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Autore: Soqquadro04    15/09/2015    6 recensioni
[1992!AU/AH | 6540 parole | possibile OOC | on the road]
È la notte del 23 agosto 1992, Elena ha diciotto anni da esattamente sedici minuti e l'unica cosa che desidera è scappare il più lontano possibile da New York e dal suo passato nel Bronx, lasciarselo alle spalle, fingere che non sia mai esistito.
Damon rischia di investirla mentre si allontana definitivamente da un padre che gli impone ambizioni non sue e dalla disapprovazione - dolorosa - del perfetto fratello minore, le sue inclinazioni artistiche chiuse tutte nel bagagliaio e i soldi per il college arrotolati sul fondo del borsone.
Nessuno dei due ha un'idea precisa di dove andare, a nessuno dei due importa e, del resto, gli USA sono grandi abbastanza da nascondere, da qualche parte, un posto perfetto per ricominciare.
Basta solo cercarlo.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Damon Salvatore, Elena Gilbert | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: non mi appartengono in nessun modo, mi diverto solamente a rivederli in situazioni assurde.
Generi: Generale, Sentimentale, Romantico
Avvertimenti: possibile OOC, simil-Lime
Rating: Arancione
N/A - Note dell'Autrice:
Buonsalve, lettrici.
Torno su questo fandom dopo parecchio tempo, in seguito a un'improvvisa ispirazione che mi ha riportato un amore feroce per questi due - questa storia in particolare, qualcosa che avevo abbandonato da un po', un'idea che covavo già da qualche mese.
Non ho particolari note da farvi, quindi direi solo buona lettura, e spero di non avere perso la mano :)

A presto,
la vostra Soqquadro

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I
Le fonti si confondono col fiume

i fiumi con l'Oceano
i venti del Cielo sempre
in dolci moti si uniscono
niente al mondo è celibe
e tutto per divina
legge in una forza
s'incontra e si confonde.
Perché non io e te?

II
Vedi che le montagne baciano l'alto

del Cielo, e che le onde una per una
si abbracciano. Nessun fiore-sorella
vivrebbe più ritroso
verso il fratello-fiore.
E il chiarore del sole abbraccia la terra
e i raggi della luna baciano il mare.
Per che cosa tutto questo lavoro tenero
se tu non vuoi baciarmi?
Percy Bysshe Shelley - Filosofia dell'Amore

 

Ora… ecco, vedi, ci vuole tutta la velocità di cui sei capace per restare nello stesso posto.
Se vuoi arrivare in qualche altro posto, invece, devi correre almeno due volte di più.

Lewis Carroll

 

 

Lo zaino è incredibilmente leggero, nonostante dentro ci sia tutto ciò che la ragazza possiede e abbia mai posseduto, il che potrebbe anche deprimerla se solo non fosse così incredibilmente felice.
Lo lancia senza delicatezza fuori dalla finestra, appena prima di scavalcare il davanzale e lasciarsi scivolare a terra – fa un paio di passi avanti per stabilizzarsi, lenti, la brezza che le scompiglia i capelli e il sudore che le fa appiccicare la maglietta addosso.

La notte è afosa e umida, le luci della città scintillano gialle e bianche dall'altra parte del fiume, ma lì nel Bronx tutto è spento e malridotto, i profili degli edifici affiorano nell'oscurità come rovine ingrigite dal tempo.
Getta indietro il capo e guarda il cielo, e per un attimo pensa che potrebbero anche esserci le stelle – ovviamente non ci sono, non si vedono mai, a New York, non quando l'inquinamento luminoso è quel che è (ovvero fastidioso e decisamente sfavorevole alle sue tendenze da astronoma).

Sospira, raccoglie lo zainetto che contiene tutti i suoi averi e si incammina verso la strada, lasciandosi alle spalle il St. Mary e tutti gli anni passati lì dentro. I ricordi si fanno un po' più distanti ad ogni passo che la allontana dalle finestre malandate dell'orfanotrofio, sporche, buie – dormono tutti, li ha visti passando come un'ombra silenziosa per i corridoi mentre si dirigeva verso la finestra rotta della cucina, e si rigirano nei loro letti scomodi, imprigionati come uccelli in una gabbia, mentre lei è libera. È scappata prima ancora che potessero buttarla fuori, non appena scoccata la mezzanotte.

Elena ha diciotto anni da sedici minuti ed è libera.

La sensazione la esalta al punto che non riesce a farsi toccare da problemi terreni quali il fatto che non ha un posto dove andare e che con solo un diploma in tasca la possibilità migliore che le si prospetta è di essere presa come cameriera in qualche pub in attesa di potersi permettere il college, sempre che qualcuno sia veramente disposto ad assumere una ragazzina appena maggiorenne praticamente senza nessun tipo di referenza, e che in fondo non è sicura nemmeno di sapere da dove vuole ricominciare.

Se ne preoccuperà più tardi.

Nell'immediato l'obbiettivo è riuscire a recuperare un passaggio, possibilmente cercando di non venire assalita prima di raggiungere un quartiere un po' meno pericoloso – accelera il passo quasi inconsapevolmente, chiudendo la zip della felpa anche se fa un caldo quasi insopportabile e portando una mano in tasca a stringere lo spray al peperoncino, pensando che tutto quello che le permetterà di lasciare quel luogo (di andarsene lontano, lontano da quella città e dal St. Mary e da quel passato che la rincorre ogni notte nei suoi incubi) sono i cento dollari faticosamente racimolati e messi da parte nei tre anni in cui ha svolto qualche lavoretto come baby-sitter e che, di conseguenza, non ha certo intenzione di farsi derubare.

