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Autore: Mattotoro    13/09/2015    0 recensioni
Un episodio della vita di Mickey, fratello minore di Dorian. È un giorno d'estate e fa caldo e Dorian decide di andare a studiare nella camera di Mickey, provocandogli emozioni forti e turbamento, poiché il fratello è combattuttp fra l'amore per Dorian e la paura di tutto il resto.
Successiva o antecedente a Dorian, la prima storia. Non è necessario averla letta per comprendere questa ma io lo raccomando anche perché mi fa tanto piacere che vengano lette entrambe.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Dorian'
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Mickey

A volte Dorian andava a studiare in camera di Mickey, non perché non gli piacesse la sua ma purtroppo trovava abbastanza difficile riuscire a concentrarsi su una scrivania piena di scartoffie e libri, con poco spazio per scrivere. In camera di Mickey, invece, non c'erano mai oggetti in disordine. Tutto era sempre al proprio posto, fosse una camicia o Mickey stesso.


Un giorno era estate e faceva caldo e Mickey era stanco. Si era svegliato stanco e sarebbe andato a letto stanco. Il sole, il calore e la monotonia della casa lo spinsero violentemente contro il materasso, il viso premuto sul cuscino fresco. Si tolse le scarpe ed era quasi già addormentato quando Dorian entrò, senza bussare, senza avvisare.


 «Devo studiare matematica», disse, sedendosi alla scrivania e dando le spalle al fratello. 
Mickey smise di respirare; la sua presenza aveva cancellato ogni traccia di sonno, ma era incapace di muoversi, ogni muscolo del suo corpo teso e rigido, come una statua di ghiaccio.


«Mi hai sentito?», chiese Dorian, girandosi verso di lui. L'unica cosa che Mickey riuscì a fare fu chiudere gli occhi e regolarizzare il respiro, sperando che Dorian lo credesse addormentato. Dovette esserci cascato, perché si girò e aprì il suo libro e iniziò a scrivere simboli e numeri su un quaderno che aveva portato con sé. 


Mickey aprì gli occhi e glieli puntò nella schiena. Con le mani strinse il cuscino sotto la sua guancia, contando mentalmente fino a dieci, inspirando e dieci, espirando. Un occhio era chiuso, perché premuto sul cuscino, l'altro vagava per la stanza, alla ricerca di qualcosa su cui concentrarsi che non fosse Dorian. C'era la sua racchetta da tennis vicino alla finestra. Mickey notò il manico in legno chiaro e le due lingue di cartoncino rosso attorno ad esso, doveva aveva scritto il suo nome. Era una racchetta bellissima, pensò. Non bella come quella che avrebbe comprato da lì a qualche giorno, ma comunque bellissima. La rete di corda era perfetta, ogni stringa perfettamente distanziata dall'altra. Era anche piacevole al tatto, ma la nuova racchetta era anche meglio. Aveva anche le stringhe blu, aveva insistito. Mickey poteva sentirla consumarsi sotto i suoi occhi, quasi come se stesse per prendere fuoco. E lui avrebbe tanto voluto che in quel momento la sua bellissima racchetta avesse preso fuoco, da sola, all'improvviso. Avrebbe bruciato le tende, la carta da parati e il fuoco sarebbe arrivato alla scrivania e l'avrebbe mangiata come fa uno squalo con una foca e allora Dorian sarebbe scappato per non diventare una foca a sua volta, lasciando Mickey sul letto a dormire e ad aspettare che il fuoco aprisse le fauci e lo inghiottisse come il più piccolo e insignificante dei pesci.


Ma la racchetta era ancora là, ferma, immobile, senza minaccia di autocombustione o almeno di cadere. Mickey chiuse l'occhio, frustrato, ma lo riaprì di scatto quando sentì un tonfo sordo. Che fosse caduta sul serio? La racchetta era ancora lì al suo posto, ma Dorian era chino a sinistra, intento a raccogliere il suo libro dal pavimento. Mickey sussultò e Dorian lo sentì, voltò il viso verso di lui e vide il suo occhio aperto che lo fissava, solo per un momento, perché Mickey lo richiuse immediatamente, mettendo tutto il suo impegno nel fingersi addormentato, nonostante sapesse che era perfettamente inutile. Sentì il rumore della punta della penna graffiare il foglio, ma non osava muoversi di un centimentro. Aveva freddo adesso e non si sarebbe mosso finché Dorian non fosse andato via. E sperava che quel momento sarebbe arrivato presto. Avrebbe voluto urlare fino a bruciarsi i polmoni che doveva andare via, che non lo voleva lì, che aveva bisogno di respirare.


