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Autore: Kiki S    13/09/2015    1 recensioni
"Inverni dello stesso sangue" è una raccolta composta da cinque racconti, tutti accomunati dagli stessi punti chiave: il rapporto tra le sorelle e le stagioni fredde, le quali fanno da contorno alle singole vicende.
Ogni storia è un piccolo mondo che si snoda attraverso ricerche disperate, sogni coperti di polvere e, a volte, realtà incomprese e afferrate troppo tardi.
Ad accompagnare tutto questo solo il vento, la neve, il gelo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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CADUTA
 
Non seppi mai come avvenne; successe e basta.
Ero lì. C’ero ogni giorno, poi, d’un tratto, ogni cosa sparì.
Ho vissuto per anni lì con te, nella mia mente, in quel parco giochi.
Io crescevo, tu no, ma a essere sincera non ci facevamo poi troppo caso.
Tenere la tua mano, anche se solo nella mia immaginazione, era incredibilmente rassicurante.
Tutti i giorni e tutti i mesi vivevo la mia vita, proseguendo per la mia strada; scoprivo nuove passioni, interessi e talenti in me, ma quell’angolo della mia mente era aperto a noi due sole, e potevo rifugiarmi lì in gran segreto, in tua compagnia.
Quante volte ci siamo spinte su quelle altalene? Quante volte ci siamo addormentate sull’erba accarezzata dalla pioggia?
Credevo che saremmo rimaste lì per sempre, insieme, anche se il tempo si era fermato solamente per te.
Poi, da quel giorno, non ci fu più nulla.
Non il parco giochi, non le altalene, non le nuvole, il vento, la pioggia e l’erba bagnata.
Non tu.
Tentai di entrare in quell’angolo di me che conoscevo io soltanto, ma mi persi; faticai a realizzare che non esisteva più, come se a mia insaputa fosse stato estratto dal mio cervello.
Rimasi lì, immobile. I piedi nudi nell’acqua gelida di un lago che non avevo mai visto prima d’allora. Un flebile vento, un po’ troppo adulto nei suoi sussurri, per essere quello con cui avevamo sempre giocato nel nostro luogo segreto.
Per il resto, c’era soltanto il vuoto, e io ero nel mezzo.
Ebbi la forza di chiedermi perché, ma rimasi lì, smarrita e afflitta. Avevo perso l’unico punto fermo della mia vita, l’unico luogo e l’unica persona dai quali mai mi sarei voluta separare.
Ma infine dovetti andarmene, e continuare con la vita di sempre.
Avevo dodici anni.
*
 
Il nome Angela non le era mai dispiaciuto ma, a conti fatti, disfarsi di quell’ultima lettera e presentarsi al suo pubblico semplicemente come Angel dava all’affare un tocco artistico in più, e lei teneva particolarmente a quel tipo d’immagine. Diceva sempre che l’arte sta anche nel saper assumere il volto stesso di quel che si crea.
Come ogni volta in cui dipingeva, Angie teneva i capelli legati in una crocchia alta, anche se, a dire il vero, non si curava troppo di renderla perfetta.
Era già qualche anno che aveva dato l’addio definitivo al castano naturale e aveva avuto il piacere di conoscere il rosso. Un rosso scuro e intenso, che non la faceva certo passare inosservata ma che, al contempo, le regalava una sorta di mistero nel quale rifugiarsi.
La stanza era percorsa a rapidi passi dall’avvolgente musica classica che sovente aveva ispirato la ragazza nelle sue tele e nell’armonia dei colori.
Le differenti forme d’arte si chiamano e rincorrono a vicenda era un’altra delle massime di Angel.
La luce che avvolgeva lei e il suo dipinto era calda e familiare e l’aveva sempre fatta sentire a suo agio.
Fuori pioveva appena; gocce silenti come inudibili rintocchi di campana.
Angie, quando era immersa nella sua arte, soleva fondersi con la casa e con l’esterno, come a voler creare un armonioso tutt’uno di elementi, e nulla le sfuggiva, quasi le sue percezioni si allargassero.
Sentiva anche quel gatto che cacciava in lontananza.
Teneva le maniche della maglia bordeaux arrotolate fin sopra i gomiti, di modo che non si macchiassero con la tempera; sedeva sul suo sgabello a schiena ritta, eppure rilassata, e la sua concentrazione era al massimo.
I suoi occhi vedevano oltre il dipinto che oramai aveva quasi totalmente preso forma.
Mancavano soltanto gli ultimi accorgimenti: qualche piccolo dettaglio ancora da aggiungere, o qualche sfumatura da perfezionare, ma anche queste ultime piccolezze richiedevano il loro tempo.
Un quadro è composto di dettagli.
Un altro talento di Angie era senz’altro quello di crearsi delle frasi celebri.
I soggetti che Angel dipingeva erano dei più svariati, le piaceva sperimentare: spaziava dagli ambienti naturali ai ritratti, da scenari fantastici ad altri legati alla vita quotidiana. Aveva anche dipinto animali o semplici oggetti, magari abbellendoli lavorando di fantasia.
Alcuni dei suoi quadri erano oscuri, altri colmi di luce; nessuno di essi si assomigliava.
L’unico aspetto che li accomunasse tutti era il simbolo che l’artista applicava ogni volta a lavoro ultimato, nell’angolo a sinistra della tela.
Valeva come una firma, anche se in realtà non era tale, e diceva molto di lei.
Angie aveva lavorato a quel quadro nelle ultime settimane: questa volta aveva riprodotto un luogo che conosceva, ma che non capiva per quale motivo le fosse tornato in mente, dopo tanti anni.
Prima di cominciare, non aveva nemmeno eseguito uno schizzo su carta, come era solita fare ogni volta che l’ispirazione le faceva visita.
Si era semplicemente seduta di fronte alla tela ancora bianca e aveva iniziato a lavorare di pennello.
Forme e colori erano venuti da sé.
E tra i colori, quelli dominanti di quel quadro erano il bianco e il blu, anche se questi sembravano imprigionati tra le catene di uno spesso alone grigio che Angie non era in grado di spiegarsi.
Forse era soltanto lei a sentirlo; forse nessun altro vi avrebbe fatto caso.
Ma Angie, ugualmente, non sapeva da dove venisse.
Improvvisamente si fermò. Il pennello rimase sospeso tra il suo volto e la tela.
Angel strinse gli occhi, come se d’un tratto di fosse resa conto che qualcosa le sfuggiva. Cercò di cogliere quel pensiero in sfrenata corsa verso l’oblio, ma lo perse prima che la sua ombra le sfiorasse la fronte.
In parte sconfitta e in parte ignara tornò a rilassarsi, e il pennello riprese fluidamente la sua via predestinata, adagiandosi nuovamente sul quadro quasi concluso.
Soltanto gli ultimi ritocchi, poi avrebbe finito.
Fu proprio quando l’ultima pennellata scivolò via con la potenza delicata e naturale di un’onda che si infranga sulla riva, che suonò il campanello.
 