Il posto è però insolitamente tranquillo, quella sera – non vede quasi nessuno, mentre si spinge all'esterno, dirigendosi verso Riverdale. Non che si aspetti che qualcuno si fermi per un'autostoppista a Riverdale, ma tentar non nuoce e non è molto sicura di volersi addentrare ancora di più in città, sentire sulla pelle la sua essenza ingannevole e sfiorare, passando, la moltitudine insonne dei nottambuli a passeggio fra i grattacieli.
Quindi se ne resta lì, in attesa seduta sul marciapiede, pensando che dopotutto è tempo di vacanze e che forse qualche famigliola potrebbe darle uno strappo verso Washington – il monte Rushmore è sempre una meta gettonata e lei non ha sicuramente l'aspetto di una poco di buono, gli occhi accesi di vita e i denti candidi.

Perciò aspetta.
E aspetta.

E aspetta.

Passa un'ora prima che appoggi il pezzo di cartone scarabocchiato – che la fa assomigliare a una senzatetto, ma del resto è quello che temporaneamente è – sull'asfalto accanto a lei, due prima che inizi a capire che la brava gente di Riverdale non apprezza le partenze notturne e tre prima che la stanchezza diventi quasi ingestibile, costringendola ad alzarsi per sgranchirsi le gambe (l'alternativa sarebbe addormentarsi, e non è una buona idea farsi trovare ancora lì, la mattina dopo).

Quattro ore più tardi, quando all'orizzonte si intravedono già i primi chiarori dell'alba – Elena non ha un orologio, ma ha sempre avuto un gran senso del tempo e sa che, fra la camminata e l'attesa, sono quasi sicuramente già passate le cinque – il rombo di un motore spezza la quiete del quartiere immerso nel silenzio e la luce accecante dei fari di un'automobile penetra l'oscurità accogliente, già ammorbidita dalle pozze di luce regolari fornite dai lampioni. Elena la sente da lontano (non che sia difficile, dopo averlo aspettato per tutto quel tempo e aver teso l'orecchio a rumori anche meno promettenti), mentre tiene la testa fra le mani e i gomiti appoggiati alle ginocchia, esausta e prossima ad appisolarsi in quella posizione scomoda – persino oltre lo scomodo.

Scatta in piedi di colpo, senza darsi il tempo di rifletterci – afferra il pezzo di cartone e lo zaino e si lancia in mezzo alla carreggiata, pregando che l'autista abbia i riflessi pronti. Non lo farebbe, in circostanze normali, ma deve essere certa che l'altro si fermi – poi potrà anche decidere di non aiutarla in nessun modo, ma deve fare qualcosa oppure impazzirà tentando di andarsene da New York.

Chiude gli occhi quando sente lo stridio prolungato di un'inchiodata e un'imprecazione scivolare fuori dal finestrino aperto, li riapre quando si rende conto di non essere stata investita, anche se solo per venti centimetri.

Il suo – ipotetico – salvatore ha già aperto lo sportello per scendere, i fari la stanno accecando e il conducente è un uomo.
Elena fa in tempo a notare tutte queste cose, non esattamente in quest'ordine, prima di trovarsi davanti agli occhi più azzurri mai visti in vita sua – gli occhi più azzurri mai concepiti da Madre Natura, probabilmente – ed essere poi incapace di accorgersi di molto altro.
Situazione che non dura molto, considerato che lui le si è avvicinato incredibilmente in fretta, prendendola per le spalle e scuotendola senza molta delicatezza – ne sarebbe indispettita, in qualsiasi altro caso, ma fra gli occhi azzurri e la totale follia che l'ha evidentemente colpita quella notte non reagisce subito.

«Dio, ma sei completamente fuori di testa?» fronte aggrottata e un timbro profondo, graffiante – si riprende rapidamente, è brava a farlo, divincolandosi dalla sua presa decisa. Lui la lascia andare, girandosi dall'altra parte mentre si passa le mani fra i capelli.
È tutto un po' troppo veloce ed Elena è ancora confusa – pazza, è davvero, davvero pazza e dovrebbe fare marcia indietro e tornarsene al St. Mary e attendere semplicemente che loro la lascino andare via, magari potrebbe persino recuperare l'indirizzo di qualche bar –, non si fida granché a parlare. Quando lui si volta di nuovo, si limita a porgergli il suo cartone, senza rispondere, soffocando la voce del buonsenso che le suggerisce di girare i tacchi e scappare il più lontano possibile.
La preoccupazione e lo spavento che gli si leggevano in viso fino a poco prima si sciolgono in un sogghignare vagamente ansioso, quando finisce di leggere e le restituisce l'oggetto – si appoggia al cofano, le braccia incrociate al petto, e la guarda. E la guarda ancora.

Dopo quella che sembra un'eternità, Elena ancora rifiuta di distogliere lo sguardo, ma sbuffa, infastidita.
Non che le dispiaccia, essere l'oggetto dell'interesse di due occhi simili, ma gradirebbe avere una risposta, perché dopotutto ha rischiato di farsi tirare sotto da questo tizio per guadagnare cinque minuti di considerazione e sarebbe carino da parte sua dirle se ha funzionato o se deve rassegnarsi ad attendere qualche altra buon'anima.

«Quindi?» le esce più acido di quanto intendesse – arrossisce, quando lui alza un sopracciglio, stupito.
La macchina è ancora accesa, lui si limita a sospirare e lanciare un'occhiata esasperata al cielo, come a chiedere risposte al blu sbiadito dall'aurora imminente – risposte che ovviamente non riceve.
Poi si volta e risale, facendole cenno di imitarlo.

