Note: 26 aprile 2013 - 12 settembre 2015. Due anni e mezzo. Quest'avventura è durata due anni e mezzo. E ora si conclude. Il titolo dell'epilogo non viene da alcuna canzone in particolare. Tuttavia, il sottofondo ideale sarebbe "Hoppipolla", una canzone islandese dei Sigur Ròs, perfetta per la conclusione di Blur.
Passi frettolosi, di bambini che correvano sull'erba di un giardino accogliente, spensierati. Risate, qualche gridolino acuto, sorrisi divertiti.
« Bang! » La bambina cadde sul prato rotolando e continuando a ridere. Il fratello, con un sorriso vittorioso, abbassò le mani piegate a mo' di pistola. « Ho vinto io, Londie! » La piccola London non smise di ridere, nemmeno quando Benjamin si buttò sull'erba con lei. « Però voglio una rivincita » precisò la bambina. « Anche a scacchi. » « Te l'ho spiegato » ribatté il gemello, aggiustandole una ciocca di capelli e portandogliela dietro l'orecchio, « per vincere a scacchi devi sì uccidere il re, ma è più importante fare fuori la regina. E' lei la pedina pericolosa. » London sbuffò, ma poi sorrise di nuovo. « Io sono la regina! » esclamò con fare giocosamente altezzoso. « E tutti gli altri sono miei umili servitori. » « Certo » la assecondò Ben, dopo essersi alzato nuovamente in piedi e inchinato al cospetto della sorella. « Nessuno vi mancherà mai di rispetto in mia presenza, vostra grazia. » « Allora sarai il mio alfiere » ridacchiò London. « Con piacere » il gemello le prese la mano e ne baciò il dorso elegantemente, « mia regina. » Il tramonto incendiava l'orizzonte. Un tripudio di colori accesi, vividi, caldi, che allo sguardo di Klaus risultò come un messaggio. « Apa? » Klaus non si voltò, affacciato al terrazzo del maniero con aria assorta. Non si voltò fino a che Klaudia non gli poggiò una mano sulla spalla. Si girò e la vide sorridergli con un calore tale che poteva essere paragonato a quello del tramonto. Le sorrise a sua volta. « Papà, Ashton e le zie stanno per arrivare alla stazione » gli disse, rimboccandosi i capelli dietro un orecchio. Gli ricordava terribilmente London quando faceva così, anche se i capelli di Klaudia erano molto più voluminosi e la madre non portava l'apparecchio acustico dopo un intervento. « Dobbiamo andare a prenderli, ricordi? » Klaus annuì. Notò che aveva la sciarpa bianca di sua moglie avvolta intorno al collo. Se ne separava raramente quando cominciava la stagione autunnale. « Altri due minuti e usciamo » assentì, tornando a volgere lo sguardo al sole bruciante che calava sui tetti dei palazzi ricostruiti del distretto. Klaudia si aggrappò al suo braccio e prese anche lei ad osservare il tramonto. Gli faceva quasi uno strano effetto essere lì, solo e invecchiato, con lei. Era cresciuta. Era diventata una donna, faticava ancora ad ammetterlo. Alta, bella, dai tratti morbidi e materni, gli occhi gentili e il sorriso dolce. Rivedeva tutti i Bridge che aveva conosciuto in lei. Klaus andava spesso al cimitero a trovarli. A volte portava loro dei fiori, altre restava semplicemente a contemplarli. Passava oltre la tomba di Ludmille Schnee, morta durante la rivolta, dei suoi genitori, di persone sconosciute, poi svoltava e si ritrovava di fronte le lapidi che rappresentavano le due persone più importanti della sua vita. Il corpo di London non era mai stato realmente seppellito, ma Erzsébet, quando era ancora viva, le aveva fatto costruire una tomba accanto a quella del marito per commemorarla. Lì, ventisette anni dopo, era stato seppellito anche Benjamin, morto dello stesso cancro di suo padre. E infine, l'anno successivo, Erzsébet stessa era giunta a completare la famiglia. Le lapidi dei gemelli erano all'ombra di un olmo, vicine, di un lucido marmo bianco. Klaus a volte, guardandole, si domandava se li avesse mai conosciuti davvero, se la loro presenza fosse mai stata reale, se non fosse stato tutto un sogno. A volte piangeva, altre versava solo qualche lacrima, altre sorrideva. Erano parte di lui. L'avevano amato così tanto da allungargli la vita. Un sottile velo di imbarazzo aleggiava sui due ragazzi che camminavano in un vicolo della zona ovest. Il più alto dei due si accese una sigaretta, interrompendo il silenzio che si era creato con il leggero scatto