*
 
Quando Angie aprì la porta, le sue labbra si distesero in un sorriso triste e comprensivo al tempo stesso: le faceva male vederla così, ma sapeva che la ragazza castana dall’altra parte dell’uscio aveva bisogno di lei.
Era sempre stato così.
Angel allungò la mano e strinse quella fredda dell’amica.
-Dominique- sussurrò –entra- e la strinse tra le braccia ancor prima di richiudere la porta.
Dominique si lasciò stringere e condurre verso la sala senza opporre resistenza, ma d’altro canto, con Angie, non ne opponeva mai: lei era l’unica con la quale si sentisse al sicuro.
Quando l’ebbe fatta sedere sul divano, Angie si inginocchiò di fronte all’amica; le accarezzò i capelli e il viso. Non era molto bagnata, fortunatamente la pioggia era leggera e sottile, ma sembrava davvero gelida; forse erano ore che camminava senza una meta, persa nell’infernale groviglio di se stessa. Non sarebbe stata la prima volta.
Angie conosceva Dominique dal primo anno del liceo; erano state fin da sempre grandi amiche, anche se quest’ultima aveva sempre manifestato grandi complessi ed enormi problemi.
La sua famiglia non era mai stata molto presente, ma le vere difficoltà Dominique dimostrava di averle con se stessa. Quando Angie l’aveva conosciuta, l’amica era già abituata da anni alle visite dallo psicologo: la maggior parte delle volte queste sortivano il loro effetto, ma poi Dominique aveva sbalzi d’umore terribili, e in quei momenti Angie era l’unica a cui fosse permesso di starle vicino.
Era anche l’unica ad avere tale pazienza.
Dominique alzò lievemente i suoi occhi spenti e, nel centro della sala, incontrò la tela di Angie.
-Oh no, stavi dipingendo! Scusa, Angie, scusa. Ti disturbo sempre nei momenti meno opportuni- piagnucolò la ragazza iniziando a dondolarsi sul posto.
Angel prese posto accanto a lei; le cinse le spalle con un braccio.
-Stai tranquilla, tu non mi disturbi mai- la rassicurò dolcemente -e poi ho finito- aggiunse dopo una breve pausa.
Lo sguardo di Angie corse a propria volta verso la sua creazione; quello strano alone grigio tornò ad avvolgerla, e in un attimo si domandò per quale motivo la turbasse.
Dominique, con il capo appoggiato alla spalla dell’amica, sembrò rilassarsi a quelle parole.
-Gli hai già dato un titolo?-.
Quella, secondo Angel, era la classica domanda da artista: le persone comuni solevano chiedere se potevano vedere l’opera completa o, in alternativa, non dicevano nulla, ma solo un’artista avrebbe potuto dare tanta rilevanza a un titolo. E Dominique era un’artista straordinaria, nella pittura quanto nella musica e nel componimento di poesia, ma la sua arte era complicata da capire, proprio come lei, ed erano in pochi ad apprezzarla.
Angel faceva parte di quei pochi.
Sorridendo, Angie scosse la testa -ancora no, credo che mi ci vorrà un po’ per deciderlo-. L’amica non disse nient’altro, ma Angel riuscì a intravedere il suo sorriso, ma più di ogni altra cosa lo captò. Quel sorriso appena accennato di colei che vede a fondo.
Angel sapeva che Dominique aveva capito al volo che tra lei e quel quadro c’era un rapporto particolare, del quale l’autrice della tela aveva anche un po’ paura.
Eppure non vi era ritratto nulla di spaventoso.
­-Come stai?- furono infine le parole che Angel pronunciò quando finì le proprie considerazioni a proposito del soggetto di quel dipinto.
Dominique sollevò impercettibilmente le spalle –così- affermò in un sussurro -sono nella fase in cui nemmeno il litio mi fa effetto, ma passerà, come sempre-. Angie le schioccò un bacio sulla testa -sì, passerà- la rassicurò. Dire di più, in quei momenti, era sempre superfluo. Spesso Dominique si rasserenava stando un po’ con lei, distraendosi parlando con la sua migliore amica. Spesso, ciò di cui Dominique aveva più bisogno, era di sentirsi ascoltata.
-Dormi in questi giorni?- tornò a chiederle Angel, apprensiva. Anche la mancanza di sonno non era una grande alleata della stabilità mentale della ragazza già problematica.
Angie sentì l’amica annuire contro la sua spalla.
-Sto prendendo questi- fece Dominique tirando fuori dalla borsa un flacone di calmanti; se lo passò da una mano all’altra, facendo risuonare le pillole all’interno. -Due ogni sera prima di andare a letto, ma voglio smettere di prenderle: mi danno assuefazione e mi tolgono lucidità, e questa è una cosa che odio-.
Il tono della sua voce sembrò scaldarsi all’improvviso nel pronunciare l’ultima parola, quasi la sola idea degli effetti causati dalle pillole la riempisse di fastidio e di rabbia.
Un fastidio e una rabbia che sembravano quasi fuori luogo in quella stanza ancora pervasa dalla rilassante musica classica. E lo stesso valeva per il turbamento di Angie; quella strana inquietudine che le girava dentro, facendosi sentire come una punta di spillo ogniqualvolta ripensasse al suo dipinto. Era lì, con la sua essenza grigia, e stava iniziando a infestare l’aria.
-Che ne dici? Ci ordiniamo la cena e poi facciamo una partita a Monopoly?-. Nel dire ciò la voce di Angel era apparsa naturale, eppure le era sembrato di fare una fatica enorme a farsela uscire dalla gola, quasi tornare dai suoi pensieri alla realtà fosse stata un’impresa sfiancante.
Dominique, al contrario, parve rilassarsi del tutto. Si gettò sul divano, distesa di schiena; rise e si coprì il viso con le mani -Monopoly no, ti prego! È il gioco che più mi fa incazzare al mondo-.
Angie si ritrovò a ridere con lei, scrollandosi di dosso lo strano senso di oppressione che l’aveva invasa, e relegandolo lì, dove si ergeva il dipinto.
-Allora battaglia navale, forza quattro, risiko, il gioco dell’oca, quello che vuoi-.
-Le manie suicide sono l’unica cosa di cui non ho mai sofferto seriamente fino ad adesso, ma se ci lanciamo sul gioco dell’oca penso che dovrai trattenermi dall’impiccarmi al lampadario-.
Dominique rideva ancora, e ora si era lasciata cadere dal divano, stendendosi sul tappeto.
La gioia che Angie provò in quel momento, nel vedere la sua amica tranquillizzarsi e persino divertirsi, fu immensa. Il suo sguardo si fissò sui capelli di Dominique, sparsi sul tappeto; non seppe perché, ma avvertì un tuffo al cuore.
Si sdraiò accanto a lei e lasciò che Dominique tornasse ad adagiare la testa sulla sua spalla.
Esisteva qualcosa di onirico e fugacemente infantile in quelle due figure distese a terra, l’una di fianco all’altra; qualcosa che a Angie portò uno strano senso di nostalgia.
Non lo ammise con se stessa, ma solo per un attimo avvertì una punta di fastidio nel realizzare che la testa posata sulla sua spalla era quella dell’amica Dominique.
Non ricordava più la sensazione che le dava la sua. Sembravano passati anni luce.
-Che ci prendiamo per cena?- domandò infine Angel, ritrovando il sorriso e il suo spazio nel mondo.
-Sono domande da farsi?- fu la risposta divertita dell’amica.
 