«Forza, ragazzina. Me ne sto andando anche io.» e poi non le dice più niente, ed Elena esita solo un istante prima di farlo davvero, la razionalità che grida in un angolo ignorato della sua mente tutte le buone ragioni per cui non dovrebbe accettare – potrebbe essere un maniaco un serial killer potrebbe volerti fregare potrebbe decidere di lasciarti in mezzo al nulla totale non sai nemmeno come si chiama – ma non fa caso a nessuna di quelle ottime argomentazioni.

Invece sorride, si sistema meglio lo zaino in spalla.
E apre la portiera dal lato del passeggero.

 

 

(Cercasi passaggio per il luogo più lontano in cui abbiate la pazienza di portarmi.)

 

***

 

Non fa domande, nelle due ore seguenti – non sa dove sono diretti e nemmeno le importa, sembra non saperlo bene nemmeno lui, quando si sorprende a osservarlo con la coda dell'occhio, trovandolo ogni volta corrucciato o sollevato o rabbioso.
Sembra anche non riuscire a stabilizzarsi su uno stato d'animo ed Elena conosce perfettamente la sensazione, quindi non fa domande.

Non fanno conversazione e basta, a dire il vero.
Niente nomi, spiegazioni, storie, niente di niente.
E, sorprendentemente, va bene così.

Da fuori si potrebbe pensare che si conoscano da anni, è quello il tipo di silenzio che aleggia nell'abitacolo, quel tipo fatto di pensieri e quietamente confortante, non certo quello pieno d'imbarazzo dei nuovi conoscenti, quando non sai bene se all'altra persona stai simpatico e senti il desiderio di riempire i vuoti con tutto quello che ti passa per la mente.

C'è questa grande calma, spezzata solamente dal nervosismo del suo compagno di viaggio, inespresso ed elettrico e abbastanza evidente da farle rizzare i peli sulla nuca dalla voglia che ha di chiedere, ma che allo stesso tempo la trattiene dal farlo.
Si limita ad aspettare, mordendosi le labbra fin quasi a sanguinare, scrutando il paesaggio che scorre fuori dal finestrino e diventa sempre meno urbano, l'eccitazione che cresce nel suo petto al pensiero che sta succedendo, finalmente, sta andando via e la sua vecchia vita si fa più distante con ogni chilometro che li allontana da New York.

Sono quasi le otto quando rallentano per entrare in un'area di servizio, il sole già alto e l'asfalto bollente nonostante sia ancora relativamente presto – Elena gliene è grata, mentre scivola dal sedile con le membra indolenzite.
Stira le braccia sopra la testa, le palpebre socchiuse.

Lui non è più lì accanto – lo vede, di sfuggita, mentre si dirige verso il negozio, probabilmente per prendere qualcosa da mangiare.
Ha fame anche lei, ma non è sicura di voler spendere anche pochi dollari per qualsiasi tipo di cibo fino a che non sarà davvero necessario, considerato che dovranno anche dividere la benzina e che avrà bisogno di un posto dove stare, quando deciderà di fermarsi.
Sospira e ignora l'appetito, sedendosi nuovamente e accarezzando con due dita la pelle dei sedili.

È una bella macchina, non che se ne intenda particolarmente – in ogni caso le piace, elegante e inusuale, con la carrozzeria azzurra (e sì, pare essere un'ossessione, ma di un azzurro che fa decisamente il paio con le iridi del proprietario) e un po' impolverata dal viaggio.
Ha l'aria vissuta, il genere di automobile nata per l'avventura e per i lunghi periodi sulla strada, non certo un'utilitaria.

«Tieni.» lui ricompare all'improvviso, ed Elena alza lo sguardo solo per vederlo porgerle un sacchetto bianco dei due che ha in mano. «Non sapevo cosa preferissi, quindi ne ho preso uno alla marmellata di fragole anche per te.» lo afferra di riflesso, aprendolo per dare un'occhiata all'interno.

Un tramezzino.

Aggrotta la fronte nella sua direzione, scuotendo il capo, ma quando fa per restituirglielo il suo stomaco brontola ferocemente, in disaccordo. Elena arrossisce e fa finta di nulla, lasciandoselo cadere in grembo.

«Non ho fame.» mastica la protesta – bugia – fra i denti, tentando stoicamente di non far caso ai crampi – lui inarca un sopracciglio, prima di tirare fuori dalla sua borsa un panino identico e iniziare a mangiare tranquillamente, appoggiato al fianco dell'auto.
Lei si limita a fissarlo, testarda, per tutti e cinque i minuti che gli occorrono per concludere – alla fine la liquida con un'alzata di spalle, dando un ultimo morso per poi fare il giro e risalire al suo posto.

«Come preferisci, ragazzina.» le lancia un'occhiata di sbieco, appena prima di mettere in moto, ma lei non la ricambia. Guarda dritto davanti a sé, le labbra strette e la busta di carta che le pesa in grembo.

 

Lui guida per ore, dopo.

Elena si assopisce senza rendersene conto, provata dalla notte quasi insonne, mentre osserva ancora il paesaggio scorrere dal finestrino.
Sogna, incredibilmente, sogni confusi e frammentati – una notte fredda della sua infanzia e iridi azzurre che la fissano ancora e ancora e ancora, qualcosa che le sfiora la guancia, fragile come una farfalla, e sprazzi di ipotetiche vite, altri mondi e persone che non conoscerà mai.

