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Autore: Bess Black    12/09/2015    3 recensioni
I protagonisti sono Cedric e Laurence, ma le loro due storie sono separate, staccate, totalmente disgiunte.
In realtà, dal prologo sappiamo che sette anni dopo l'ambientazione della storia saranno sposati, ma quando torniamo al presente narrativo Laurence è la figlia di una famiglia benestante che si ritroverà a dover fare sacrifici, in realtà anche voluti, per aiutare un completo sconosciuto, Goran, e d'altra parte Cedric, ad un certo punto e senza alcun motivo o sensatezza, inizierà a ricevere lettere anonime e di contenuto potenzialmente pericoloso: in quelle lettere una sconosciuta gli confida segretamente gli abusi domestici che riceve e lui cerca di fare di tutto per scoprire chi è e come aiutarla.
Ma il ragazzo che sta cercando di aiutare Laurence non è solo reduce di torture di guerra, è anche serbo; la sconosciuta che Cedric tenta di liberare dagli abusi è bangladese e loro vivono in un Canada ancora troppo intollerante e razzista per poter sperare di aver la possibilità di amare com'è giusto e sbagliato amare, senza distinzioni, premesse od esclusioni.
Genere: Angst, Malinconico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Scolastico, Storico
Capitoli:
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Capitolo I
Porte chiuse
 
 

 
Sette anni prima
5 Ottobre 1994
 

 
Villa Hume aveva un sistema di sicurezza centralizzato e direttamente collegato alla videosorveglianza regionale del dipartimento dello stato dell’Alberta, tramite un impianto d’allarme antifurto, interno ed esterno, del vicinato.
Ciò nonostante, cinque individui non identificati s’introdussero all’interno dell’abitazione, la sera del cinque ottobre, ma l’intero complesso di apparecchi non ricevette alcuno stimolo e, quindi, non segnalò alcuna anomalia.
Nel successivo rapporto dei gendarmi, dalle testimonianze raccolte e poi dimostrate da circostanze ed alibi inconfutabili, nessuno dei due coniugi Hume risultò presente all’interno dell’abitazione, solamente i due figli ed il personale fisso. La polizia contò tre cameriere, una cuoca, un maggiordomo che rivestiva anche l’incarico di giardiniere; ed i figli, naturalmente, Laurence e Léonard Hume.
Non appena il caso venne passato agli ispettori gendarmi, venne condotta un’analisi più accurata delle circostanze domestiche e scrupolosamente diacronica: non poteva essere una coincidenza, avevano espresso i loro sospetti i poliziotti prima di rinunciare al caso, che nessuna delle telecamere avesse ripreso alcunché perciò, avevano dedotto, non era da escludere un possibile complice interno.
L’accesso al sistema telefonico provò loro che due delle cameriere e la cuoca erano impegnate in una chiamata internazionale alla quale avevano partecipato alternativamente tutte e tre in un arco di tempo che ricopriva lo stesso in cui si supponeva fossero entrati i ladri; il maggiordomo della tenuta venne ripreso più volte da alcune delle telecamere posteriori, mentre chiudeva uno ad uno tutti i rubinetti d’irrigazione del giardino e, assieme a lui, la terza delle cameriere che lo aveva aiutato porgendogli il materiale tecnico necessario. Non ci fu modo di provare alcun coinvolgimento nella rapina, ma l’ipotesi non fu mai rimossa dal fascicolo.
 
Ero in camera mia e mi pettinavo i capelli – aveva detto alla madre prima e ad ogni poliziotto o gendarme che le aveva domandato cosa stesse facendo in quel preciso segmento di tempo – stavo solo pettinando i capelli.
Avrebbe ricordato quel preciso momento di quiete personale a vita, solamente a causa di ciò che lo seguì. L’innocenza dell’istante prima del peccato, ma a chi spettasse l’innocenza e a chi il peccato era un terzo attimo che non avrebbe risolto, non in vita, non con la volontà, non in questa storia.