*
 
Le due ragazze quella sera di abbuffarono di pollo fritto e patatine i quali, su Dominique, sortirono l’effetto di un potente antidepressivo, poi trascorsero la serata a guardare la televisione.
Scelsero un programma che non fosse impegnativo, basato su nove quesiti pseudo-scientifici per episodio e, se si sceglieva la soluzione sbagliata tra quelle proposte, si perdeva una vita come i gatti. O meglio ancora, come nei videogiochi.
Ne seguì un altro con protagonisti i più orripilanti talenti canori esistenti sulla faccia della Terra, e questo suscitò grande ilarità in Angie e Dominique.
Ridere fece bene a entrambe. Anche a Angie, che sentiva quello strano senso di oppressione, come un cielo terso che sia coperto d’improvviso da un nuvolone nero carico di pioggia.
Angie non voleva pensarci, ma non poteva farne a meno.
Era nato tutto da quel quadro, era lì che risiedeva il suo turbamento, ma Angel non voleva averci nulla a che fare. Sapeva dove l’avrebbe condotta; o almeno, sapeva dove avrebbe voluto essere condotta, ma sapeva anche di non essere più in grado di raggiungere quel luogo.
Sarebbe stato tutto molto più semplice se il soggetto di quel dipinto fosse stato il parco giochi; avrebbe significato saperci ancora entrare.
Angel salutò Dominique che era già passata la mezzanotte. Le aveva chiesto se preferisse restare a dormire a casa sua, ma l’amica l’aveva rassicurata, dicendole di essere stata benissimo in sua compagnia, ma di aver finalmente bisogno di restare un po’ con se stessa.
Dominique le assicurò anche che sarebbe riuscita a dormire senza problemi, ma Angie lo dubitò quando, mezzora dopo, si accorse del flacone di calmanti abbandonato sul comodino accanto al divano. Era facile immaginare che Dominique l’avesse lasciato lì apposta, per impedirsi di assumere le pillole prima di coricarsi. D’altro canto aveva sostenuto di odiare il loro effetto.
Angie recuperò il flacone, lo guardò sorridendo impercettibilmente e, come la sua amica aveva fatto a sua volta qualche ora prima, se lo passò da una mano all’altra facendone tintinnare il contenuto.
Non seppe se interpretare quel gesto di Dominique come un buono o un cattivo segno, ma decise che l’avrebbe detto il tempo. Forse la sua amica voleva liberarsi per sempre dei suoi fantasmi e del disagio che la sua stessa persona le ispirava.
Angie immaginò che Dominique avesse scelto finalmente di affrontarsi. Avrebbe pur dovuto accettarsi prima o poi.
Anche Angel, lo sapeva, aveva qualcosa da accettare e da superare. Fu per questo che respirò profondamente più di una volta, prima di avvinarsi alla tela che sembrava stare in piedi con le proprie forze, con una sorta d’orgoglio.
Posò i calmanti di Dominique di nuovo sul comodino, poi si mosse.
Angel non si sedette per osservare il quadro, come invece soleva fare ogni volta; al contrario restò lì, in piedi, ascoltando solo il proprio respiro, e lo guardò.
Bianco e blu.
Quelli erano i colori dominanti.
Il bianco della neve, il blu del cielo notturno. La casa era nel mezzo, anch’essa ricoperta di neve sul tetto.
Eppure Angie sentiva chiaramente quel grigio che circondava l’intera opera, anche se non era visibile. Grigio come il cielo d’autunno il giorno di un funerale.
Sospirò di nuovo, poi si sciolse i capelli; una nuvola rossa le cadde sulle spalle.
Continuò a osservare il quadro; intensamente, sempre più intensamente.
Quanti anni erano che non visitava quel luogo? Quand’era stata l’ultima volta che vi aveva trascorso del tempo? E che relazione c’era tra quella casa di montagna e il parco giochi che non esisteva più? Quelle non erano domande che Angie avrebbe voluto porsi.
È inutile rincorrere ciò che è perso per sempre. Angel rivangò un verso appartenente a uno dei componimenti di Dominique. L’ottimismo non era certo una delle qualità della sua amica, ma forse, in quel caso, Angie si disse che aveva ragione.
Doveva farsene una ragione. Erano passati tanti anni: venti da quando lei se n’era andata, tredici da quando aveva lasciato la sua mente, insieme al parco giochi.
Nonostante tutto, Angie cercò di rivangare quelle immagini: era solo un sogno infantile, sapeva che non sarebbe mai potuto tornare ma, come ogni altra volta, ci sperò.
Ci aveva provato più spesso di quanto volesse credere lei stessa.
Anche questa volta, però, fu tutto inutile. Non c’era più niente, neanche il lago gelido.
Arrendendosi e cercando di non pensarci si sedette sullo sgabello; recuperò un pennello pulito e la tempera nera, poi iniziò a porre il suo marchio personale all’opera conclusa.
Era come una firma, anche se non era realmente tale. E diceva molto di lei.
Ci vollero soltanto cinque minuti perché nell’angolo sinistro della tela prendesse forma un angelo nero con le ali da corvo, senza occhi. L’angelo caduto, lo chiama Angie.
Ma l’inferno non c’entrava nulla in questo caso.
Quell’angelo era scivolato nella disperazione, alla ricerca di un mondo interiore che ormai da tanto tempo gli veniva negato.
Angie non aveva mai mostrato a nessuno come si sentisse realmente.
Prima di andare via, quella sera, Dominique le aveva detto che era bello avere un’amica forte come lei. Già, pensava Angel, era davvero splendido essere tanto forte.
Osservò ancora il quadro raffigurante la casa di montagna della sua famiglia, poi spostò lo sguardo sull’angelo caduto con il quale firmava le sue opere.
-Jenny- sussurrò.
 
*
 
Acqua.
Acqua gelida intorno alle caviglie.
Tremavo per il freddo ma anche a causa di quel posto che non conoscevo.
Mi guardai intorno, smarrita e come trafitta da schegge di vetro.
Perché non eri più lì? Perché non esisteva più nulla di noi?
Di chi era la colpa?
Mia? Perché ero cresciuta?
Tua, Jenny? Perché non eri potuta restare oltre? O forse non avevi voluto.
Forse ero troppo grande per te; tu desideravi una sorella che ti fosse simile, d’età.
Ma tu non c’eri per rispondermi. Non c’era niente che potesse darmi un minimo di sicurezza, un barlume di speranza.
Restava solamente l’acqua. Gelida.
E quel luogo sconosciuto. Me ne andai presto da lì.
 