È un apparente picco di calore a strapparla dal suo dormiveglia inquieto – si sveglia lentamente, la bocca impastata e la nuca umida di sudore, i capelli che pesano, bagnati, sul retro della schiena.
La luce del sole morente del tardo pomeriggio è ancora abbastanza da accecarla, quando socchiude le palpebre, infastidita.
Ha il collo è indolenzito, le labbra screpolate e così tanta fame che lo stomaco le fa quasi male – geme, raddrizzandosi lentamente, irrigidita dalla posizione scomoda tenuta per così tanto tempo. Il sacchetto con il tramezzino è appoggiato ai suoi piedi, ma non lo degna di uno sguardo.

Sono fermi, lui non c'è – dal parabrezza vede la fila di auto in attesa e sbuffa, aprendo lo sportello per uscire a sgranchirsi le gambe e anche andare a cercarlo, magari, avere un'idea di quanto ancora ci vorrà prima di riuscire a muoversi di nuovo.

Lo trova appoggiato al guard rail, un po' distante da un gruppo di persone che chiacchierano poco più in là, tanto per passare il tempo e distrarsi dalla sensazione dell'asfalto cocente sotto la suola delle scarpe.
Ha una sigaretta quasi spenta fra le dita e i capelli sconvolti, ed Elena deve trattenere la voglia di passarci le mani, quando gli arriva abbastanza vicino. Le lancia un ghigno stanco, vedendola sistemarsi accanto a lui, le spalle che si toccano. Tormenta l'orlo della maglietta, sovrappensiero.

«Hai mangiato?» nega con la testa, e lo ignora tranquillamente anche quando aggrotta la fronte con disapprovazione – non capisce perché, Elena, visto che dopotutto è solo qualcuno con cui condividerà la spesa della benzina e qualche ora o giorno della sua vita, e non sa nemmeno il suo nome, santo cielo.
È tanto tempo che nessuno si preoccupa più per lei, se qualcuno l'ha mai davvero fatto – è una sensazione strana, non ci è abituata, ma non riesce a ignorare il senso di colpa molto a lungo, dopo averlo trattato così.
Sospira e gli risponde, sottovoce, più un brontolio irritato che una frase veramente comprensibile.

«Pensavo di comprare qualcosa non appena ci fossimo fermati per la notte, ma siamo bloccati qui, quindi dovrò aspettare.» capisce che sta per parlare senza nemmeno guardarlo, ma non si ferma a chiedersi come sia anche solo possibile, «E no, non ho intenzione di avventarmi sul tuo panino.» ribatte, una smorfia che le attraversa il viso senza che quasi se ne accorga.
«È solo marmellata, non ho cercato di avvelenarti, sai?» volta il capo verso di lui in tempo per vederlo alzare gli occhi al cielo, vicino all'esasperazione – si rende conto che sono un po' troppo vicini quando lui la imita e lei sente che potrebbe annegare in quell'azzurro, se solo abbassasse la guardia.
«Non ho bisogno di elemosina.» quasi lo ringhia, e lui si allontana lentamente, tornando a osservare il muro compatto di auto davanti a loro.
Per un attimo, pensa che non risponderà – solo per un attimo, naturalmente.

«Non era quella la mia intenzione.» sommesso, quasi offeso – Elena non sa proprio più cosa pensare, perché lo sa che in fondo non era ciò che intendeva ma lei ha imparato a non avere bisogno di nessuno, non c'è mai stata l'occasione di essere coccolata, aiutata, e se accettasse si sentirebbe per sempre in debito nei suoi confronti e non sa come farglielo capire, non quando lui viene da tutto un altro mondo.

Restano in silenzio per un po', il sole che cala definitivamente dietro l'orizzonte e il chiacchiericcio del gruppo che si affievolisce mentre si avviano verso l'inizio della coda, probabilmente per cercare di capire fra quanto potranno muoversi.

Quando parla, rompendo la calma imbarazzata che è infine venuta a crearsi – con ore di ritardo, in realtà –, si aspetta che sobbalzi, lei lo farebbe.
Lui resta perfettamente immobile, forse se lo aspettava.

«Lo so. Ma non posso accettarlo, non così.» lo vede annuire, con la coda dell'occhio, e sa che ha in mente qualcosa prima ancora che le risponda.
«D'accordo.» dopo c'è solo la sorpresa della sua mano che le stringe il gomito, delicata, pelle contro pelle e il brivido che le corre lungo la schiena, pura elettricità, mentre la guida verso l'auto.
Non ce ne sarebbe strettamente bisogno, ma Elena lo lascia fare – è giovane e libera e non è nulla, solo una gentilezza d'altri tempi, inusuale.

Le apre persino la portiera, prima di accomodarsi al suo posto e porgerle la busta con il solito, fastidioso ghigno.
La afferra con diffidenza, scrutandolo da sotto le ciglia, mentre porta le mani dietro la testa e stende le gambe, per quanto possibile.
«Tu mangi, io ottengo informazioni.» stringato, semplice, ragionevole – prende in considerazione l'idea di protestare, ma si accorge in fretta che non le porterebbe altro che svantaggi. E il suo orgoglio è abbastanza al sicuro.

È un buon patto.
Esita comunque un istante, prima di annuire, ma alla fine lo fa.

«Quante domande?» glielo chiede con finta esasperazione, mentre tira fuori il tramezzino – un po' gommoso, dopo essere stato tutto il giorno al caldo, ma andrà bene – e inizia a sbocconcellarlo, piano.
Lui non ci pensa neanche su.
«Cinque, e risponderò a mia volta.» anche questo, ragionevole.

Annuisce di nuovo e lui stira le labbra con soddisfazione – pare un gatto davanti a una ciotola di latte, ed Elena vorrebbe ridere al pensiero, ma si trattiene.
Si aspetta che cominci dal suo nome, anche se ormai dovrebbe aver imparato che lui riesce a sorprenderla ogni volta.