Non mi sono mossa, pettinavo i capelli – seppe specificare poi, ma solo alla madre – è stato Léonard a venire a da me, ha detto di aver sentito rumori, io mi pettinavo i capelli. Diglielo, Léo, dillo alla mamma, dille che ero in camera e mi pettinavo i capelli.
Sua madre fu la prima a sospettare che mentisse, l’unica ad averne poi la certezza. E glielo aveva detto proprio accarezzandole i capelli la mattinata dopo la rapina. Non so cosa tu stia nascondendo né tantomeno perché, ma assicurati di mentire con più convinzione quando sarai interrogata; io mi preoccuperò di convincere tuo padre ad insabbiare l’accaduto il prima possibile. Voleva che fosse una promessa equa e che Laurence ne sentisse la giusta pressione – od oppressione, perciò l’aveva fatta sedere di fronte al comò e si era posta dietro di lei, incurvandosi appositamente in modo da essere riflessa nello specchio, affinché che la figlia la vedesse sovrastare la sua immagine sia di fronte a lei che alle sue spalle. Tieni la testa bassa, Laurence. Testa bassa e cerca di passare inosservata finché non saremo certi che tutto sta andando come meno peggio potrebbe. Aveva preso la spazzola di legno d’ebano e le aveva pettinato i capelli, con dolcezza pratica e misurata. Tieni la testa bassa fino a quando non troviamo un capro espiatorio e possibilmente anche dopo che l’avremo trovato.
Testa bassa era stato il primo comandamento di Laurence, l’undicesimo tenendo conto della religiosità in famiglia. Sua nonna glielo aveva imposto, quando ancora era una bambina ed a malapena i suoi tratti si delineavano; sua nonna ci aveva visto giusto, lontano e da lontano, e l’aveva condannata con parole consacrate dalla presenza di tutta la famiglia; le aveva accarezzato le labbra, in maniera quasi invasiva, ma si era assicurata di parlare ad alta voce. Tanta bellezza è una condanna, bella bambina. Testa bassa se non vuoi che la tua vita ne sia l’espiazione, testa bassa sempre.
Sua madre aveva amato quelle parole, le aveva venerate fino a farne un’arte propria. Lei e la nonna avevano speso pomeriggi interi a guardarla e chiacchierare d’espressioni superficiali quanto la cute – ironicamente, la sua di cute – e ad avvertirla testa bassa, bella bambina.
Non era stato il loro modo di proteggere, era stato il loro modo di prevenire. Sua madre aveva fatto della raccomandazione della nonna un motto e, dopo che decedette, una reliquia; era stata accortamente disonesta ad associare la memoria della nonna o a ridurre la sua intera presenza in vita ad un unico momento in cui, illuminata, aveva pronunciato parole tanto profetiche e provvedute: testa bassa, bella bambina, testa bassa sempre.
Laurence non aveva mai avuto alcunché da ridire, ma la signora Hume aveva abbastanza esperienza in vita da trarne la certezza che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe biasimato, in cui la curiosità di sé avrebbe maturato il giusto egoismo da volersi affermare su quello famigliare e collettivo; e questo fu uno dei principali motivi per cui si era trattato più di prevenzione che di preoccupazione. Era capitato infatti che a Laurence sfuggisse un perché, chiesto ad un quarto di tono e tre quarti di irresolutezza, perché tutti quello che faccio devo farlo a testa bassa?
Proprio per riuscire a fare quello che devi fare, bella bambina – aveva sorriso con pazienza la sua mamma – tutto ciò che sale è destinato a scendere, a precipitare, a rovinare in basso e tu, bella bambina, a testa bassa lo potrai vedere nella sua forma più pura, più debole e più umana. Aveva quindici anni all’epoca, aveva appena iniziato il corso di filosofia a scuola, perciò diede alla spiegazione della madre molto più contenuto di quanto da sé ne proponesse.