*
 
Per la prima volta dopo tanto tempo, Angie aveva passato la notte senza chiudere occhio; non ci aveva nemmeno tentato. Era rimasta per tutto il tempo seduta sul letto, nel buio spezzato soltanto da una flebile fiammella, con le ginocchia strette al petto. Ripensava al suo quadro, alla casa di montagna della sua famiglia che vi era raffigurata; aveva pensato al passato, a ogni singolo giorno trascorso senza di lei, tentando di dimenticarla.
Ma non avrebbe mai potuto dimenticare Jenny, nemmeno volendo. La sua mente, come in uno scherzo beffardo, le riproponeva le immagini di quelle due bambine che giocavano a spingersi sempre più forte sulle altalene, che si rincorrevano sull’erba bagnata e che ridevano felici. Ma questo non significava essere di nuovo lì con lei; al contrario, era soltanto un ricordo, vago e irraggiungibile, che le faceva provare un’infinita nostalgia.
Angie aveva osservato fissamente la candela che bruciava nell’oscurità che si estendeva attorno a lei, sperando di rivedere, chiaro e nitido, il suo volto.
Aveva provato a immaginare come sarebbe stata la sua vita, se Jenny non se ne fosse mai andata. Sarebbe diventata ugualmente una pittrice? Sarebbe stata amica di Dominique lo stesso? Quell’amica forte e combattiva. E Jenny? Che cosa avrebbe fatto nella vita? Anche lei, sarebbe stata un’artista? Sorridendo appena, Angie si era detta che avrebbero anche potuto crescere molto diverse, e smettere di andare d’accordo. Da piccole era tutto più semplice. Avendo un solo anno di differenza, le loro vite erano saldamente intrecciate; insieme, avevano creduto alle stesse favole e alle stesse magie. Ma poi anche quel tempo sarebbe venuto meno e, allora, forse sarebbe cambiato tutto. Fu quando immaginò Jenny dall’altra parte del paese, in un suo appartamento a pensare a tutt’altro fuorché alla sorella maggiore con la quale non andava d’accordo e non parlava da anni, che Angel scoppiò in lacrime.
Realizzò d’improvviso che avrebbe preferito cento volte sapersi separata da sua sorella a causa di chilometri e chilometri di diverse città, piuttosto che per colpa di una spietata cortina grigia fatta calare dal tempo. Le città si attraversano, prima o poi. C’è sempre il tempo di recuperare un rapporto deteriorato, ma questo stesso tempo non può essere sminuzzato alla ricerca degli attimi perduti che si anelano. Il tempo prevede una sola via e non c’è modo di arrestare la corsa in essa.
Quel che resta indietro, è perso per sempre. Eppure, questo Angie ancora non poteva accettarlo.
Jenny non era una ventiquattrenne che viveva per conto suo in una città lontana; non era la sorella con la quale aveva troncato i rapporti a causa di un litigio o di una divergenza di caratteri. Jenny aveva ancora quattro anni, se n’era andata a causa di un difetto cardiaco congenito, ma doveva pur essere ancora da qualche parte. Se sua sorella fosse stata viva, ma semplicemente lontana, avrebbe potuto raggiungerla in qualunque momento, sarebbe bastato volerlo. Ma in quell’istante in cui Angie sentiva di avere nuovamente tanto bisogno di lei, Jenny non era da nessuna parte; non esisteva. Per raggiungerla non bastava cercare il suo indirizzo sulla sua vecchia agenda; non poteva nemmeno più scavare nella sua mente, perché di loro, ormai, non esisteva più nulla di concreto, e i ricordi non erano sufficienti per andare da lei.
Lo sguardo di Angie rimase fisso sulla candela che bruciava e si consumava, come su una vita che prosegua lentamente verso la sua conclusione inevitabile. L’aroma alla vaniglia che questa sprigionava era piacevole, ma non come al solito. Angie non riusciva a concentrarsi su quello, come aveva fatto altre volte; le candele profumate alla vaniglia erano una delle sue passioni, ma non riusciva a bearsene in quegli istanti.
Il suo pensiero era uno solo, e fisso, sprigionato improvvisamente dalla creazione di quel quadro che l’attendeva in salotto.
La mattina seguente, quando il sole filtrò attraverso le sue tende colorate, si alzò a fatica dal letto, nonostante la totale assenza di sonno. Una parte di lei avrebbe voluto restare in quella stanza in eterno, a crogiolarsi nella triste consapevolezza di non poter più sperare in un contatto.
A volte, anche le più grigie sensazioni sono consolatorie, quando non si vuole affrontare ciò che c’è oltre. Ma alla fine lasciò il suo giaciglio, spense la candela quasi del tutto consumata, poi si infilò sotto la doccia. Mentre lasciava che l’acqua calda le scivolasse addosso, bagnandole teneramente i capelli tinti di rosso, fantasticò di nuovo su una sorella viva ma lontana, con la quale avesse litigato diversi anni prima.
Immaginò quel lungo silenzio che doveva aver desiderato lei stessa e si immedesimò nella situazione di aver appena pensato a lei, e di sentire la sua mancanza.
Sentiva quel peso sul cuore, quell’innata malinconia che non vuole andarsene, benché si tenti di scacciarla. Rivide tanti ricordi che non le appartenevano, di liti furibonde e cornette del telefono riattaccate con rabbia. Riascoltò orrende parole urlate in preda alla collera e lacrime versate di nascosto. Pensò che, finita la doccia, sarebbe bastato comporre il suo numero di telefono e provare a parlarle. Forse l’avrebbe respinta, al primo momento, ma lei avrebbe insistito e, prima o poi, sarebbe riuscita nel suo intento; il tempo non sarebbe mancato di certo.
Ma di tempo, in realtà, non ce n’era più. Jenny non c’era più. Angie si ritrovò nuovamente in lacrime, quando lo realizzò appieno, seduta sul bordo della vasca da bagno, con indosso l’accappatoio.
Fu con fatica e riluttanza, eppure mossa dalla spietata caparbietà che tanto faceva parte di lei, che si trascinò fino in soggiorno e, nuovamente, osservò il proprio dipinto.
Bianco e blu. E grigio.
Ad Angie non piaceva darsi delle arie, ma doveva ammettere di avere davvero un gran talento. Improvvisamente si domandò quando l’aveva scoperto. Le era sempre piaciuto disegnare. Quando erano piccole, lei e Jenny lo facevano sempre insieme; come tutto il resto, d’altra parte. Erano un po’ come due gemelle, anche se non era vero anagraficamente parlando.
Ma che dipingere fosse la sua vera passione, nonché il talento che avrebbe dovuto trasformare nella sua professione, l’aveva appreso quando aveva cominciato le scuole medie. Ricordava di averlo confidato sottovoce a Jenny, mentre se ne stavano nascoste nel loro parco giochi. 
Ma Jenny non aveva capito; Jenny era troppo piccola per comprendere cosa fosse una passione o un talento. Angie si accorse in quel momento che già allora, anche se avrebbe goduto di quell’angolo della sua mente ancora per un anno, tutto ciò a cui si aggrappava con forza stava già iniziando a offuscarsi. Jenny si stava allontanando da lei, anche se un passo alla volta.
Sospirando, concentrò di nuovo la propria attenzione sulla tela dominata dal bianco e dal blu.
Ancora una volta rifletté su quanto sarebbe stato liberatorio aver dipinto il parco giochi al posto del soggetto che vi vedeva ora rappresentato. Jenny sarebbe stata lì.
Eppure anche la casa di montagna parlava di loro. Era lì che, ogni inverno, la famiglia andava a trascorrere le vacanze di Natale. Era lì che l’eco delle risate si era trasformata nel sibilo dei sussurri, perché quella tradizione invernale era continuata anche senza di lei, e lì, ogni anno, Angie si era detta che non sarebbe riuscita a mettervi piede se non avesse avuto la certezza di quel luogo solo suo e di Jenny, dove si sentiva tanto a suo agio. Difatti, da quanto il parco giochi era scomparso dalla sua mente, Angie si era sentita sempre più sola trascorrendo le vacanze in quella casa; aveva finito per detestarla. Appena fu un po’ cresciuta non volle più andarci; sapeva che i suoi genitori, invece, lo facevano ancora qualche volta, anche se non più con la stessa frequenza di prima.
Ma per Angie, varcare quella soglia era sempre stato troppo doloroso, perché quello era un luogo intriso di ricordi, anche se molti di essi erano solo immaginati.
Angie si era posta più volte delle domande sulla vera natura di quel parco giochi nella sua mente, senza riuscire a rispondersi in proposito. Era certa, però, che non si trattasse di un semplice ricordo di lei; su quelle altalene, Jenny c’era davvero.
Alla fine Angie coprì il quadro con un telo grigio (scelse questo colore apposta, benché ne avesse di altre tinte), dopodiché uscì di casa, assicurandosi di spegnere il cellulare.
Non voleva che nessuno la cercasse: né i suoi collaboratori di lavoro, né i suoi genitori, né Dominique. Ricordava bene il capo dell’amica poggiato sulla sua spalla e, in quel momento, voleva cancellarselo dalla mente.
Angel sentiva che era giunto il momento di affrontare il suo demone più grande e, soprattutto, di riprendersi il tempo perduto con sua sorella. Si era resa conto di non volere nient’altro che questo; pensò che forse, tagliando momentaneamente i ponti con la sua attuale vita, sarebbe riuscita a ricollegarsi con lei.
Fu per questo che andò a trovarla lì dove Jenny giaceva.
Sorrise nel vedere i fiori freschi accanto alla lapide; sua madre non se ne dimenticava mai.
E poi c’era quella busta, tenuta ferma da due grossi sassi, ma che il vento faceva ugualmente svolazzare negli angoli scoperti. Lì era contenuta quella sua breve lettera, scritta da Angie quando tutto si era dissolto nel nulla.
… spero che tu sia felice, ora, ovunque tu sia. Ma spero anche che, un giorno, tornerai da me.
Angie ricordava ancora a memoria queste ultime frasi. Al momento non era riuscita ad accettare il fatto che lei se ne fosse andata, e non lo accettava nemmeno ora. Era andata avanti nella vita perché era stata obbligata a farlo, perché non aveva potuto arrestare lo scorrere spietato del tempo, il quale non lascia mai che i suoi momenti più importanti durino a lungo.
Angie aveva perso sua sorella tanto tempo prima, ma ora era decisa più che mai a ritrovarla e a riprendersi quel luogo immaginario che era, e sarebbe rimasto, soltanto loro.
Lasciò presto il cimitero, e si diresse a casa, dove recuperò soltanto tre cose: la sua copia della chiave della casa di montagna (benché non fosse solita andarci, sua madre aveva insistito perché la tenesse, nel caso avesse mai cambiato idea), il flacone di calmanti che Dominique aveva lasciato da lei la sera precedente, e la macchina che aveva parcheggiato davanti a casa.
Quindi partì. Era più determinata che mai.
Determinazione e disperazione, spesso, sono sorelle indivisibili.
 