«Quanti anni hai?» continua a studiarlo dal basso, si prende il tempo di finire il boccone prima di mormorargli una risposta.
«Diciotto, da oggi stesso. Tu?» lui inarca un sopracciglio, forse colpito dalla velocità con cui ha deciso di lasciare casa o famiglia o tutto quello che Elena non ha – ma non dice nulla, nessun accenno che si allontani dal tono della conversazione.
«Ventiquattro.» è sorpresa e non fa in tempo a nasconderlo, arrossisce quando lui lo nota e allarga ancora di più – sembra più giovane, al massimo un paio d'anni più di lei.

Non certo sei – non che sia questa insormontabile differenza, ma non le piace sbagliare.
Non commentano.

Nel tempo che impiega per arrivare a tre quarti del panino, la coda si sblocca e loro si rimettono in viaggio.

Le chiede il suo colore preferito, una breve esposizione dei suoi gusti musicali e se ha mai avuto animali domestici (rosso, Guns 'n' Roses e i Beatles – lui sembra approvare –, e nessun animale, nemmeno un canarino).
Di conseguenza, scopre che gli piace il verde, ascolta i Led Zeppelin e da bambino aveva un cavallo – ride per qualcosa come un quarto d'ora e ignora senza problemi il suo sguardo da borghese costernato.

Restano in silenzio per un po', ed è di nuovo una quiete confortante, calda, solo il rombare del motore e il suo discreto deglutire a interromperla.
L'ultima domanda avrebbe dovuto essere la prima, ma Elena ha apprezzato quel piccolo stravolgimento – ha apprezzato la possibilità di immaginarlo, e adesso le piacerebbe anche venire smentita.

Le ipotesi più gettonate, comunque, sono per qualcosa di elegante e aristocratico – William, forse. O Theodore.
Chissà a cosa ha pensato, lui – magari una Tess, o Jane.
Non trova che nessuno le si addica, ma forse è solo perché il suo nome le piace davvero.

«Come ti chiami, ragazzina?» ha il forte sospetto che se la stia godendo un po' troppo, quest'ultima occasione per usare impunito il nomignolo irritante che le ha appioppato col passare delle ore – l'ha chiamata così anche la sera prima, ma non ci ha fatto troppo caso.
Sorride appena, volta il capo verso il finestrino.

«Elena Gilbert.» si gira di scatto, quando lui le prende la mano e se la porta alle labbra, lo sguardo ancora fisso sulla strada. Lascia un bacio leggero sul dorso, appena un istante, la pelle formicola e quasi brucia.

La lascia andare subito, lei si trattiene dal ritirarla di colpo – prende un respiro profondo e cerca di non notare il fatto che lui non abbia più il volto deformato dall'ormai abituale ghigno.
Quello è un sorriso.

«Enchanté, Hélène. Io sono Damon Salvatore.»

 

***

 

Si fermano in un'area di servizio per dormire qualche ora prima di ripartire – Elena non sa nemmeno dove stanno andando, non che importi poi molto, alla fine.
Lo aiuta a preparare una specie di nido con delle coperte prese dal bagagliaio, non che ce ne sia bisogno, ma i sedili di pelle rischiano di diventare appiccicosi.

Nel baule, oltre a un borsone e le sopracitate coperte, ci sono stipate una quindicina di tele – dieci chiaramente dipinte – e una valigetta dall'aria antica. Elena si volta verso di lui con aria interrogativa, ma Damon si limita a scuotere le spalle e mormorare qualcosa su una storia troppo lunga per essere raccontata da qualcuno di così assonnato, e lei solo accetta la risposta e si dice che ci sarà tempo. Del resto, la regola delle cinque domande varrà ogni giorno – tre a pranzo, due a cena, probabilmente.

 

La lascia sistemarsi sui sedili posteriori, molto galantemente, e lei si addormenta sorprendentemente in fretta.
Si sveglia un paio di volte, sentendolo rigirarsi, davanti, e ogni volta lui le sussurra che non è nulla, di tornare a dormire.

La seconda volta, con gli occhi ancora chiusi, alza appena il capo e cerca a tentoni lo zaino, che sta usando come cuscino – glielo porge senza dire nulla, e sprofonda di nuovo in un sonno senza sogni.

 

***

 

La mattina si mettono di nuovo in viaggio, dopo non più di sei ore di sonno.
Lei sbadiglia tutto il tempo, Damon ridacchia sotto i baffi, riposato come se non avesse passato la nottata a rigirarsi come in agonia. Un po' lo odia per questo, a dire il vero.

Riesce a estorcerle il nome della sua prima cotta (Matt – ma lui aveva una Katherine) e i suoi – striminziti – hobby (leggere, principalmente, quando ce n'era la possibilità. Altrimenti ballare).
Da lì arriva la storia delle tele nel portabagagli – prevedibilmente, è un pittore. Il padre avvocato non approva la cosa, non lo fa nemmeno il fratello minore, lui se n'è andato, al momento ritrae chi glielo chiede per qualche spicciolo – nonostante questo ha soldi più che a sufficienza, considerato che ha prosciugato il suo conto prima di andarsene.

Questo spiega anche perché abbia insistito tanto a occuparsi del cibo.

A pranzo, Elena gli racconta di sua spontanea volontà dei suoi genitori – l'incidente, quando aveva cinque anni, e poi il St. Mary e il desiderio di scappare, il più lontano possibile, allontanarsi da tutti i brutti ricordi. Sa che può capirla, perché non ha accennato a sua madre.
Quella sera dormono di nuovo in macchina.

