Personaggi: Asami, Korra
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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A Great Day for Freedom

Con un sospiro rivolsi lo sguardo al cielo, grigio, torbido, comunque lo stesso di quattordici anni fa. Pioveva e forse era l’unica cosa di cui ero grata, perché la pioggia comportava in qualche modo silenzio e le spesse nuvole scure richiamavano il dolore, la sofferenza. Grosse gocce d’acqua mi bagnarono il volto scoperto mentre tenevo il viso ancora alzato: non mi preoccupai di asciugarmi, di mettermi al riparo, del resto la pioggia mi stava rendendo più facile cancellare il segno del pianto. Fu un tuono a distogliermi dai miei pensieri, seguito da un clacson e le grida di qualche adolescente contrariato, un ragazzino che al tempo in cui migliaia di vite vennero spazzate via era forse ancora un poppante e che, probabilmente, non dava il minimo peso a quale giorno fosse.
Posai finalmente lo sguardo sulla mia unica compagna e le rivolsi un sorriso forzato, aveva trovato riparo sotto un portico a qualche metro di distanza e, con una certa energia, si stava sgrullando, cercando di togliere più acqua possibile dalla morbida pelliccia bianca.
« Naga! » Mi bastò chiamarla una volta per vederla correre nella mia direzione, evitando agilmente nonostante la sua grande statura tutti i cittadini che camminavano a passo svelto nella direzione opposta alla sua.
Finalmente la luce del semaforo era diventata verde.
Attraversò rimanendo stretta al mio fianco, sfiorandomi i polpacci col muso bagnato, guardandomi con consapevolezza e comprensione. Era solo un cucciolo quando era successo e fu l’ultimo regalo che lei avesse mai avuto la possibilità di farmi. Un cane tanto bello quanto intelligente, Naga , che era sempre saputa stare al proprio posto e, nonostante la sua esuberanza generale, mi conosceva abbastanza da sapere quando non era il caso di giocare, quando doveva solo rimanere al mio fianco, in silenzio. Riuscivo a scorgere le mura della cappella anche da questa distanza ed istintivamente i miei occhi si posarono sull’ampia porzione di cielo visibile alle sue spalle: quel cielo che, per tanti anni, da quella stessa postazione, non era stato visibile.
Nel giorno in cui i muri caddero la Nave dei Folli s'era finalmente arenata.
Attraversai quell’ultima strada che mi separava dalla chiesa, approfittando di un fattorino che sembrava aver intralciato momentaneamente il traffico. Naga galoppò al mio fianco e mi superò con poche falcate, raggiungendo agilmente il marciapiede opposto, guardandomi e scodinzolando appena. Quando la raggiunsi le carezzerai una volta la testa bagnata e poi ripresi a camminare, oltrepassando con le gambe tremanti quel cancello che dopo quasi quindici anni avevo preso ad odiare fin troppo profondamente. Non eravamo credenti, nessuna di noi due lo era mai stata, ma l’idea di farla seppellire lì l’aveva avuta suo padre e, altra cosa che col tempo avevo avuto modo di imparare fin troppo bene, nessuno poteva dire di no ad Hiroshi Sato.
Aveva avuto abbastanza soldi, conoscenze e volontà per imporsi su chiunque riguardo quella decisione e fare in modo che la sua unica figlia avesse un’elegante tomba marmorea nel retro della piccola St. Paul.
Raffinata, certo, ma pur sempre una tomba.
Strinsi con forza il mazzo di fiori che tenevo in mano e a stento riuscii a trattenere un ringhio di rabbia, di frustrazione, che serviva a mascherare solo il turbinio di emozioni che ancora portavo dentro. A trentacinque anni qualcuno si sarebbe rifatto una vita, qualcuno sarebbe andato molto avanti e avrebbe provato qualunque cosa pur di ricominciare… anch’io ci avevo provato. Non subito, ma lo avevo comunque fatto. E alla fine, ogni singola volta, mi ero ritrovata di nuovo davanti quella maledettissima lapide, a stringere i pugni e a piangere su quel terreno fangoso su cui mi inginocchiavo ogni volta.
C’era stato un tempo, con lei, a vent’anni, in cui avevo creduto davvero di avere riservato un piccolo spazio del mondo, era il tempo in cui le Promesse accendevano la notte come colombe di carta in volo.
Bello, carico di sogni come quello di qualunque altra ragazza della mia età, felice… e proprio per questo era finito presto.
Un singhiozzo sordo proferì dalla mia bocca e ancora una volta mi ritrovai totalmente incapace di trattenere le lacrime, priva della benché minima voglia di farlo; i miei occhi annacquati fissi su quel nome che, un tempo, era stato il mio tutto e che ora non era altro che una grigia incisione sulla pietra.