*
 
Al suo arrivo, Angie non accese nemmeno il riscaldamento. Si strinse forte nel cappotto che indossava e si fece avanti coraggiosamente nell’ingresso congelato, osservando il suo respiro condensarsi in nuvole di vapore.
Non accese neppure la luce; non aveva alcuna intenzione di preoccuparsi di riattivare il contatore dell’elettricità. Aprì soltanto le serrande delle finestre, per permettere solo all’illuminazione naturale di divenire sua compagna.
Faceva freddo, ma era ancora troppo presto per la neve. C’era soltanto una leggera foschia che impallidiva il calore del sole lontano, rendendolo alla vista quanto di più distante possa esistere da una gigantesca palla di fuoco.
Angel inspirò a fondo, assaporando l’aroma perduto che aleggiava in quel corridoio sormontato da travi di legno. Ricordava che a suoi occhi di bambina quel vecchio soffitto appariva angusto, quasi sinistro, ma non aveva mai avuto motivo di avere paura, trovandosi con Jenny.
Una leggera corrente d’aria penetrata attraverso uno degli spifferi delle finestre mosse appena una delle tende ingrigite dal tempo. A Angie piaceva immaginare la presenza di sua sorella dietro quella tenda, come se il suo spirito l’attendesse in quel luogo, e le avesse fatto dipingere quel quadro bianco e blu solo per spingerla a tornare lì. Ma Angie sapeva fin troppo bene che le cose non stavano così, sarebbe stato troppo semplice.
Quello che agitava la tenda era solo uno spiffero d’aria; aria gelida, che sapeva certamente di morte, ma che non aveva nulla a che fare con Jenny.
Continuando ad avanzare, Angel incontrò il salotto; vi entrò, posando le chiavi della casa e quelle della macchina sul tavolo di mogano. Ascoltò il loro tintinnare quasi fosse un suono di infinita importanza, ma era solo perché i suoi sensi si stavano acuendo.
Mettendosi una mano nella tasca del cappotto estrasse il flacone di calmanti di Dominique, ma questo non fu appoggiato sulla superficie del tavolo. Al contrario, lo strinse nelle mani fredde, quasi si trattasse di un amuleto. Il suo amuleto segreto che le avrebbe aperto la via che conduceva a lei.
Fu soltanto fugacemente che pensò alla sua amica, alla sua eventuale necessità di riprendersi le sue medicine; quello, però, faceva parte del mondo reale, e Angie non voleva farne parte al momento.
Dominique si sarebbe arrangiata, tutti gli altri avrebbero potuto preoccuparsi per lei non riuscendo a rintracciarla, ma non importava. Per Angel contava soltanto essere lì, alla sua ricerca, dopo tanti anni infruttuosi.
Continuando a stringere il flacone di calmanti, Angie si diresse verso la finestra; anche qui aprì le serrande, poi si concesse di guardare fuori per qualche istante. Da quel punto della casa, si intravedeva il bosco poco distante. Le scappò un sorriso, ricordandosi di sé e di Jenny inginocchiate su una sedia per una per poter raggiungere il davanzale ancora troppo alto per loro; ricordò i loro nasi incollati al vetro gelido, scaldato lentamente dai loro respiri, e ricordò anche le favole relative a quel bosco che amavano scambiarsi. A volte in silenzio, perché anche se Jenny non lo diceva chiaramente, Angie sapeva che sua sorella stava inventando una storia nella sua mente, perché l’aveva sempre fatto anche lei.
Accarezzò con un dito il contorno del vetro intriso di polvere. Quasi le sembrò strano vedere l’esterno da quell’altezza; quando era bambina le sarebbe apparsa vertiginosa.
Era cresciuta, e questo fatto d’improvviso le parve orribile. Si era ripromessa di non farlo senza Jenny e, in un attimo, quasi le sembrò di averla tradita. Che sua sorella l’avesse lasciata proprio per quel motivo? Se l’era sempre domandato, ma ora non era più importante, perché, comunque stessero le cose, era decisa a riprendersi quanto le era stato negato.
Era disposta a tornare bambina, pur di riavere Jenny.
Fu senza pensarci che scoperchiò il flacone che aveva in mano e, altrettanto senza farci caso, si rovesciò un paio di pillole sulla mano libera. Si accorse soltanto di estrarre dalla borsa la bottiglietta di acqua naturale che portava sempre con sé, e di utilizzarne il contenuto per aiutarsi a ingoiarle.
 
