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Autore: Triz    15/09/2015    3 recensioni
Douglas fa visita al suo fidanzato Albert dopo un periodo buio durato due anni e l'unica cosa che può dargli è il suo sorriso.
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Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È stato solo un sorriso, ed è costato poco darlo ma, come la luce del mattino, ha dissipato il buio e ha reso la giornata degna di essere vissuta.
(Francis Scott Fitzgerald)

Douglas Ward era fermo sul pianerottolo da mezz'ora.
Non gli costava nulla lo sforzo di allungare la mano e bussare alla porta, ma ogni volta che si decideva una parte di sé tirava fuori una scusa stupida per esitare ancora: si diceva, per esempio, che Albert poteva non essere in casa, o che forse stava dormendo o che magari la notizia della sua uscita di prigione non era ancora vera.
"Forse dovrei piantarla con queste stronzate" pensò Douglas e risoluto bussò tre volte alla porta: nell'attesa iniziò a giocherellare distratto con un bottone della giacca, mentre fissava indifferente la targa con scritto "Morgan, A." sulla cassetta delle lettere.
Non aveva avuto più sue notizie dal giorno del processo e, abbassando gli occhi sulle scarpe, Douglas non riusciva a non sentirsi in colpa per quello che era successo ad Albert: era troppo tardi per rimediare, di questo Douglas ne era consapevole, e probabilmente Albert lo avrebbe implorato di andarsene e di non farsi più vedere per il suo bene, ma dopo due anni di lontananza Douglas assolutamente bisogno di ricostruire ciò che c'era stato con Albert.
Se solo lui si fosse deciso ad aprire la porta, naturalmente.
Douglas alzò gli occhi e fece per bussare ancora, ma ci ripensò: magari Albert non era davvero in casa, rifletté, e fece per voltarsi quando finalmente la porta si aprì in uno spiraglio largo quanto la catena che la bloccava, mostrando una parte del viso di Albert.
«Ah, sei tu, Doug» mormorò piano.
«Ciao, posso entrare?» chiese Douglas con un sorriso, ma Albert non ricambiò e la cosa non gli piacque affatto.
Dacché lui ricordava, infatti, Albert aveva sempre ricambiato il suo sorriso, nelle rare volte in cui non era lui a farlo per primo: durante gli anni della guerra, quando lui e Albert credevano di poter essere solo amici, i sorrisi più larghi di Albert bastavano a Douglas per rischiarare le sue giornate, soprattutto durante i bombardamenti più violenti. Una volta finita la guerra, quando avevano chiarito ciò che erano e ciò che volevano diventare l'uno per l'altro, Douglas ammise che gli piaceva quando sorrideva e, da quel momento, Albert aveva avuto la premura di farlo più spesso. Con un sospiro, Douglas desiderò che potesse essere ancora così, ma il fatto che Albert avesse indietreggiato alla sua vista non gli lasciò molte speranze.
«Per favore, Ward, vai via» disse Albert cercando di chiudere la porta, ma Douglas lo fermò.
«Che fai, cominci a chiamarmi per cognome?» gli disse, intenzionato a non demordere: «Senti, volevo passare a trovarti e a stare un po' con te, cosa c'è di così sbagliato?».
Albert smise di fare pressione sulla porta e una parte del suo viso tornò a farsi vedere nello spiraglio: «Ti prego» insistette Douglas e udì Albert sospirare.
«D'accordo, entra» cedette lui e tolse la catena alla porta.
Anche se non era per niente cambiata dall'ultima volta in cui ci aveva messo piede, a Douglas sembrò che la casa rispecchiasse in ogni particolare ciò che Albert era diventato in questi due anni: il giornale aperto sul tavolo, la valigia con le sue cose non ancora messe a posto, persino le tende serrate delle finestre gli davano una sensazione opprimente. Ora che si trovava più vicino a lui e che lo vedeva con la giacca marrone sopra la vestaglia, Albert sembrava più vecchio e sciupato di come Douglas lo ricordava.