Suo padre non aveva mai avuto nulla da specificare in questione, nulla da ritrattare o incorporare alla sacro santità della sentenza emessa sulla figlia; spesso si era mostrato maldisposto e riluttante quando la moglie gli chiedeva di supportarla a mettere in ordine la disciplina – o la penitenza – con la quale si era imposta di educare la figlia, ma la sua era stata un’ostilità sterile, fine a sé, effettivamente insignificante: per quanto fosse emersa la sua avversione in determinate circostanze, tale avversione si limitava a sfociare in espressioni contrariate e refrattarie. Laurence lo guardava a testa bassa scuotere il capo renitente a supportare attivamente la moglie, ma continuando a sfogliare uno dei volumi della sua collezione di enciclopedie e, quindi, supportandola passivamente; lo guardava a testa bassa fumare uno dei suoi sigari, col giornale spiegazzato sottobraccio e nessuno con cui commentare le notizie della giornata; lo guardava a testa bassa, in sala da pranzo, mandar giù gli sproloqui da casalinga e psicologa mal riuscita della moglie assieme a primo, secondo e contorno, ed uscirne a pancia gonfia e con qualche commento retorico sulla qualità di un pasto in particolare tra quelli assaggiati, prima di allontanarsi il più mimeticamente possibile, diretto verso il suo studio. In un qualche modo, più o meno meditato, anche lui a testa bassa.
 
I poliziotti si erano sbagliati, così come i gendarmi: gli intrusi non erano cinque, ma sette – altri tre erano entrati dalle cantine; forse per questo Laurence non era riuscita a prendere le loro indagini, con tanto d’interrogatori elusivi, sul serio. Era chiaro che, per quanto questi ladri potessero essere esperti, riuscire a prelevare in così poco tempo tre chili e mezzo di argenteria dalle vetrine nell’atrio, due d’oro in gioielli dalle camere della signora Hume al terzo piano, quattro apparecchi tecnologici – di cui tre dallo studio del padre ed uno dal corridoio del secondo piano ed infine, un veicolo dal giardino non era solo una questione di capacità o audacia, ma anche d’imprescindibile disperazione. Questo però, non l’avrebbero capito, nemmeno a distanza d’anni dall’accaduto; ancora una volta, non in questa vita, non in questa storia.
Nel fascicolo venne riportato errato anche il calcolo temporale: questo perché erano state manomesse le telecamere, ma era un’ovvietà talmente palese che Laurence era certa non l’avrebbero mai valutata a sufficienza – e lei non aveva modo d’impartir loro una lezione esistenziale, senza passare inosservata. O, perlomeno, non aveva modo di spiegar loro che il sistema di sicurezza era stato manomesso prima dell’invasione – avrebbero sicuramente fatto domande e, sua madre era stata indicativa in un modo che mai l’avrebbe soddisfatta altrettanto, lei doveva tenere la testa bassa.
Quando ispezionarono la dimora non tennero conto di una serie di dettagli: dalla mancanza di due tende simmetriche, alla soffusa puzza di bruciato nell’aria; dalla mal funzionalità di un apparecchio telefonico allo sporco di rossetto sulla moquette. Non avevano nemmeno azzeccato le vie d’entrata e d’uscita. Eppure, si era ricordata mentre due poliziotti frugavano nei cassetti di camera sua, questa rimaneva solamente una possibile dimostrazione scientifica della loro incapacità di comprensione.
 
Quando i ladri si erano intrufolati nell’abitazione, Laurence era seduta davanti al comò. Su questo non aveva mentito.
Più precisamente, e meno sinceramente da parte sua, bisognava considerare che il comò non era il suo, ma quello della camera della madre. Se l’ispettore fosse stato a conoscenza di tale rapporto spaziotemporale, avrebbe immediatamente – e giustamente – dedotto che era ancora nella stanza quando era stato saccheggiato l’oro della madre. Notando le macchie di rossetto, avrebbe saputo che si era nascosta banalmente sotto il letto e che quindi poteva esserci una spaventosa possibilità che il ladro presente nella stanza l’avesse notata, e la signora Hume avrebbe saputo che da tempo la figlia approfittava della sua assenza per frugare tra i suoi cosmetici personali, trovando a questo punto molto da ridire sul suo modo incoerente di tener testa bassa. Tuttavia nulla di tutto ciò ebbe la possibilità di susseguirsi perché Laurence non specificò o riportò la sua prima collocazione né tantomeno la certezza che il ladro l’avesse vista e ignorata. E ancora una volta con personale appagamento, si beò del suo modo di tener testa bassa.