*
 
Angie attraversò lentamente tutto il resto della casa. Il suo passo diveniva sempre più incerto mano a mano che i tranquillanti facevano effetto. Non sapeva per quale motivo li avesse assunti, ma aveva sentito che sarebbe stato giusto farlo, come se questi avessero potuto aiutarla a raggiungere la condizione ideale per stabilire quel contatto che anelava.
Angel raggiunse silenziosamente e senza premura ogni angolo e ogni stanza dell’abitazione, assicurandosi di lasciarne indietro una soltanto. Non aveva fretta e non aveva nulla che desiderasse evitare, ma doveva appropriarsi di ogni antico respiro abbandonato e custodito tra quelle mura, prima di varcare quella porta e stabilirsi lì dentro finché l’incontro non fosse avvenuto. Angie aveva bisogno di quei respiri, erano il ponte che collegava una vita che ancora bruciava con una già spenta, un mondo con un altro.
Assaporò ogni suono perduto, e ricordò ogni immagine preziosa. Doveva essere pronta.
I calmanti la stavano stordendo di più ogni minuto che passava, eppure le sembrava che le percezioni della sua mente si stessero allargando. Angie stava vedendo tutto ciò che c’era da vedere, percepiva ora molte più cose e con estrema chiarezza, e questo molto più intensamente di quando dipingeva.
Capiva perché aveva lavorato a quel quadro, e ora comprendeva anche di non avere altro scopo nella vita. Era arrivato il momento di riunirsi, e più nulla l’avrebbe impedito.
Fu solo quando ebbe esplorato ogni recesso e sfiorato con le dita sempre più ghiacciate ogni parete, che infine abbassò quella maniglia e spinse il legno di quella porta.
Entrò.
I due letti accostati erano senza lenzuola, ma dava quasi l’idea che altrettante figure vi avessero dormito di recente, quasi non esistessero più confini nell’infinità del tempo, e gli anni e i minuti si fossero tramutati nella medesima cosa. Anche questo Angie vedeva chiaramente: l’assurdità che sta dietro all’estensione del tempo, a questo catalogarlo come una linea retta a senso unico.
Una mente che lo desiderasse, poteva anche fermarsi e tornare indietro; Angie non sapeva ancora se fosse possibile stabilirsi nel passato, ma era certa che presto l’avrebbe scoperto.
Ora la ragazza si stringeva nel cappotto e nelle sue stesse braccia per il freddo eccessivo, i respiri continuavano a lasciare il suo petto sottoforma di vapore; nonostante ciò si sfilò le scarpe e le calze e avanzò a piedi nudi verso lo specchio che ricopriva due delle ante dell’armadio.
La stanza però era buia, troppo, e non si vedevano riflesse che le ombre e le sagome. Fu per questo che, anche in quella camera, Angie portò i suoi passi stanchi e i suoi respiri ormai affannosi verso la finestra; anche lì, permise alla pallida luce esterna di aiutarla nella sua ricerca dei giorni andati e di un luogo perduto.
Il debole sole, al primo momento, le fece dolere gli occhi stanchi, ma Angie smise quasi subito di prestargli attenzione, e tornò di fronte allo specchio.
Ora vedeva nitidamente la propria immagine riflessa: notò le borse sotto gli occhi, violacee e marcate, e il rosso intenso dei suoi capelli faceva risaltare ancor di più il pallore del suo incarnato, le labbra quasi esangui. Ancora una volta si sentì troppo alta, ma non fu solo quello; fece scorrere lo sguardo lungo tutta la sua figura, soffermandosi sui seni e sui fianchi: era una donna, che cosa restava ormai della bambina di un tempo? Come ristabilire quel contatto non solo con Jenny, ma anche con quella parte di se stessa della quale sembrava non esserci l’ombra?
Sospirando, si lasciò cadere in ginocchio di fronte allo specchio. Allungando lentamente una mano, ne sfiorò la superficie con due dita, togliendovi parte dello strato di polvere adagiatosi durante l’anno abbondante in cui la casa era rimasta completamente disabitata.
Era lì che doveva cercarla; Angie lo sentiva e non aveva dubbi in proposito: era nello specchio della cameretta che in quella casa lei e Jenny avevano condiviso, che doveva aguzzare lo sguardo. Forse, se l’avesse chiamata a lungo, lei sarebbe tornata.
-Sono arrivata, Jenny- sussurrò a fior di labbra, mentre i suoi occhi si facevano sempre più pesanti --Sono qui per te-.
 