dell'accendino. « Quindi? » Benjamin lo guardò senza capire, continuando a camminare. « Quindi cosa? » Teneva le mani in tasca perché non voleva che Klaus vedesse quanto gli stavano sudando. Il moro fece un tiro dalla sigaretta. « Lo diremo a qualcuno? » « Io... » tentennò l'altro, non sapendo bene cosa dire o tanto meno cosa pensare di quella situazione. « Non credo. » « Assolutamente no » disse Klaus, annuendo in segno d'accordo. « Nessuno deve venire a sapere di questa notte. Né ora né mai. » Ben non rispose, annuendo distrattamente. « Ce la fai a mantenere questo segreto, Big Ben? » domandò Klaus con un ghigno malizioso. L'altro alzò gli occhi verso il sole che stava sorgendo e sospirò. « Sai, Klaus, a volte mi viene proprio voglia di ucciderti. » Il diciassettenne non smise di sogghignare. « Lo so. » La figlia appoggiò la testa sulla sua spalla e sospirò piano, chiudendo gli occhi. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai, o che la sua vita si concludesse in quel modo, in quel preciso istante. Sarebbe stato perfetto. Klaus si rigirò tra le dita la fede che portava al collo. Mai come in quel momento si era fermato a pensare con lucidità a tutte le cose che gli erano successe nella sua vita. Quel tramonto lo stava facendo riflettere, gli stava facendo mettere tutto definitivamente in ordine. Ripensava alla sua adolescenza, ripensava a tutte le cazzate che aveva fatto. Ripensava al suo odio forzato per London, al matrimonio, alla prima notte di nozze. Ripensava al vero odio che aveva provato quando aveva scoperto di Christina, quando aveva capito il reale significato delle ultime parole della moglie. Ripensava al fatto che amare Benjamin era stato l'unico e ultimo modo che gli era rimasto per amare London. Pensò che da un lato sarebbe stato molto più sicuro odiarli, piuttosto che amarli e poi perderli, ma che dall'altro la sua vita non avrebbe avuto alcun significato senza quel sentimento corrodente e corroborante. Amore, una parola inventata dagli uomini per giustificare le proprie azioni, o forse soltanto qualcosa di più perverso e precario… qualcosa che tuttora Klaus non riusciva a spiegarsi. Forse non aveva nome, forse tutte le sue convinzioni erano sbagliate. Perché, se proprio Klaus avrebbe dovuto immaginarsi l’amore, l’avrebbe immaginato come una persona sola e sconsolata che si diverte nel costruire farfalle di carta e nel guardare vecchie fotografie sbiadite, dal tempo e dal vento. Un amore triste, dopotutto. Un amore senza punto di partenza o punto d’arrivo, un amore che travolge come un treno quelle persone che hanno avuto il coraggio di legarsi da sole alle rotaie con corde ruvide e pesanti. Klaus abbandonò presto quelle riflessioni sconclusionate. I suoi pensieri non avevano senso. Nessuna definizione di amore per lui aveva senso. Giusto o sbagliato? Nero o bianco? London o Ben? Niente aveva davvero un senso. Niente che non fosse quel legame che li aveva legati per tutta la loro esistenza. Quel legame, più forte di qualsiasi forza, che non aveva fatto altro che ricucirsi, spezzarsi e risaldarsi all'infinito. Quel legame sconosciuto, a metà strada tra la distruzione e l'autodistruzione. Quel legame che lui avrebbe quasi definito... una sfocatura. « Io… » tentennò Klaus, come cercando il coraggio per continuare negli occhi della moglie. « Ti amo » disse infine, semplicemente. « Sono stato un bugiardo per tutto questo tempo. » Si lasciò baciare e sovrastare dal corpo sinuoso della ragazza, che salì a cavalcioni su di lui, ridacchiando. « Lo so, idiota » disse London. « Credo di averlo sempre saputo. » Allora si abbassò sulle sue labbra e lo baciò, ancora. Uno scontro di labbra morbido e voglioso, mani che si cercavano, sguardi finalmente sereni, onesti, coraggiosi, corpi che combaciavano alla perfezione. « E tu? » domandò Klaus in un sussurro, accarezzandole i fianchi e facendo sfiorare i loro nasi – due respiri che si contaminavano l'uno nell'altro. « Mi amerai mai? » London gli sorrise come solo poche volte aveva fatto. Gli prese una mano e ne baciò il palmo. Fece lo stesso con l'altra, lambendo le dita con le sue labbra umide. Quelle mani. Quelle mani erano sue. E lei, oh, lo sapeva. « Può darsi, Klaus » sussurrò a sua volta, « può darsi. » |