 

***
 

Prendono la prima camera di motel il terzo giorno, perché entrambi hanno decisamente bisogno di una doccia.
Il posto è squallido, ma per una nottata accettabile – il problema si fa evidente solo quando entrano, esausti, cercando di tenere fuori le zanzare che ronzano attorno ai neon.

Avevano espressamente chiesto due letti singoli, e ora Elena non sa se scoppiare a ridere o preoccuparsi del fatto che abbiano creduto talmente poco al suo continuo negare una relazione da ignorarli completamente.
Il letto matrimoniale li occhieggia minaccioso dal centro della stanza – Damon la guarda e sospira, poi alza le spalle e getta il borsone sul tavolo, subito seguito dal suo zaino.

La lascia fare la doccia per prima, anche perché non vede l'ora di andare a distendersi, ma il rumore dell'acqua, dopo, le impedisce di dormire – il rumore dell'acqua e, anche se tenta di seppellirlo da qualche parte in fondo alla sua coscienza, il pensiero di Damon.

Quando sente i suoi passi, chiude gli occhi e cerca di regolarizzare il respiro – li tiene chiusi anche quando sente il materasso abbassarsi sotto il suo peso, e il calore del suo corpo accanto.

 

La sveglia la sensazione di costrizione alla gola che indica un attacco di panico – spalanca gli occhi e ansima, l'ossigeno che non sembra abbastanza per i suoi polmoni compressi e il buio che preme quasi fisico sulle palpebre.

Allunga una mano alla cieca, accanto a lei, solo per trovare la pelle nuda dell'uomo che le dorme a fianco – lo chiama, senza fiato, le unghie che lo graffiano nel terrore.
Damon è vigile in un istante, la aiuta a tirarsi a sedere – la guarda negli occhi, iridi azzurre che brillano come quelle di un gatto nell'oscurità, e le dice di contare e respirare e contare ancora, e funziona.
Il ricordo dell'incubo si fa lontano, lui le sta accarezzando la schiena e anche se gli dice che va tutto bene, che può tornare a dormire, non si fida più di tanto.

Lui sembra capirlo – del resto, sono poche le cose che già non capisce – e fa qualcosa che non dovrebbe fare – e che lei non dovrebbe accettare.
Le tiene stretta la mano, la volta e lascia che si appoggi addosso a lui, la testa nell'incavo del suo collo, la schiena a contatto con il suo petto – Damon profuma di pioggia e lamponi, un connubio strano e vagamente insensato. Le piace.

Lui non dice più nulla, e lei si addormenta senza accorgersene, le labbra schiuse per dire qualcosa che la mattina dopo, quando si sveglia abbarbicatagli addosso come un koala arruffato e si allontana piena d'imbarazzo, non ricorda più.

 

(Grazie).

 

***

 

Prendono una stanza d'albergo ogni due giorni ed Elena non ha incubi tutte le notti, ma il dormire abbracciati diventa routine prima che possano anche solo pensare di impedirlo.
Dorme meglio, quando c'è il profumo di Damon ad avvolgerla – molto più rassicurante di qualsiasi coperta, non che abbia intenzione di dirglielo.

Il gioco delle domande continua, anche se dopo più di tre settimane in viaggio ci si aspetterebbe di sapere più o meno tutto il possibile sull'altro – no, invece, lui continua a trovare richieste assurde che per la maggior parte la fanno ridere come non crede di avere mai fatto. Scopre che chiama la sua auto Lizzie, che suo fratello si chiama Stefan e studia per diventare medico, proprio come Giuseppe avrebbe voluto avesse fatto lui – può sentire il disprezzo nella sua voce e resta in silenzio, senza commentare – e, finalmente, che sua madre è morta quando aveva sette anni. Cancro ai polmoni.
Quella volta l'ha abbracciato lei, seduti sul cofano in quel parcheggio assolato, il cielo nuvoloso che aveva rovesciato catinelle d'acqua direttamente sulle loro teste.

Ogni tanto si fermano in qualche città – hanno proseguito per un po' verso nord-est, sono passati per Augusta e per Boston ma non sono piaciute a nessuno dei due. Ora stanno scendendo verso ovest, hanno già passato Washington (e al monte Rushmore ci sono andati davvero, dopo che gli aveva confessato della sua prima idea, quella notte d'agosto) e Richmond. Stanno dirigendosi verso il mare, verso Wilmington, in North Carolina. Elena vuole solo andare ancora più lontano, ma finché a lui non dispiace la sua compagnia non vede cosa ci sia di male ad accompagnarlo a tutte le piccole fiere, ballando per raccogliere qualche moneta mentre lui disegna caricature ai passanti curiosi. I suoi cento dollari sono già diventati centosettanta.

Pensa che potrebbe andare avanti così per sempre e che quella vita, in fondo, non è così male, anche (proprio perché) ci sono gli occhi di Damon che la osservano più di quanto dovrebbero, ogni volta che gli passa accanto volteggiando in una vecchia gonna fuori moda e sempre più spesso in momenti qualsiasi, mentre sono in auto e lei è rannicchiata sul sedile con un libro da autogrill fra le mani o alla luce stentata di un abat-jour.

 

(Elena gli sorride ogni volta e cerca di ignorare il fatto che anche lei lo guarda ben più di quanto dovrebbe).

 

***

 

Litigano.
Succede abbastanza spesso, di solito sono più che altro scaramucce sul fatto che lui dovrebbe dormire decisamente di più o sui ritmi troppo serrati, dettati per lo più dal caldo che li rende tremendamente irritabili entrambi.

Elena è solo preoccupata per lui, e Damon lo sa, ma a volte semplicemente non riescono a evitarlo.
La maggior parte delle volte iniziano per caso e si risolvono altrettanto per caso, con uno sfiorarsi di dita o qualcosa di altrettanto leggero e impercettibile perché nessuno dei due è tipo da grandi discorsi, in fondo.