Asami Sato
18 Agosto 1978 - 11 Settembre 2001
Ed era solo colpa mia.
Era iniziato tutto con un litigio, di quelli così frivoli che alla fine non importano nemmeno più le motivazioni.



09/ 11 / 2001 - 7 am
« Come fai ad essere così ipocrita! » Esclamò la ragazza dai lunghi capelli neri, gettando con poca grazia l’elegante borsa di pelle sul divano dell’appartamento.
« Come puoi essere così egoista! » Rispose a tono l’altra, con la pelle ambrata e gli occhi di ghiaccio.
« Io, egoista? E sentiamo, chi è che ha deciso, la settimana scorsa, che non saremmo andate alla cena organizzata da mio padre per festeggiare la tua entrata nella compagnia? Sai quante scuse ho dovuto mettere su per apparire convincente e per coprire questo tuo… capriccio? »
« Oh, un capriccio! Come quello di adesso, immagino, perché io sono sempre la bambina mentre tu la ragazza matura, la donna vissuta ».
« Sì, infatti, questa è solo una tua ennesima presa di posizione e solo perché non sopporti i miei colleghi! »
« Ognuno ha le sue antipatie, non puoi obbligarmi a farmeli piacere ».
« Si tratta di lavoro, accidenti! E, francamente, non m’interessa se tu li sopporti o meno, almeno fino a quando le decisioni consequenziali a questi tuoi fantasmi non ricadono su di me! La compagnia con cui dobbiamo accordarci a Washington è indispensabile per le Industrie del Futuro! » Avevano entrambe perso la calma da un bel pezzo e oramai la speranza che la conversazione potesse riprendere una piega pacifica e “normale” era decisamente sfumata. La ragazza più bassa diede un calcio al divano, spaventando e facendo sobbalzare il cucciolo di Pastore Maremmano che fino a quel momento aveva riposato tranquillamente su un cuscino, nonostante le grida.
« Le mie scelte ricadono su di te da quando hai avuto la brillante idea di farmi assumere da tuo padre! »
« Ah, quindi sarebbe colpa mia? E, sentiamo, chi è che stato a lamentarsi per settimane perché non trovava un lavoro con uno stipendio decente e che nonostante io abbia insistito per altrettanto tempo che il mio sarebbe bastato a mantenere entrambe, mi ha letteralmente supplicata di cercarle un nuovo lavoro? » Gli occhi verdi di Asami erano dardeggianti, il volto -generalmente pallido- vistosamente arrossato e il tono estremamente al di sopra del solito.
« Non avevo chiesto questo! Tailleur, grattaceli e cene di lusso sono la
tua vita, non la mia! Non potrebbero mai essere la mia! »
E la bruna volle rimangiarsi quanto detto appena l’attimo seguente, quando -dopo essersi ammansita di colpo- rivolse uno sguardo colpevole alla sua ragazza che, al contrario, la guardava in maniera truce e… ferita. Profondamente ferita.
« Credevo che questa fosse la
nostra vita » Sibilò la mora, compiendo agili falcate nonostante i tacchi a spillo per raggiungere la borsa che aveva lanciato poco prima.
« Asami n-non… non era quello che volevo dire, io… »
« No, no invece era esattamente quello che volevi dire » e questa volta fu difficile stabilire se fecero più male le sue parole o il tono spezzato con cui vennero fuori « I-io non ti ho mai obbligato a fare nulla, anzi, non ti ho mai chiesto di far nulla! Le decisioni che abbiamo preso… le scelte che abbiamo fatto, lo abbiamo sempre fatto insieme. Con che cuore vieni a dirmi che tutto questo, che la nostra intera vita, sia dipesa solamente dalle me? » Fu un gesto furente quello con cui Asami si asciugò la solitaria lacrima sfuggita ai suoi occhi.
« Ho sbagliato, scusami… » Sussurrò la più piccola, volgendo lo sguardo sui suoi piedi.
« Sai cosa, lascia stare di venire al lavoro, oggi… Mi occuperò io delle mansioni di entrambe. Anzi, andrò subito in ufficio, un po’ d’aria mi farà bene »
« Asami… »
Ma lei era già distante, con un piede sulla porta e i documenti tra le mani.
« Occupati di Naga, tornerò stasera per preparare la valigia e i vestiti da portare a Washington. Buona giornata, Korra ».