*
 
L’unico bisogno fisico di cui Angie si premurò fu quello dell’idratazione; quando ne avvertiva la necessità, beveva. Prima aveva finito la bottiglietta d’acqua che aveva portato con sé, dopodiché si era disturbata ad aprire la valvola dell’acqua lasciata chiusa durante l’inattività della casa, e teneva sempre con sé un bicchiere riempito al rubinetto. Per il resto del tempo, non fece che restare di fronte allo specchio della loro cameretta di bambine, sperando in un segno.
Quel primo giorno, però, non successe niente. Angie non vide che il proprio riflesso, eppure si stava sforzando di guardare in profondità, di vedere oltre il vetro riflettente; sembrava che Jenny non volesse saperne di tornare, ma Angel non si sarebbe data per vinta, non così in fretta.
Si addormentò quella notte, accoccolata davanti allo specchio dell’armadio, con il volto cereo illuminato debolmente dalla magnifica luna piena e dalle stelle più visibili di quel luogo isolato. In città, Angie non ricordava di averne mai viste così tante e così luminose, anche se, in quella particolare occasione, non vi aveva certo prestato molta attenzione.
Aveva continuato a scalfire lo specchio con lo sguardo anche quando l’illuminazione era venuta meno, confidando nelle ombre della notte, fino a quando i tranquillanti uniti al sonno arretrato non ebbero la meglio sul suo fisico che andava debilitandosi.
Quando un nuovo, soave bagliore la ridestò il mattino seguente, Angie si affrettò ad assumere altri due calmanti, tentando di raggiungere lo stesso stato di stordimento, unito all’allargamento delle percezioni, del giorno precedente.
Provò nuovamente a vedere nello specchio qualcosa che non fosse la sua immagine di adulta, ma ancora una volta, i suoi sforzi terminarono senza risultati. Di quando in quando Angel si alzava, e camminava per la stanza polverosa, sperando che qualche minuto di immersione in se stessa l’aiutasse a scorgere qualcosa di non visto prima all’interno del vetro.
Dormì anche la seconda notte, ripensando a quelle ore insonni che avevano seguito la prematura scomparsa di Jenny. Si accorse, in quei momenti, di star provando la stessa identica sensazione: la aspettava, voleva che tornasse. Ma di lei, ancora nessun segno.
Infine giunse nuovamente il mattino e, con esso, Angie assunse altri due calmanti; sentiva che senza sarebbe impazzita, benché il senso di stordimento e la perdita di lucidità iniziassero a farsi quasi insopportabili. Eppure erano irrinunciabili.
Un terzo giorno trascorse ancora quasi interamente senza che nulla mutasse, ma fu quando Angie rientrò nella stanza con un nuovo bicchiere d’acqua, mentre il cielo tinto d’arancio annunciava il tramonto che aveva luogo dall’altro lato della casa, che l’immagine presente nello specchio la colse impreparata.
Sbarrando gli occhi, lasciò cadere a terra il bicchiere, che si infranse in mille pezzi. Non si curò molto dei frammenti di vetro, se non quel tanto che bastava per non calpestarli ed evitare così di ferirsi i piedi scalzi.
Lentamente, Angie si diresse verso lo specchio, e vi si inginocchiò di nuovo davanti. Ci fu soltanto un’azione che svolse il più rapidamente possibile: quella di estrarre dalla tasca del cappotto che non aveva mai tolto, nuovamente, il flacone di tranquillanti; ne assunse subito altri due, anche se senz’acqua. Non sapeva se ciò che stava vedendo fosse reale oppure no, ma non voleva correre il rischio di perdere quelle immagini, e per questo voleva conservare la sua condizione attuale di distacco dalla realtà tangibile.
Una volta fatto, posò nuovamente lo sguardo sullo specchio. Non esisteva più il suo riflesso, ma quel luogo che aveva anelato per tanto tempo di rivedere; c’era tutto: le altalene, lo scivolo, il girello, gli alberi spogli, il tappeto di foglie gialle e rosse, le nuvole e il vento che agitava tutto ciò. C’era anche il suo vecchio pupazzo, Blue Dog, adagiato a terra e bagnato di pioggia.
E c’era Jenny, che giocava da sola, a piedi nudi; stava raccogliendo le foglie e, tra le mani, ne stava facendo un mazzo, quasi fossero carte.
A quel punto, Angie adagiò entrambe le mani sulla superficie dello specchio, schiacciandovi contro anche il viso, come lei e sua sorella facevano da bambine contro la finestra del salotto in quella stessa casa. Era lì, tutto ciò che aveva sempre bramato, eppure vi era divisa da un ostacolo invisibile. Angie si rese conto che era come se il parco giochi e Jenny stessa di fossero sempre trovati lì, soltanto nascosti da una cortina che le impediva di vederli. Ora, quella cortina, si era fatta trasparente, ma era ancora lì, odiosa e invalicabile.
Con le lacrime agli occhi e le orecchie che ronzavano, Angie iniziò quindi a chiamare il nome di sua sorella, dapprima in un sussurro, poi la sua voce crebbe, forse più di quanto avrebbe immaginato, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo.
Ma Jenny ancora non sentiva. Angel la vide alzarsi, e raggiungere una delle altalene; vi si sedette sopra, e iniziò a spingersi. Avrebbe dato qualunque cosa per essere nuovamente lì con lei, e avere cinque anni. Quel che si domandò a un tratto, fu se Jenny davvero non la udisse o se preferisse non starla a sentire, volendo evitare di rientrare in contatto con lei.
La possibile risposta affermativa a questo quesito la terrorizzò, riempiendola di inquietudine; fu per questo motivo che estrasse nuovamente i calmanti, e ne ingurgitò un altro paio.
Presto, si sentì scivolare sempre più in basso, come se fosse in procinto di raggiungere nuove profondità; e la sua velocità di discesa diveniva sempre maggiore.
Improvvisamente Angie si rese conto che era proprio questo a servirle: per riavere Jenny, doveva lasciarsi cadere. Doveva cadere come l’angelo caduto che applicava come firma a ogni suo dipinto concluso; doveva cadere com’era caduta nella disperazione per aver perso sua sorella.
Angel lasciò che la dolce vertigine si appropriasse di lei e ne divenne totalmente complice; solamente doveva lottare per non chiudere gli occhi e lasciarsi vincere da quell’orribile sonno che l’avrebbe separata da Jenny; forse per sempre, questa volta.
Fu proprio mentre ciò che restava del mondo reale restava in alto, facendosi irraggiungibile, e la sua corsa sfrenata verso il basso diventava sempre più precipitosa, che Jenny finalmente le venne incontro.
Angie la vide avvinarsi allo specchio con il suo sorriso infantile e innocente dipinto sulle labbra. Prima di raggiungerla, si fermò un momento per sollevare Blue Dog da una delle zampe di pezza.
A ogni passo della bambina morta, la camera gradualmente spariva; via via che Jenny avanzava, le piastrelle lasciavano il posto al verde dell’erba e al rosso e al giallo delle foglie cadute.
Il soffitto che Angie non guardava si faceva immenso e si rivestiva di nuvole; lo specchio, da trasparente divenne a poco a poco evanescente, e i capelli di Angel iniziarono, piano, a reagire al vento che cominciava ad avvertire.
Jenny, intanto, si avvicinava.
Angie tese maggiormente la mano, pronunciando il suo nome in un sussurro; gli occhi ormai inondati di lacrime tanto a lungo represse. Poi Jenny le sorrise e, a sua volta, allungò la manina verso quella ormai grande della sorella. Le loro dita si sfiorarono per un istante, Angie ne sentì inequivocabilmente il calore; in quell’attimo, la loro evidente piccolezza le strinse in cuore. Ma erano dita calde, dita vive.
Durò soltanto un momento, tanto fuggevole e repentino da poter essere colto ma non afferrato. Fu in un batter di ciglia che Angie, guardandosi intorno, si accorse di non essere più nella casa di montagna dei suoi genitori, dove lei e Jenny avevano trascorso insieme le vacanze natalizie nei loro primi anni di vita.
Era all’interno della sua mente, così come tante volte le era accaduto da bambina.
Il mondo era sparito; ma ancora una volta, era sparito anche il parco giochi, insieme a Jenny.
C’era di nuovo quello strano lago gelido, quel vento che sussurrava parole adulte e l’infinita desolazione della solitudine.
Angie abbassò lo sguardo: aveva i piedi nudi immersi nell’acqua, intirizziti. Rimase così per un paio di minuti: interdetta, stordita, smarrita e persa. Fu tramite uno sforzo immane che riuscì a convincersi a muoversi: le sue membra si erano fatte infinitamente pesanti, così come le sue palpebre e il suo respiro, e ogni passo equivaleva a scalare una montagna.
Però doveva trovarla, non poteva averla vista, averle sfiorato la mano un istante, e poi perderla nuovamente con altrettanta rapidità. Non l’avrebbe mai permesso; l’avrebbe raggiunta.
Dunque vagò e vagò; uscì dal lago gelido e iniziò a esplorare le vicinanze, ma non incontrò che un luogo altrettanto freddo e privo di vita. Solo il vento urlava forte, era quasi assordante.
Eppure, in quel grido immenso e selvaggio, d’improvviso, Angie sentì chiaramente la sua voce, anche se non era più che un flebile sussurro. Chiamava il suo nome.
Il parco giochi doveva esistere ancora nella sua mente, doveva trovarsi lì da qualche parte, tutto stava nello scovarne l’entrata. Jenny era lì, perché sapeva che Angie era tornata per lei.
Angie camminò ancora, tentando di seguire la voce, cercando di ricordare la via, ma provando anche a dipingere un quadro, questa volta con le sole dita della mente. Doveva ridipingere quel luogo, così come aveva fatto da bambina il giorno del funerale di Jenny. L’aveva creato dal nulla, e doveva farlo di nuovo.
Mentre proseguiva, mentre tentava di mantenere stabile il contatto con quel sussurro lontano, si sforzò di recuperare tempere e pennelli. Intanto, si lasciò cadere un po’ di più.
Verde. Grigio. Rosso. Giallo. Marrone. Erano questi i colori principali.
Montò una tela, e iniziò il lavoro che le sue mani fisiche si erano sempre rifiutate di creare.
Ora iniziava a vedere realmente; vedeva in modo sempre più chiaro e nitido. Ricordava perfettamente quel parco giochi della sua mente, scoprì di non aver dimenticato nemmeno il minimo dettaglio. Ora credeva davvero di poterlo raggiungere; era lì che Jenny l’aspettava, Angie ne era sicura. Una parte di lei le suggerì di restare lì per sempre, una volta che avesse raggiunto la sua meta, ma questo che cosa avrebbe significato? Non tornare mai più alla vita, abbandonarsi alla morte? Rinunciare a tutto, fuorché a lei? Incontrare di nuovo quel categorico rifiuto di crescere e andare avanti? Forse sì. Forse, Angie avrebbe invertito il corso degli eventi e sarebbe addirittura tornata bambina.
Intanto, continuava a sentire quella voce. La voce di Jenny che chiamava il suo nome.
Intorno a lei, mentre camminava, il paesaggio iniziò gradualmente a mutare: era neve quella che silenziosamente si faceva strada dal cielo grigio verso la terra, sulla quale si posava come una gelida carezza. Il vento era cessato, lasciando al suo posto la totale pienezza del nulla.
La voce seguitava a chiamarla. La neve si faceva sempre più fitta e il suolo, rapidamente, ne era ricoperto ogni secondo di più.
Angie seguiva la voce. Perché non aumentava d’intensità, ora che il vento si era ammutolito?
Quella fresca e spensierata voce di bambina.
Ora Angie camminava con i piedi completamente immersi nel manto di neve, sprofondando a ogni passo. Sentiva che stava seguendo la via giusta, eppure si sentiva sempre più persa.
Forse non riusciva a lasciarsi cadere abbastanza.
Il quadro nella sua mente era ormai completo, perfetto, non vi mancava alcun dettaglio; Angie sapeva dov’era diretta e mai si sarebbe potuta sbagliare. Sapeva che quel luogo esisteva ancora dentro di lei, custodito dietro a una porta segreta della quale aveva perso per lungo tempo la chiave; ma ora Angie teneva quella chiave stretta nel pugno, e nulla l’avrebbe fermata.
E c’era davvero. Alla fine, Angie trovò il parco giochi.
Era indubbiamente lo stesso, ma non era affatto come lo ricordava, né come la sua mente l’aveva dipinto sul quadro. Adesso le altalene erano ricoperte di neve, così come lo erano gli alberi e il tappeto di foglie al suolo, che non si vedeva più. Il vento bambino taceva, le nuvole erano cariche di altra neve, e non di pioggia. Angie rimase per qualche istante impalata di fronte allo steccato che ne delimitava i contorni; non era in errore, quello era il luogo giusto, era da lì che proveniva la voce che l’aveva chiamata. Quella voce che ora aveva smesso a sua volta di farsi sentire.
Lottando di nuovo con la pesantezza delle sue membra, Angie scavalcò lo steccato, ed entrò nel parco giochi ricoperto di neve, ghiacciato, morto.
Semplicemente, non riusciva a capire. L’aveva vista nello specchio della camera, aveva sentito la sua voce chiamarla, com’era possibile che ora, tutto ciò che restasse di loro fosse … niente?
Mosse incerta qualche passo, come sotto ipnosi.
Infine, si ritrovò costretta a inginocchiarsi. Jenny non c’era, ma Blue Dog, il suo pupazzo, era lì.
Bianca la neve. Blu il cane di pezza.
Lo afferrò nelle mani tremanti ma decise e lo strinse forte, poi tornò a guardarsi intorno.
Le altalene imbiancate erano immobili, così come tutto il resto. Fu allora che capì: non aveva perso quel luogo, né sua sorella, ma non l’avrebbe più ritrovata come un tempo. Lì, non si sarebbero più potute incontrare. Era arrivato il tempo del gelo, che conservava i ricordi ma li rendeva inservibili, e non c’era modo di arrestare un tale processo. Jenny ormai era andata, poteva restare nei suoi ricordi, ma non concretamente con lei. Quel giorno di tredici anni prima, quando Angie si era ritrovata per la prima volta catapultata fuori dal suo stesso sogno e dalla sua stessa creazione, era semplicemente arrivato il momento. Perché il tempo mobile della vita e quello statico della morte non possono accompagnarsi a lungo, viene il giorno in cui devono dirsi addio.
Angie comprese tutto ciò mentre, ancora una volta, volgeva il suo sguardo in ogni direzione di quel luogo che tanto aveva amato e che le aveva concesso di vedere che cos’era diventato con il tempo: la tomba di un ricordo.
Angie capì, proprio mentre sentiva quella voce conosciuta che canticchiava accanto al suo orecchio quelle strofe antiche e infantili, chiamandola a sé.
 
