CAPITOLO
3:
No,
no, no. No. Non può essere. No. NO.
Continuavo
a tastare e a guardare, a girarmi e rigirarmi, correvo e mi veniva
l’ansia. Non
so per quante volte girai per l’entrata del condominio.
C’era
qualcosa di sbagliato. Doveva esserci qualcosa di sbagliato. DOVEVA
esserci, e
basta.
Ma
la porta non c’era. Quella cazzo
di
porta non c’era.
Non ha alcun
senso, pensai
respirando lentamente per
evitare che il panico avesse la meglio su di me,
non ce l’ha. La porta c’è sempre stata.
E’ sempre stata qui.
Ma ora non
c’è.
“LO
SO CHE NON C’E’!” urlai con quanto fiato
avevo in corpo. Stavo diventando
pazza, ecco che stava succedendo. Avevo la mente che stava facendo plof. Come un budino. Plof
su se stesso. Plof.
Uh, diamine,
devo
capire, devo capire se è un incubo o realtà!
Ma
come facevo? Ero passata in venti minuti da Venerdì 13 a One
Late Night, per
arrivare a Paranormal Activity. Eh, già, pacchetto all
inclusive.
C’era
solo una soluzione. Dovevo. Riprendere. Il. Controllo.
Adesso.
“Mi
scusi?”
Mi
bloccai, mani nei capelli, occhi semichiusi, testa pulsante. Non avrei
sopportato qualcos’altro di assurdo quella sera, non ce
l’avrei fatta.
Ma
mi girai. Non so come ci riuscii, ma mi girai.
“Mi
scusi?” ripetè la voce nel momento stesso in cui
mi voltai. Rimasi quasi
sorpresa. Era una ragazza, molto probabilmente mia coetanea, ma era
normale.
Una persona normale.
Forse
è una delle
coinquiline.
“Sì?”
La mia voce uscì come impastata.
“Si
sente bene?” mi chiese preoccupata la giovane, mentre io
cercavo di assumere
una posa da persona sana di mente. Cosa quasi impossibile, a dire la
verità, in
quel momento.
“Mh,
sì” risposi, sorridendo lievemente,
“solo un problema con le scale” conclusi,
indicandomi la fronte.
“Oh”
mi rispose lei distratta. Come faceva una persona ad essere distratta
mentre
tu, sanguinante, e con la faccia da malata mentale, le dicevi che avevi
avuto un problema con le scale?!
“Posso
chiederle una cosa?”
“Sì”
risposi titubante; improvvisamente non volevo che mi chiedesse niente,
perché,
diciamocelo, l’atmosfera in quel momento era surreale, io
stavo dando di matto,
nulla era ok, e il problema con le scale
che c’era sulla mia fronte mi stava facendo impazzire. Ancora
di più.
“Sa
dirmi in che direzione è il mattatoio?”
Che?!
No, ma
…. Era
seria?!
“Scusi,
non ho capito” le dissi, convinta di aver sbagliato a capire,
di essere
diventata pure sorda oltre che cerebrolesa, il che poteva essere, in
tutta
sincerità.
“Il
mattatoio” mi spiegò lei come se fosse la cosa
più naturale del mondo, “per
noi. Da che parte è?”
Ok.
O mi ero rincitrullita (cosa altamente probabile in quel momento,
nonostante
stessi per ottenere una Laurea in Biologia Molecolare), o la ragazza
aveva
problemi di espressione. Seri, anche.
“Non
ti seguo” affermai incerta, sperando che non la prendesse a
male, e cercando
una via di fuga dall’ennesima situazione senza senso di
quella sera.
“E’
lì, alla vostra destra, ….”
Mi
voltai, sentendo quella voce metallica che riconoscevo, e che avevo
sentito al
telefono quando tutto cominciò.
“….
Signorine.”
Non
sentii nemmeno l’ultima parola: ero bloccata. Di fronte a me
si trovava
qualcosa di talmente spaventoso che
non riuscivo più ad articolare nemmeno un suono. Un abito i
cui colori, una
volta originali, divertenti e giocosi, erano lentamente svaniti e
offuscati
dalle macchie di sangue coagulato e non; il viso bianco, incorniciato
da denti
aguzzi, e un naso rosso cascante, prevedeva da solo una fine lenta e
dolorosa
per il malcapitato che l’avesse osservato. Ma la cosa che mi
congelò sul posto
e mi bloccò il respiro furono gli occhi bianchi, senza
palpebre, né pupilla.
Completamente. Bianchi.
E
poi il mio sguardo si posò sul braccio destro del mostro,
che impugnava un
cacciavite. Colante sangue.
“Grazie,
mille, signore” cinguettò nel frattempo la giovane
vicino a me, avviandosi
verso non-so-dove. Dove poteva andare, se non c’erano vie
d’uscita? Nemmeno la
porta d’ingresso c’era più!
Non
mi curai nemmeno di guardare nella sua direzione: ero presa da
ciò che si
trovava davanti a me, sperando che non si avvicinasse. Fu allora che mi
guardò.
E
io smisi di respirare. Proprio come in apnea. Non emettevo un fiato,
sperando
di sembrare invisibile, ma lui mi vedeva comunque.