Uscì dalle camere della madre poco dopo aver sentito il rapinatore scendere le scale e si diresse immediatamente nella stanza del fratello, senza trovarlo. Se l’ispettore fosse stato a conoscenza di tali sfuggite dinamiche avrebbe potuto ipotizzare che l’intruso conoscesse più che sufficientemente la struttura della villa, ma non avrebbe congetturato alcunché sull’assenza di Léonard, solo la madre sarebbe potuta esser sospettosa – e chissà, magari avrebbe pettinato i capelli anche a lui davanti allo specchio di un comò, la mattina dopo l’accaduto.
Non appena fu certa che non fosse nascosto nel bagno, Laurence sbucò direttamente nella sua camera attraversando l’atrio che collegava la sua stanza a quella del fratello. Non si azzardò ad accendere nemmeno la luce delle lampade, zoppicò nel buio chiamando a bassa voce i nomi degli inservienti nel caso si fossero nascosti anche loro e per un momento pensò di vestirsi e provare a scappare dalla finestra; non prese seriamente in considerazione l’ipotesi, ma cercò comunque qualcosa da mettere sopra il camice da notte, quando improvvisamente suo fratello entrò chiudendosi la porta alle spalle, illuminando parzialmente un angolo acuto della stanza che gli permise di farsi riconoscere e di notarla piegata a tentoni sul suo armadio. Le disse di non aver visto nulla, di aver solamente sentito dei passi sospetti, ma disse anche che era rimasto in camera sua tutto il tempo, prima di decidere di venirla a cercare e fu per tale motivo che Laurence decise volontariamente di tener testa bassa e di non fargli notare che sapeva stesse mentendo; piuttosto ripeté le sue esatte dichiarazioni: anche lei non era uscita di camera sua, pensava di andarlo a cercare, non aveva visto nulla, solamente sentito qualche rumore. Gli propose di uscire insieme e di andare a cercare Gilbert, il maggiordomo, o perlomeno di raggiungere il telefono nel ripostiglio degli inservienti al secondo piano; lui non fu d’accordo e obiettò che sarebbero dovuti rimanere rintanati ed aspettare, replicò che non era il caso di rischiare. Quello che avrebbe dedotto l’ispettore, se avesse saputo questi successivi avvenimenti ed il veloce scambio di battute tra fratello e sorella non lo avrebbe detto; Laurence era certa che sarebbe rimasto custodito ai fini dell’indagine e che, allora, l’indagine avrebbe preso tutto un altro andamento – tanto quanto le motivazioni d’orgoglio materno della signora Hume.
Rimasero d’accordo che lei sarebbe uscita a cercare qualcuno o a contattare un numero d’emergenza se fosse riuscita ad arrivare al piano di sopra, ma che altrimenti o eventualmente sarebbe comunque tornata in camera in fretta.
Laurence Hume uscì solo dopo aver nascosto il fratello nell’armadio, ben occultato tra gli indumenti, così nel caso la porta avesse cigolato e qualcuno fosse salito a cercarli, avrebbe faticato a trovarlo. Gattonò lungo il corridoio principale e poi a ridosso degli scalini, in modo che la sua ombra non potesse in alcun modo sporgere oltre le porte delle stanze o lungo le scale. Strisciò fino al ripostiglio del materiale degli inservienti, aprì il più lentamente possibile la porta, raggomitolandosi subito nell'angolo che creava col muro una volta chiusa. Si protese verso il tavolino dove era certa che avrebbe trovato il telefono fisso del piano; se lo avvicinò senza alzarsi, ma iniziò a premere cifre indistinte freneticamente, per accertarsi che funzionasse. Lo schermo della tastiera numerica emise una luce spenta e dilata, notturna, ma bastò ad illuminare sia la sua ombra che quella di colui che si affrettò a tapparle la bocca.
Furono una serie di meccanismi e reazioni a cascata che non le diedero il tempo di aver abbastanza paura da pentirsi di non aver dato retta a Léonard ed essere uscita dalla sua camera. In realtà non avrebbe mai più avuto il tempo di pentirsene.