*
 
Dormi, dormi, piccolina
Che domani si avvicina
Nella notte l’aria è fresca
E le stelle san di pesca
Chiudi gli occhi e vedi il mare
Che ti aiuterà a sognare
Gioca, gioca, coi delfini
Che diventan brillantini
Buonanotte, lo sarà
E domani si vedrà …
 
Lentamente, Angie aprì gli occhi. Non si accorse concretamente della fatica che questo sforzo le produsse, almeno non finché non fu tornata completamente in sé.
Si sentiva esausta, spossata e distrutta, ma sicuramente più calda. E anche più serena.
Si trovava in un letto d’ospedale, addosso aveva un generoso strato di coperte. Sua madre, seduta su di una sedia accanto a lei, le accarezzava con tocchi lievi i capelli rossi. Le sue labbra, dalle quali poco prima era fuoriuscita la ninnananna di quando lei e Jenny erano bambine, ora si erano distese in un sorriso.
Anche Angie sorrise, ricordando di aver cantato quella stessa melodia, sperando di svegliare Jenny, quando ancora non aveva compreso che sua sorella non stava semplicemente dormendo.
Alzandosi appena e dirigendo lo sguardo verso la porta, Angie vide Dominique sulla soglia, con le braccia incrociate e lo sguardo apparentemente spento ma indagatore, che le leggeva dentro. Quando si accorse che era cosciente, l’amica le fu subito accanto.
Le strinse la mano e Angie fu invasa da una sensazione piacevole quando ne avvertì il calore.
-Meno male che stai bene- iniziò dunque sua madre con un sospiro di sollievo; Dominique, al contrario, mantenne il suo silenzio e la sola stretta della sua mano.
-Ti abbiamo cercata per tre giorni, nessuno sapeva dove fossi finita, né cosa ti fosse successo- continuò la donna, ancora scossa -Poi la tua amica Dominique ha avuto l’intuizione del quadro-. A quelle parole, Angie si voltò d’istinto verso Dominique. L’espressione dei suoi occhi non era ancora mutata, ma Angie comprese che quella sera, quella dove tutto era cominciato, la sua amica aveva capito più di quanto mai avrebbe lasciato credere.
-Ha creduto che potesse avere a che fare con la tua scomparsa, così l’abbiamo guardato- la madre parlò di nuovo, questa volta dimostrandosi un po’ più calma.
-Quando ho visto la casa l’ho riconosciuta subito e, cercando in giro, non sono riuscita a trovare la chiave che ti avevo dato tanti anni fa, così siamo partite subito-. Una nuova carezza raggiunse allora la fronte di Angie.
-Ci hai fatto spaventare, ma è bello sapere che stai bene- terminò la madre in un sorriso. Angie glielo restituì.
Stava stringendo più forte la mano della sua amica quando una sola immagine le attraversò la mente: due altalene si muovevano seguendo il ritmo giocoso del vento. Vuote.
   
 
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