La sedia si mosse e Mickey credette che finalmente fosse tutto finito, Dorian sarebbe uscito e lui avrebbe respirato di nuovo. Era tentato di aprire l'unico occhio libero, ma si ripromise di non farlo finché non avesse sentito i passi di Dorian allontanarsi. Dopo pochissimo tempo Mickey sentì il rumore di scarpe battere sul pavimento della sua stanza e un peso alla sua destra che piegò il materasso e la mano fresca di Dorian fra i suoi capelli.


 «Sono cresciuti». Le sue dita gli massaggiavano il cuoio capelluto e ogni tanto riuscivano appena ad afferrare qualche ciocca. «Dovresti tagliarli».
 Mickey avrebbe voluto dirgli di farsi gli affari suoi e pensare ai propri capelli, che ormai non avevano più nemmeno una forma definita, e soprattutto di smetterla di toccarlo, perché altrimenti sarebbe morto per asfissia. Mickey sapeva che sarebbe solo svenuto ma aveva paura lo stesso. Le mani di Dorian si spostarono sulle sue spalle e poi sulla schiena, toccandolo solo con la punta delle dita, sperando di fargli il solletico, ma Mickey in quel momento avrebbe fatto tutto tranne ridere.


Dorian lo punzecchiava sotto le ascelle, sui fianchi e dietro le ginocchia, sapendo che il fratello sarebbe saltato come una miccetta se lo avesse toccato là. Eppure Mickey non si muoveva, nemmeno respirava, avrebbe voluto ma, davvero, non ci riusciva. Dorian posò la mano sulla sua spalla destra e strinse forte, molto forte. Se Mickey avesse potuto parlare, gli avrebbe detto che gli stava facendo male. «Fino a poco tempo fa ti piaceva giocare così», disse con una punta di rassegnazione nella voce. Fece una pausa e spostò la mano sulla nuca di Mickey, tamburellando e sfregando un po' le dita contro la pelle sudata. «Forse sei troppo grande per i giochi adesso», disse in tono nostalgico, consapevole che Mickey lo stava ascoltando. Gli baciò la testa e gli battè una mano sulla schiena, accettando la realtà dei fatti senza particolare tristezza. Si alzò, prese le sue cose e lasciò la stanza, chiudendo la porta.


Mickey si mise a sedere e aprì gli occhi, il respiro affannoso e il corpo sudato e freddo. Si mise una mano sul cuore e si stese di schiena. Contava i battiti, o almeno ci provava. I suoi polmoni bruciavano e aveva voglia di vomitare tutto il pranzo. Avrebbe voluto baciare Dorian fino a farlo svenire e abbracciarlo, rompendogli una costola, magari due. Avrebbe voluto placcarlo e fargli battere la testa sul pavimento, provocargli una commozione e poi baciarlo fino a farlo svenire per la mancanza d'aria. Se la paura non lo avesse trasformato in una statua di marmo, forse lo avrebbe fatto. Forse. 


Diede un pugno sul letto, fradicio del suo sudore e iniziò a spogliarsi. Quando entrò nella vasca era arrabbiato. Con se stesso, con Dorian, col mondo. Quando ne uscì, era anche triste. Avrebbe voluto dire a Dorian che gli piaceva ancora giocare a quel modo, ma non era più possibile. Non poteva permettere che Dorian lo toccasse e Mickey non poteva toccare Dorian; per quanto avesse voluto, non poteva. C'erano troppe possibili conclusioni ad una situazione simile e Mickey non sapeva decidere quali fossero le più catastrofiche.