«Zitta.» voce grondante d’affanno e tono rude, ruvido, su un altro livello di note rispetto a quelle richieste dalle parole; le lettere erano calcate su frequenze diverse: non ci fu bisogno che dicesse altro perché capisse che non sapeva parlare correttamente l’inglese.
Lo schermo della tastiera si spense e dei movimenti successivi sentì solo qualche frastuono sordo e la pressione di un palmo aperto sulle labbra.
L’ombra dell’uomo davanti a lei scricchiolò scura ed imponente tra l’ombra naturale data dall’assenza di luce, si alzò e smise di toccarla, ma chiuse la porta del ripostiglio con un calcio e accese la luce.
 
 
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Cedric spense la luce della stanza ed uscì chiudendosi la porta alle spalle con un calcio, rischiando quasi di storcersi la caviglia.
«Mamma, perché ci sono lettere del tuo gruppo del venerdì sul mio letto?»
«Che cosa?»
«Il tuo gruppo del venerdì. C’era una delle vostre lettere di propaganda sul mio letto.»
Cedric Dunsworth scese le scale fino al terzo gradino. «Tanto non mi unisco alle vostre chiacchierate contro la caccia, è inutile che ci provi.» si rigirò il foglio in mano. «E poi da quando li scrivete a mano ed in francese? Che diamine volete fare, reclutare tutto il Canada nel nostro salone e conquistare l’Alaska?»
La signora Dunsworth fu un clap armonico di ticchettio dei tacchi contro il parquet, dal bagno fino al sottoscala. «Non stampiamo più volantini di propaganda, funziona molto più il porta a porta.» non si avvicinò ulteriormente al lato su cui davano le scale perché dovette fermarsi di fronte allo specchio dell’atrio per sistemarsi gli orecchini. «E poi non li abbiamo mai redatti in francese, chi diavolo vuoi che ci vada fin in Quebec?»
Cedric si sporse oltre il corrimano, facendo cadere la sua risata da più di un metro d’altezza. «Niente Quebec, niente Alaska.»
«Niente francese, niente Quebec e niente Quebec, niente università di legge!» lo rimbeccò la donna, cercandolo in capo ai suoi capelli, sullo specchio. «Perciò vedi di andar a studiare, invece di disdegnare il nostro gruppo! Se partecipassi anche ad una sola seduta, ti renderesti conto che è molto più pedagogico ed istruttivo di quello che credi!»
«È proprio questo il problema, mamma.» le spiegò con ovvietà paziente e pacata. «È pedagogico ed istruttivo.»
«Non mi scimmiottare, razza di disgraziato! Se fossi un cervo o un cinghiale saresti molto più sensibile che ora da uomo!»
«Beh, non credo che i cervi si facciano domande sui nostri problemi. E scommetto la tua borsetta di perline verdi che nemmeno i cinghiali hanno tenuto un qualche raduno sulle condizioni dell’uomo, negli ultimi due millenni.» sbuffò, sventolando la lettera oltre il corrimano. «Certo, a meno che la storia non l’abbia documentato, in tal caso, chiedo perdono, è ancora una volta colpa degli uomini.»
Sua madre si voltò con uno scatto che mise alla prova la lacca che le teneva ferma l’acconciatura e si portò le mani sui fianchi dell’abito di velluto roseo. «Non usare le mie borse per le tue scommesse da antropocentrico ottuso e anglofono! Finirai per emigrare in Texas a vendere carne scaduta alla polvere!»
«Mamma, ti rendi conto di aver appena discriminato i monolinguisti, gli Stati Uniti e la razza umana in una frase sola?» le domandò, grattandosi il mento appena rasato con fare sinceramente meditabondo.
«No, io sto discriminando solo te.» specificò, questa volta con voce placida e con fare pacifico, afferrando la borsetta di perline verdi posta più volte in questione e puntandogliela contro. «E ti ricordo che sto perdendo un’altra serata della mia vita per assistere all’ennesima riunione tra genitori, perciò cerca di essere un minimo riconoscente.»