Girò
la testa da un lato, mentre il naso si afflosciava ancora di
più, e punto il
cacciavite verso di me.
“Dovresti
andare anche tu, Lauren, non
credi?”
Non
ci volevo andare. Volevo dirglielo; non ero mai stata una con i peli
sulla
lingua, del resto. Ma non ce la facevo. Ero irrigidita. Se qualcuno mi
avesse
colpita, se lui mi avesse lanciato
il
cacciavite, ero sicura che mi sarei frantumata come una statua di gesso.
“Lauren?”
Cominciavo
a sentire le dita delle mani muoversi di nuovo, e il mio cervello
funzionare
ancora, mentre lui cominciava ad avanzare lentamente verso di me, lento
ed
inesorabile.
Ma
ora non era più lento, camminava più veloce,
più agitato, più arrabbiato,
furioso.
Mi
riscossi improvvisamente dal mio torpore e mi scagliai verso le scale:
avevo
quasi raggiunto il sesto scalino quando mi sentii tirare nuovamente per
i
capelli e scagliare per terra.
Poveri
capelli.
Cercai
di rialzarmi, ma la mia testa venne battuta più e
più volte sul corrimano della
scala, senza alcuna pietà.
Uno,
due, tre.
Mi
accasciai per terra, incapace di reagire, mentre il mostro avvicinava
il suo
viso al mio e con quegli occhi bianchi mi disse tre semplici parole.
“Benvenuta
all’inferno”
Un
quarto colpo sul pavimento, e non sentii più nulla.
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Dolore.
Immenso dolore alla testa.
Respira.
Obbedisco
alla voce nella mia testa. Non riesco ad aprire gli occhi,
però. Troppo dolore.
Alzati.
Prima
controllo di non avere altre ossa rotte, oltre al cranio. Mi pare che
sia tutto
a posto.
Adesso
arriva la parte difficile.
Mi
rotolo su un fianco. Il dolore alla testa si fa insopportabile. Bum. Bum. Bum.
Appoggio
la fronte al muro, lentamente l’energia ricomincia a
scorrermi nelle vene:
provo a mettermi carponi lentamente, senza fretta. Socchiudo gli occhi.
La
vista è appannata. Li sbatto più volte. Trovo una
parete vicino a me.
Mi
avvicino: avvicino il palmo della mano alla parete, provo ad alzarmi.
Al primo
tentativo non ci riesco, ci riprovo, ce l’ho fatta.
Senza fretta.
Mi
tiro su quasi a scatti, intorno a me tutto gira, allora sto ferma per
un
momento, finchè la visuale non ritorna nitida, e mi ritiro
su.
Non
appena mi ritrovo completamente in piedi, provo a studiare
l’ambiente introno a
me, a ricordare ciò che è successo prima che mi
risvegliassi.
Oh.
Già.
La
consapevolezza arriva come un macigno sullo stomaco, mentre cerco di
resistere
all’impulso di mettermi le mani sul viso; fa già
troppo male da solo, se lo
toccassi mi renderei conto ancora di più dello stato pietoso
in cui si trova.
Allora
mi guardo intorno: non muovo la testa, assolutamente no, sposto gli
occhi, e
tutto quello che riesco a vedere di fronte a me è un
corridoio malmesso e
abbandonato. Non c’è molta luce, e non riesco a
capire da dove filtri la poca
che c’è.
L’unica
cosa che posso fare è camminare. Muovermi. Andare avanti.
Solo per non
ritrovare quella cosa che mi ha
quasi
ammazzata.
Faccio
un passo. Poi un altro. La testa mi fa così male che i suoni
sono attutiti, e i
miei passi non li sento neppure.
Mentre
tento di camminare vorrei mettermi a piangere. Per quello che mi
è successo,
per il fatto che è tutto così assurdo che ancora
non riesco a crederci, per la
paura che tutto quello che percepisco, che sento, sia solo nella mia
testa, e quello sì che sarebbe
brutto.
Ma
le ragazze forti non piangono, mi ripeto come un mantra, le ragazze
forti si
rialzano anche quando non ci riescono e continuano a camminare, trovano
la via
d’uscita.
E
io la mia via d’uscita da lì l’avrei
trovata.
Ihihihihih
Una
risata in sottofondo. No, non è lui. Vi prego, no. Continuo
a camminare, faccio
finta di non sentire, ma la risata continua imperterrita.
“Laauureeeennnnn ….”
Cerco
di camminare più veloce. Tu sei
una
ragazza forte, sei una ragazza forte, sei una ragazza forte.
Corro,
ora. Almeno, ci provo. Incespico. Mi rialzo. Dietro di me la voce
crudele
continua a chiamarmi, mi promette sadici giochi e una fine peggiore
della sola
morte.
Continuo
a scappare.
Continuo
a percorrere il corridoio come se non ci fosse un domani.
Beh, per la
verità
non c’è.
Ma
io vado avanti, avanti. Finchè non sbatto contro qualcosa.
Non l’ho visto: una
parete fatta di specchio non mi permette di andare avanti.
Ecco
perché il
corridoio sembrava così lungo.
Allora,
rassegnata, mi fermo.
Non
posso fare altro che girarmi.
Girarmi
e affrontare il mio incubo (perché
non lo
vedo sullo specchio?). E decido di affrontarlo.