«Ti va un tè?» chiese sistemandosi gli occhiali sul naso e Douglas annuì: «Non ho più i biscotti» aggiunse a voce alta dalla cucina, dove si era rintanato per non restare solo con lui.
«Andrà bene lo stesso, grazie» rispose Douglas e diede un'occhiata al giornale, aperto sulla pagina delle offerte di lavoro. Albert non era uno stupido - e meno male, avrebbe aggiunto Douglas - e aveva già capito che Maverick non lo avrebbe riassunto, non dopo aver passato due anni in prigione per omosessualità.
«Senti, Doug, so che Albert è un tuo amico, ma io non voglio perdere dei clienti per un maledetto finocchio!» gli aveva detto Maverick il giorno in cui ne discussero e, anche se riconosceva che in un certo senso il suo capo aveva ragione, Douglas non seppe mai quale entità divina gli impedì in quel momento di rompergli il naso con un pugno.
«Ecco il tè» dice Albert atono mentre gli porse una delle tazze e Douglas lo ringraziò. Cercò di pensare a qualcosa di più allegro di cui parlare, ma come sempre in occasioni simili fu Albert a prendere la parola: «Come è andato il tuo matrimonio con... Come si chiama? Mildred?» disse con nonchalance riferendosi a Mildred Crisby, la figlia di un'amica della madre di Douglas.
«Hai visto...».
«L'annuncio del tuo fidanzamento? Sì, uno dei secondini ha lasciato incustodito il giornale e gli ho dato un'occhiata» disse bevendo altro tè.
«Non c'è stato più nessun matrimonio» rispose Douglas alzando le spalle.
«Mi dispiace» disse Albert e il suo tono era diventato più dolce rispetto a prima.
Probabilmente, pensò Douglas rigirandosi la tazza tra le dita, aveva rovinato un tentativo di Albert di fare qualche commento sprezzante a proposito di lui e Mildred: anche se avesse saputo che era stata sua madre a insistere perché si sposasse, Douglas non era sicuro che non si sarebbe meritato quel commento.
«Non hai nulla di che dispiacerti» disse Douglas.
«E invece sì, mi dispiace per tua madre» mormorò Albert: «Immagino che ci sia rimasta male».
«Sì, parecchio» ammise e, ricordando una cosa buffa, cominciò a ridacchiare: «Ricordi quel periodo in cui credeva che avessi una fidanzata segreta?».
«E che mi costrinse a indagare per suo conto?» aggiunse Albert con un lieve sorriso e, con un falsetto, imitò la voce della signora Ward, facendo ridere Douglas ancora di più: «"Albert, devi ammettere che qualcosa puzza: non risponde al telefono, evita le domande, ha la testa altrove... Io voglio solo sapere chi è, capisci?"».
«E quando mi ha chiamato a casa e ho dovuto rispondere con te che mi baciavi sul collo?» disse Douglas e sospirò divertito e nostalgico al ricordo delle mani di Albert che gli accarezzavano il torace, mentre le sue labbra gli sfioravano la guancia, il collo e le spalle. Guardò le mani di Albert, che avevano posato la tazza vuota sul tavolo e che si intrecciavano sulle ginocchia, mentre dalla sua bocca spariva ogni traccia del sorriso che quei ricordi divertenti avevano causato: avrebbe dato qualsiasi cosa perché tutto tornasse come prima o che, meglio ancora, le cose cambiassero del tutto, in modo che nessun vicino dovesse chiamare la polizia perché era contro la legge che due uomini si baciassero sul pianerottolo della porta accanto.
«Doug, non ci provare».
«A fare cosa?».
«Lo sai benissimo».