«Dovrebbero esserti riconoscenti gli immigrati, non io. C’è una ragione se non mi sono mai spostato dal Canada.» commentò meno solennemente di quanto richiedessero le sue parole.
La signora Dunsworth fece per lanciargli contro qualcosa, ma si trattenne perché in mano aveva solo la sua borsetta. «Ci sarà la professoressa di francese e se vuoi quei dannati crediti per accedere a Legge ti conviene collaborare, disgraziato!»
Cedric sbarrò gli occhi. «A proposito della professoressa Leroy» assunse un postura corretta prima di continuare, raddrizzando le spalle ed il capo. «Sta attraversando una difficoltosa e problematica crisi di… tarda età. Può darsi che questo suo disagio interpersonale sia sfociato in un’intensa attività psichica mirata alla creazione di malessere nell’ambiente esterno e che questo suo turbamento punti unicamente ad essere condiviso, se non sublimato, per non dire alienato, in oggetti mobili ed organici che talvolta coincidono con persone. E magari – e dico magari nel senso di forse, prendo umilmente in considerazione un’eventualità su mille, probabilità, margini di errore, modeste concessioni di dubbio – potrei essere nella cerchia ristretta a cui appartengono questi oggetti mobili ed organici, ma si tratta sempre di  plausibilità-» schivò l’ombrello tigrato della madre, cacciando un grido che fu sopraffatto da una piccola risata ribelle alla sceneggiatura.
«Cosa hai combinato?!» afferrò il portaombrelli all’angolo della porta d’ingresso, ignorando i clacson del taxi che l’aspettava per prendersi il tempo di scegliere uno dei parapoggia – uno che non fosse suo e che, magari, facesse male abbastanza.
Cedric rimase chinato e rispose tra le sbarre del corrimano, urlando. «Può darsi che martedì abbia fatto un test a sorpresa. Può darsi, dico.»
«E?» lo sollecitò, sollevando l’intero portaombrelli.
«È riuscita a sorprendermi sul serio.»
 
Marlene Côté si presentava Marlene Dunsworth per formalità – e, francamente, raffinatezza.
Lei e il signor Herbert Dunsworth non erano mai stati congiunti da unione matrimoniale, cerimoniale o anagrafica che fosse; per il periodo in cui erano stati sentimentalmente uniti avevano convissuto e da circa tre anni di quest’azzardata convivenza era nato il loro unico figlio, Cedric Dunsworth. In seguito alla pacifica separazione, la custodia era passata indiscutibilmente alla madre senza che la questione venisse giuridicamente disquisita; dalla sunnominata pacifica separazione era conseguito che, nonostante l’affidamento fosse materno, anche il padre avrebbe potuto vantare la sua patria potestà, chiaramente finché questa non contrastava con quella dell’altro componente genitoriale.
Tuttavia, Edmonton era una città di formalità – e, francamente, raffinatezze.
Marlene Dunsworth non godeva di una posizione mimetica, essere un avvocato penale non lo permetteva; essere un buon avvocato penale lo escludeva per principio. Aver poi convissuto con un uomo per tre anni, senza ufficializzare il rapporto, e avendo concepito un figlio fuori da questa mancata ufficializzazione aveva dato all’esclusione il fascino dell’irreversibile. Era l’avvocatessa penale dell’Alberta, quell’avvocatessa, sì. Brava, ti dico, fallisse un caso solo… Ma no, è brava sul serio, è riuscita a tenersi il figlio senza muover carta, il padre ha lasciato perdere immediatamente… no, non erano sposati! Ti rendi conto? Ma sì, sai com’è, al giorno d’oggi vogliono tutte far le indipendenti…
Ed allora, in termini di formalità – e, francamente, raffinatezza – il solo successo non bastava per mettere a tacere le bocche, bisognava imboccarle con l’incontrovertibile e, possibilmente, qualcosa che sapevan comprendere poco: dimostrare loro d’essere felice, con le proprie scelte e nonostante esse, ritagliandosi il tempo per dimostrarlo da quello che le era concesso per esserlo.