Quelle maledette parole risuonarono nella mia mente come se mi fossero state pronunciate da appena pochi minuti e l’idea che quell’ironico augurio di passare una buona giornata fosse stata l’ultima cosa che avessi sentito dire dalla mia Asami mi faceva letteralmente impazzire.
“Hai sempre avuto un pessimo tempismo, ma quella mattina ti è venuto fuori proprio di merda, Korra” mi rimproverai per la millesima volta, tirando su col naso.
Sarebbero bastate appena un paio d’ore e nulla sarebbe successo. Sarebbe bastato evitare quella squallida battuta sui colleghi di Hiroshi per lasciar uscire la Sato alle 9.00 -come di consueto- e darle dunque l’occasione di fermarsi in tempo, di essere solo una spettatrice di quel terribile evento e non una vittima. Carezzai con una mano tremante il gelido marmo gocciolante, sforzandomi terribilmente di non scoppiare a piangere ancora.
« Ho sognato che non eri più al mio fianco, non restava calore, né orgoglio… E anche se avevi bisogno di me era chiaro che non potevo fare niente per te ».
Avrei voluto essere al suo fianco quando è successo, avrei dovuto esserci. Ripensai al momento in cui avevo sentito il boato ed ero uscita in strada, al caos e all’ingorgo: non avevo capito cosa fosse successo e in alto, nel cielo, si levava solo fumo -tanto fumo-, sentii gridare qualcosa sulle Torri e attraversai quell’unico isolato che mi separava dal World Trade Center di corsa. Iniziai a pregare -per la prima volta in tutta la mia vita- che non fosse niente di grave, mai arrivando ad immaginare di essere sul punto di trovarmi davanti ad uno dei più terribili spettacoli. Mai pensando che Asami sarebbe potuta essere tra le vittime di uno di momenti di massimo squallore della razza umana.
Mi domandai per l’ennesima volta a cosa stesse pensando in quel momento e se, effettivamente, aveva avuto dei momenti per pensare. Se era andata via velocemente, o in sofferenza, se aveva pensato a qualcuno… se aveva pensato a me.
La sirena della polizia mi fece sobbalzare e ancora una volta mi riportò a quel giorno, facendomi annegare lentamente -per l’ennesima volta, per la quattordicesima volta- in un mare di terribili ricordi. Il respiro caldo di Naga contro la mia mano mi aiutò a rinsavire e mi voltai per accarezzarle dolcemente il petto, come a ringraziarla di quel silenzioso supporto. Nei suoi occhi scuri rividi il momento in cui me l’aveva donata e la gioia di quel giorno. Finalmente posai i fiori alla base della lapide e sfiorai il suo nome per la seconda volta.
« Ho trovato un nuovo lavoro, in una pizzeria ad un paio di isolati… niente di speciale, in realtà sono solo una cameriera, ma almeno mi permette di pagare l’affitto del locale dove siamo io e Naga ». Non l’andavo a trovare spesso e per questo motivo le poche volte in cui avevo il coraggio di ritrovarmi di fronte a lei  -di affrontare la realtà- avevo molte cose da raccontare « Ah, già, abbiamo cambiato casa… di nuovo, questa ha una stanza in meno ma la vista non è affatto male. E-e mi sono tagliata i capelli, avevo bisogno di qualcosa di diverso ». Come di riflesso, portai una mano a stringere le mie corte ciocche scure, incollate contro il mento a causa della pioggia. Avrei voluto dirle di più, avrei voluto dirle tutto, ma non era più tempo di farlo.
« Ora la vita si svaluta giorno per giorno, mentre amici e vicini se ne vanno via e c'è un cambiamento che, seppur con rimpianto, non può non essere fatto ». Parlai a bassa voce, quasi si trattasse di un segreto e forse lo era. In quegli anni, nonostante le cose accadute, nonostante le scelte prese, rare erano state le occasioni in cui ero andata a trovare Asami per raccontarle qualcosa. Mai per parlarle in quei termini.
Per dirle addio e per lasciarla andare.
« Questa mattina mi sono svegliata al suono dei tamburi: la musica suonava, il sole del mattino entrava… mi sono voltato e ti ho guardato; ho fissato così a lungo la tua immagine che per un momento -un fugace, splendido, momento- mi sono illusa che fossi davvero ancora al mio fianco. Ho guardato i tuoi occhi, i tuoi capelli, le tue labbra, il tuo sorriso… E tutto, tranne un piccolo residuo, è scivolato via… ».
Mi accorsi solo in quel momento che aveva smesso di piovere e che il cielo -fino a poco fa nero- era stato squarciato da uno splendido arcobaleno che dipingeva coi suoi colori il punto esatto dove, solo quattordici anni prima, si ergevano in tutta la loro magnificenza le due torri.

Scivolato via.
 


Angolo dell'Autrice: Le strofe usate sono parte della canzone "A Great Day for Freedom" dei Pink Floyd. Chiedo scusa per eventuali errori e/o sviste e per l'aborto generale in sé... volevo davvero scrivere qualcosa di Korrasami. 
Besos 
   
 
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