Ci sono volte anche peggiori, certo.
Sono state solo due, ed erano entrambe stupide, riviste a posteriori, ma sul momento erano probabilmente troppo esausti per ragionarci davvero su.

La prima era stata dopo un mese e mezzo che viaggiavano insieme – Elena aveva lasciato, del tutto per sbaglio, l'auto aperta. Se ne erano accorti solo la mattina successiva, al momento del carico e della partenza, e Damon era andato avanti a frecciatine passivo-aggressive per due ore, prima che lei ne avesse abbastanza.
Gli aveva chiesto di accostare, lui aveva accettato e quando era scesa l'aveva seguita – non aveva nemmeno provato a essere ragionevole, aveva gridato e basta, lui aveva gridato di rimando ed era stato a tanto così dal lasciarla tornare alla città più vicina a piedi.

A dire il vero l'aveva fatto.

Ma solo ed esclusivamente perché il villaggio era a meno di tre chilometri, e in ogni caso l'aveva seguita a distanza per tutto il percorso.
Elena se n'era accorta, ma non aveva detto nulla.

 

La seconda volta era stata colpa di Damon, ed esclusivamente sua.

E anche, naturalmente, della cameriera con cui aveva spudoratamente flirtato per l'intera serata.
Elena non era gelosa, non davvero – semplicemente trovava di pessimo gusto ignorare completamente la persona con cui si sta cenando in favore di una bionda inspida e palesemente tinta, oltre che piuttosto bruttina, solo perché sta facendo dondolare la scollatura giusto davanti i tuoi occhi.
Rifatta, fra l'altro.

Damon l'aveva fatto, lei era stata paziente per tutta la cena.
Quando l'aveva notato infilarsi in tasca un biglietto su cui era probabilmente scritto numero di telefono, indirizzo e taglia di reggiseno della sgualdrina, allora non ci era più riuscita.
Per tutta la durata del suo sfogo vagamente isterico, era stata perfettamente consapevole del divertimento di Damon e del fatto che una voce nella sua testa continuasse a ripeterle che quella era una reazione decisamente esagerata per un amico.

Damon, alla fine, aveva cercato di abbracciarla.
Lei si era scostata ed era tornata al motel da sola, anche se si trovava a sei chilometri dalla tavola calda – quelle litigate finivano sempre con lei che se ne andava a piedi da qualche parte, ma non le dispiaceva più di tanto.
Era arrivata esausta, ma comunque prima di lui – si era limitata a sorridere e chiudere a chiave la porta.

Damon non le aveva parlato per tre giorni.

 

(Però continua a pensare che se lo sia meritato).

 

***

 

La Cosa si compie dopo esattamente tre mesi di quel loro strano equilibrio – equilibrio non propriamente in grado di resistere a una tempesta di quella portata.
Sono in Colorado, a Denver – la stanza è la 319, il letto matrimoniale è pulito ma ha una terribile trapunta a fiori, abbastanza utile nel clima già più freddo di ottobre.

Damon ha lasciato, al solito, che si facesse la doccia per prima – al solito, Elena non riesce ad addormentarsi subito, distratta dai pensieri.
Questa volta, però, non fa in tempo a chiudere gli occhi al suono dei suoi passi sulle piastrelle – sobbalza, sorpresa, quando lo vede uscire dal bagno. Si affretta a serrare le palpebre, ma sa che lui ha visto e ha capito – perché Damon capisce sempre.

Si chiede cosa farà – la risposta le arriva in fretta.
Lo sente armeggiare per un po', alle sue spalle – esitare, ma alla fine si sdraia sul materasso accanto a lei.

Può immaginarlo, le braccia sopra la testa, lo sguardo al soffitto.
Quando si volta verso di lei e la stringe, da dietro, Elena lascia andare il respiro che non si era accorta di trattenere – Damon affonda il naso nell'incavo del suo collo ed è semplicemente tutto troppo, troppo da gestire.

Scappa, naturalmente.
Se ne pente immediatamente, dopo soltanto un paio di passi sul ballatoio, stringendosi nella vestaglia troppo leggera – si allontana il più possibile dalla porta della camera, non si volta quando la sente aprirsi e richiudersi, poco dopo.

La voce di Damon è più bassa del solito, roca, le ricorda l'oceano – Damon le ricorda sempre l'oceano.
I suoi occhi no, le ricordano il cielo, alla luce del sole – quando sono tormentati dai ricordi, al buio, invece, le fanno venire in mente solo l'universo. Intero. Tutto nei suoi occhi.

«Elena.» la chiama come sa farlo solo lui, quel tono strano che è tutto e niente insieme – loro sono tutto e niente, insieme – ed Elena davvero, davvero prova a non girarsi. Ci riesce, per un istante, abbastanza da rispondergli anche se non le ha chiesto nulla – l'ha fatto, invece, ma non a voce alta.
«Non farlo, Damon.» ma non fare cosa, in fondo, e perché mai, sono giovani e liberi ed Elena per la prima volta in tutta la sua vita crede di sapere cos'è l'amore, ma non ne è sicura, non è sicura di nulla e questo la spaventa – e allo stesso tempo la fa sentire solo così viva.

Damon la fa sentire viva.
Come l'oceano.

«Perché no?»

Perché no?

 

La colonna è gelida e dura contro la sua schiena, Damon è sconosciuto e bollente sotto le sue mani, labbra e lingua e denti e la sensazione delle sue spalle sotto le unghie, graffia il tessuto sottile della camicia e desidera solo la sua pelle.