In seguito alla separazione aveva comperato un buon appartamento, non lontano dallo studio legale dove lavorava, in una villa quadripartita dalla proprietaria in appartamenti in virtù di affari; qualche anno dopo, riuscì ad acquistare anche il secondo piano, integrandolo così col primo in un’unica abitazione. Il signor Dunsworth mise a disposizione i propri requisiti architettonici e le proprie conoscenze edilizie per la congiunzione e la ristrutturazione dei due appartamenti, e lei fu abbastanza accorta e di buon animo da accettare la sua offerta – per quanto fosse chiaro che voleva passare più tempo col figlio, rimaneva un abile architetto. Cooperando per la strutturazione grafica, riuscì a far sì che nell’ampio atrio del piano terra venisse isolato lo spazio necessario per trasferire il suo studio direttamente nella dimora; la sua camera da letto e quella di un Cedric tredicenne furono invece edificate nel secondo piano. Il risultato fu ammirabile – in effetti, conseguentemente, ammirato – e, francamente, raffinato.
Cedric non aveva avuto nulla da ridire, forse il fatto che la madre avesse trapiantato la sua sede lavorativa due piani sotto camera sua non era vantaggioso quanto promettente per gli anni a venire, ma col passare del tempo si rese conto che, concretamente, passava nel suo studio meno tempo di quanto avesse temuto. E per qualche anno fu perfetto, almeno fino a quando la proprietaria mise in affitto l’ultimo piano che la madre non poté acquistare perché i risparmi rimasti erano adibiti all’università di Legge per il figlio e Cedric iniziò a condividere un corridoio e tre rampe di scale con le persone peggio combinate che circolavano in città. Ci avrebbe scommesso tutta la sua collezione discografica di Jazz e Blues che un paio di loro erano dei tossicodipendenti a livello psicopatologico e senza dubbio il barbuto che girava a piedi nudi che ospitavano in casa il finesettimana era il loro spacciatore. I suoi dischi di Jazz e Blues erano ancora in palio per quanto riguardava il coinquilino statunitense che si trasferì all’ultimo piano quando lui aveva appena iniziato il college: quel uomo era una spia americana all’interno della comunità canadese e, se necessario un giorno, l’avrebbe dimostrato e provato. La studentessa coreana sonnambula, invece, non era degna di essere compresa nella scommessa perché sarebbe stata un’offesa pubblica e sentita all’intera cultura Jazz e Blues di tutti i tempi; ricordava ancora che quell’anno era stato come vivere in un scenario da film dell’orrore: si chiudeva la porta a chiave e metteva le sedia contro la maniglia, e – non l’aveva detto alla madre – aveva nascosto una forchetta sotto il materasso in qualità di arma assolutamente efficace quanto innocua, così in caso fosse stato costretto o persuaso ad usarla, una forchetta sola avrebbe reso la questione giudiziaria di autodifesa più gestibile e lui, in qualità di minorenne, si sarebbe risparmiato anche i servizi civili. Quando l’anno dopo la studentessa coreana se ne andò e si trasferì a posto suo, qualche mese dopo, una coppia con tanto di neonato petulante compreso nel prezzo, Cedric rimandò ad un altro anno ancora il momento in cui avrebbe riportato la forchetta tra le posate, in cucina.
In realtà, la forchetta era ancora sotto il materasso ed era certo che l’avrebbe dichiarata in residenza all’ufficio anagrafico dell’Alberta, piuttosto che toglierla, soprattutto ora che ad aver affittato l’appartamento dell’ultimo piano erano dei satanisti che con il chiasso che facevano avevano alterato la produzione di melatonina nel suo corpo e portato alla luce, tramite un aborto spontaneo, due occhiaie gemelle, sposate dalla nascita coi suoi occhi finché morte non li avrebbe separati. E la sua forchetta, nelle ultime notti insonni, gli suggeriva ottimi metodi di massacro per far sì che morte li separasse.