 Quando tornò in stanza, cambiò le lenzuola e il suo sguardo si posò sulla sua bellissima racchetta appesa vicino alla finestra. Lo assalì una rabbia calda e densa come lava e divenne un vulcano in eruzione. Prese la racchetta e la spezzò sul proprio ginocchio, maledetta, che aveva rifiutato di bruciare al suo comando. Smantellò le stringhe, le annodò tutte insieme e ruppe il corpo con le mani, poi contro il muro e la finestra, facendo volare schegge per tutta la stanza. Dopo l'eruzione, tutto quello che gli rimaneva era una racchetta distrutta e qualche graffio sulle mani. Nascose il cadavere sotto al letto e si sedette sulla sedia a dondolo. 


Guardò fuori dalla finestra. Tutto era tranquillo, nessuno era in giardino. Si alzò e prese una sigaretta dal doppiofondo del cassetto. Fumò in fretta e con rabbia, avrebbe voluto piangere ma era troppo teso anche per quello. Spense il mozzicone nel terriccio dei gerani che un tempo furono rossi, al suo balcone e prese un'altra sigaretta. Poi un'altra e un'altra ancora. Stava finendo l'ultima sigaretta del pacchetto e pensò a Rupert e a quanto si sarebbe arrabbiato. Fu felice di quel pensiero. Decise di non prenderne nemmeno uno nuovo, quello lo avrebbe fatto infuriare sul serio. Sicuramente gli avrebbe dato un pugno sul braccio e gli avrebbe lasciato un livido grosso e doloroso. Mickey lo avrebbe colpito alle ginocchia perché Rupert aveva ginocchia da vecchio, fatte di burro e il rosso sarebbe caduto, facendosi male e avrebbe preso la nuca di Mickey, trascinandolo sul pavimento con sé. Avrebbero continuato a picchiarsi finché Rupert non lo avesse baciato.
 

Era così immerso in quel pensiero felice che un colpo alla porta lo fece sussultare e tossire fumo. Sua madre lo avvertì che la cena era pronta. Si spruzzò molto profumo al mentolo e scese le scale, sentendo già l'odore delizioso dell'anatra con le patate. Si sedette a tavola e indossò la sua maschera migliore: un ragazzo affamato e alla mano. Fece un po' di conversazione con i suoi e iniziò a mangiare. Le sue papille gustative guizzarono come bimbi a cui è stato concesso di mangiare caramelle prima di cena. Era l'anatra più buona che avesse mai mangiato, sua madre si era superata e glielo disse, senza essere avaro di complimenti. Mickey masticò un altro boccone e lo inghiottì soddisfatto. Azzardò un sorriso a Dorian, che era seduto di fronte a lui; forse l'anatra gli aveva donato un po' di spavalderia. Dorian non ricambiò il sorriso, non tentò nemmeno di fingere che non lo avesse visto, ma tornò semplicemente a mangiare, come se nulla fosse accaduto. Eppure non sembrava arrabbiato o triste, nulla di tutto ciò, semplicemente non aveva sorriso. Lo stomaco di Mickey si annodò e non gli permise di continuare, nonostante la fame lo prendesse a morsi. Si scusò con tutti e andò a fare una telefonata. 


Pochi minuti dopo Rupert era di fronte alla porta della sua stanza, indossando un'espressione indignata. «Ti perdono solo perché ne hai preso un altro. Di tasca tua», disse, mentre si toglieva giacca e scarpe. Mickey sorrise, un ghigno quasi cattivo. «Ti ho detto una bugia. Non ho preso niente. Non ci è rimasto niente». Rupert spalancò gli occhi e sembrava davvero sul punto di ucciderlo. Entrò e chiuse la porta a chiave alle sue spalle. Si girò verso Mickey, le narici dilatate e il respiro un po' affannoso. Rupert lo insultò e subito dopo gli sferrò un pugno molto forte sul braccio destro. Mickey sorrise all'idea che il livido che si sarebbe formato da lì a poco gli avrebbe reso addirittura difficile giocare a tennis e rugby per qualche giorno. Rupert lo guardava stralunato e interpretò il suo sorriso beato come un affronto. «Ma sei scemo?», sentì il rosso chiedere, prima di dargli un calcio dietro le ginocchia e cadere sul pavimento con Rupert sullo stomaco.
   
 
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