Si allontana dalla sua bocca solamente quel tanto che basta per respirare, probabilmente meno di quanto sarebbe necessario – geme, senza controllo sulla voce, quando scende a morderle il collo, e non riesce a pensare ai segni che lascerà. Perché ne lascerà, di certo.
Ma ne lascerà anche lei.

La sorprende, quando la solleva sotto le ginocchia, portandola di peso nuovamente in camera – lancia un gridolino stupito, lui lo blocca con un bacio e sorride sulle sue labbra, sorride davvero.
La appoggia sul letto con delicatezza, lei non sa neppure più cosa sta facendo, ormai – l'unica cosa che importa è averlo vicino, il più vicino possibile.

Non sa quanto tempo passa a baciarlo e lasciarsi baciare, non sa quando non c'è nemmeno più un brandello di stoffa a tenerli separati, le carezze di Damon sono fuoco sulla cute elettrica di eccitazione.
Non sa quando i suoi baci si fanno più lenti, non quando inizia a studiare il suo corpo, il suo sguardo praticamente fisico e la punta della lingua che disegna il contorno delle ossa sporgenti e dei piccoli avvallamenti, né quando il nervosismo si scioglie piano, mentre lo guarda negli occhi e vede una tenerezza che non ha mai avuto occasione di conoscere prima di adesso.

All'inizio fa male – lo sapeva, ma lui continua a sfiorarla e distrarla e mormorarle parole che non capisce, ma dal suono tremendamente rassicurante. Sospetta sia francese, ma non ha la forza d'indagare.

Dopo il dolore scema, Damon tiene gli occhi chiusi e lei accarezza le sue palpebre con labbra leggere per chiedergli di guardarla, guardarla e basta, e c'è solo un grande calore e un lungo ansito che le scappa senza che possa far nulla per trattenerlo.
Lui ride, e geme, ed Elena gli si stringe un po' di più addosso – alla fine si addormentano così, anche se entrambi avrebbero bisogno di una doccia e di lenzuola pulite.

 

La mattina dopo, quando si sveglia, Damon è ancora addormentato lì a fianco, un braccio attorno alla sua vita.
Sorride, non riesce a smettere, e non si scosta – la cosa non la infastidisce, anzi, è... bello, piacevole, il tepore di un corpo a contatto col proprio, durante le albe fredde di inizio inverno.

Si crogiola un po' nella calma della stanza, poi decide che può anche svegliarlo – un po' le dispiace, nel sonno il suo viso è così rilassato che il pensiero di disturbarlo le fa male al cuore.
Alla fine cerca di farlo il più dolcemente possibile – gli si avvicina per baciargli il naso, le guance. Quando arriva alla sua bocca, Damon è già vigile – prima che possa sfiorarlo, apre le palpebre di scatto e si porta su di lei, precedendola.

«Buongiorno.» mormora sulle sue labbra, sorride di più quando Damon strofina il naso vicino al suo orecchio, afferrando piano il lobo fra i denti, giocoso.
Lo lascia fare per un po', poi sospira e gli dà una spinta leggera, facendolo rotolare nuovamente nel suo lato del letto.
Si volta verso di lui, appoggiata a un gomito, incurante del seno che si intravede appena al di sotto delle lenzuola. Nulla che lui non abbia già visto, del resto.

Lui la sta guardando a sua volta con un'intensità impressionante, ed Elena potrebbe rimanere così per sempre – forse persino di più.
Si chiede se stia per dire qualcosa, si chiede cosa dovrebbe rispondere, nel caso – l'ha pensato, ma non è sicura di essere pronta.

Lui dischiude persino le labbra, lo stomaco le si aggroviglia, ma alla fine si limita a scuotere il capo, baciandole la fronte.

«Abbiamo bisogno di una doccia.» è strano come sia facile abituarsi a un noi, anche se per tutta la vita sei stato solo – Elena neppure ci fa caso, pensa soltanto che se vanno insieme non riusciranno mai a lavarsi.
Sbuffa, impigrita, prima di accarezzarlo e sbadigliare, stiracchiandosi come una gatta, lunga quasi quanto il letto.

«Prima tu.» il suo è un brontolio abbastanza indistinto, ma Damon ride e prima di alzarsi per raggiungere il bagno la bacia di nuovo. Elena non riesce a smettere di sorridere, ma non fa caso nemmeno a questo.
Si chiede se continueranno a vagabondare per gli Stati Uniti alla ricerca del posto perfetto dove cominciare una nuova vita – si chiede se forse non l'abbiano già trovato. Denver è un luogo come un altro, il Colorado uno Stato come un altro, ma loro lì sono cambiati.

Si sono trovati, in un certo senso.
Si sono scelti.

Non sa come dirlo, non sa cosa sta dicendo, non sa esprimere a parole quella sensazione di totale, completo appagamento.
Forse è felicità – spera che lo sia.

Resta sdraiata fra le lenzuola ancora umide, l'odore di Damon – di loro – che è ovunque, in quella stanza, e ascolta l'acqua che scorre con una nuova consapevolezza.

Decide che alla fine non importa ancora se decideranno di fermarsi o di continuare.
Non importa, finché potranno ancora esserci mattine come questa.
Del resto, sono giovani, e liberi, e il mondo è lì per loro.

 

Elena sorride fra sé, mentre si alza per raggiungerlo.
Ed è piuttosto certa di avere capito cosa significa amore.


 

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Ovviamente, anche se non credo ci fosse bisogno di specificarlo, la scena del motel è una rivisitazione della 3x19 :) (E no, non c'era Jeremy a cockblocare allegramente, stavolta).

 

 
   
 
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