La madre non aveva voluto saperne d’intervenire personalmente, nemmeno quando lui si era proposto di cercarsi un lavoretto per aiutarla purché comprasse l’ultimo piano e lo sottraesse agli attuali domiciliati che, oltre all’odore nauseabondo delle più svariate spezie che si catapultava giù dalle scale ed urtava direttamente contro il suo olfatto, riuscivano a produrre suoni paranoici all’udito umano alle più svariate ore notturne e diurne che coincidevano rigorosamente con le sue ore di sonno o di studio. Aveva appositamente fatto una ricerca sui riti satanici in biblioteca e le attinenze erano promettenti per il suo piano d’accusa – o compromettenti, insomma. Nella querela del piano d’accusa non avrebbe incluso il fatto che approfittasse sempre dell’assenza della madre per mettere lo stereo sulle scale tra il secondo piano ed il terzo ed accenderlo a tutto volume perché era certo che non contasse né come oltraggio né come vendetta personale, dal momento che i dischi di musica Rock che metteva erano assolutamente ottimi e lui in realtà stava solamente alimentando il loro bagaglio culturale – in ambito musicale, per le altre mancanze la questione era probabilmente genetica, insanabile, se non metafisica.
Infatti, non appena fu certo che il taxi avesse ormai superato il vicinato, portò stereo e casse sulle scale e alzò il volume al massimo sul disco rock più agguerrito che avesse – perché, sì, era una dichiarazione di guerra, lui contro i satanici dell’ultimo piano.
Scese le scale saltellando a ritmo della musica, prima che batteria e chitarre elettriche attaccassero il ritornello e lui rischiasse d’inciampare a causa delle onde sonore o, in alternativa, di avere un infarto. Entrò in camera sua con la prepotenza ed il fascino dei vincitori nei film e non nella vita reale, e non ballò solo perché ormai era partito il ritornello aritmico e perché si ritrovò tra le mani la lettera a suo nome ed allora fu naturale, reazionario distrarsi.
Si sedette di fronte alla scrivania che sobbalzava a singhiozzo a causa delle casse da trecento watt, lisciò il foglio di carta spogliando la calligrafia storta e srotolata in penna blu ostruita ed una linearità interrotta di frasi infrante le une contro le altre, frasi che sembravano abdicare dopo un regno fallace di parole insufficienti. Qualunque confessione tratteggiassero, sembrava una confessione pentita, rinnegata già prima d’essere scritta sulla carta spiegazzata e stracciata negli angoli.
Cedric non avrebbe potuto saperlo, ma quella lettera era rimasta nascosta sotto un cuscino irto di lana raggomitolata per diversi giorni, prima di pervenirgli sottoforma di rinnegamento. Ed infatti non l’avrebbe mai saputo, non in vita, non con la volontà, non in questa storia.
Con uno sbuffo prese il dizionario di francese e, dopo aver scelto un paragrafo abbastanza corto e più o meno mediano, incominciò a cercare il significato di termini, sostituendoli talvolta con sinonimi più probabili tra quelli elencati dalla voce tramite esempi. Prese una matita per scrivere sopra alcune parole il loro significato e dividere con una barra le frasi semplici, in modo da non sbagliare ad associare ogni soggetto al verbo appropriato; ci ripensò e cerchiò le frasi reggenti o principali, sottolineando due volte la preposizione di ogni coordinata o subordinata. Prima di provare a leggere il paragrafo, preferì trascriverlo perciò strappò un post-it verde e riportò le frasi, senza variare l’ordine delle parole secondo la logica linguistica inglese.
 
…Lui un giorno capirà e si pentirà, ed allora Dio lo perdonerà perché Dio è compassionevole e misericordioso. Dio li perdonerà tutti e io non potrò chiedergli di non farlo, nemmeno a nome di tutti i lividi che gli ho mostrato, nemmeno in memoria di tutti i pianti che gli ho confidato, nemmeno per tutte le preghiere che ho implorato. Dio lo perdonerà un giorno ed il mondo starà fermo a guardare perché è tutto ciò che sa fare.
 
 
Cedric chiuse di scatto il dizionario, col post-it intrappolato nelle voci della lettera P, ma restava ancora la lettera ed il paragrafo al centro scribacchiato e segnato dai suoi appunti in matita a ribadire quanto avesse appena letto.
«Oh, ma che diamine…?»
 
 
 
 
   
 
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