Douglas finì di bere il suo tè in silenzio, mentre Albert si aggiustava gli occhiali sul naso: ripensò al processo, alle insistenze del pubblico ministero perché Albert dicesse il nome dell'uomo con cui era stato visto le sere prima dell'arresto e che avevano convinto i vicini ad avvertire la polizia. Doveva solo dire un nome - quello di Douglas - e il giudice lo avrebbe costretto a "curare il suo male" piuttosto che spedirlo in prigione: Douglas ricordò ancora la calma surreale con cui disse al pubblico ministero che non voleva coinvolgere nessun altro nella sua storia, ricordò la faccia disgustata di quell'uomo di fronte alle sue reticenze e di come, con un tono duro di voce, lo accusasse di voler sbandierare la sua "condotta immorale e oscena" ai quattro venti.
E tutto questo per un bacio rubato - anche più di uno, a essere sinceri - sul pianerottolo di questa stessa casa.
«Avresti potuto farlo» disse allora Douglas: «Il mio nome al processo, intendo».
«Non sarebbe cambiato niente, Doug» ribatté Albert.
«Lo pensi davvero?».
«Sì, e poi io non...» esordì, ma si interruppe mordicchiandosi le labbra, come se stesse cercando di rimangiarsi la frase che aveva cominciato.
«Non cosa?».
«Niente, pensavo a voce alta» disse Albert seccamente, poi si tolse gli occhiali e si strofinò con due dita le palpebre chiuse: «E comunque, ora non ha più importanza» aggiunse, inforcando gli occhiali.
«Lo immagino» commentò Douglas, convinto dentro di sé che fosse l'esatto opposto: «Non parliamone più, Albert».
«Potresti andare via, Douglas?» chiese Albert improvvisamente: «Non che non voglia che tu rimanga...».
«Lo so, ho capito» mormorò Douglas alzandosi dalla poltrona e lasciando sul tavolo la tazza vuota ed esito ancora un po' a osservarlo mentre Albert preme un pugno davanti alla bocca: «Ehi, Al, per qualsiasi cosa...».
«Sì?».
«Beh, hai ancora il mio numero di telefono, no?».
«L'ho segnato da qualche parte, ancora».
«Chiamami quando vuoi e io correrò qui, okay?» gli disse Douglas appoggiando una mano sulla sua spalla.
Voleva che Albert capisse che lui diceva sul serio, che aveva sbagliato cercando di fingere ciò che non era con Mildred solo per accontentare sua madre e che era pronto a rimediare e a ricostruire ciò che quel processo aveva provato a distruggere - a Douglas non importava se non sarebbe stato tutto e subito, voleva che capisse che per lui, per loro due, avrebbe messo a disposizione tutto il tempo che gli sarebbe rimasto, se necessario: Albert avrebbe letto tutto questo, guardando gli occhi scuri di Douglas per un istante, e avrebbe capito che il sorriso che aveva sul viso era tutto per lui.
Ma Albert evitò il suo sguardo e, con un sospiro rassegnato, Douglas se ne andò da casa sua.

 
* * *

Douglas rifece il nodo alla cravatta imprecando.
Sapeva annodarsi la cravatta da quando suo padre glielo aveva insegnato a dodici anni, ma non riusciva a fare un nodo decente se la sua testa era occupata da altri pensieri.
E la sua testa era decisamente altrove, in quel momento: quella mattina lo aspettavano una relazione da finire in ufficio, un nuovo tentativo di chiamare Albert verso l'ora di pranzo dopo una settimana che ignorava le sue chiamate e le sue visite e, nel pomeriggio, doveva esporre la relazione della mattina davanti a Maverick e ad altri tre dirigenti di altre ditte.
Il solo pensiero di affrontare quella giornata gli faceva venir voglia di fumare l'intero pacchetto di sigarette che aveva comprato il giorno prima.
Si tolse la cravatta e fece per appallottolarla e tirarla fuori dalla finestra, quando il telefono di casa appeso vicino all'ingresso squillò.
«Pronto?» disse Douglas in modo brusco alla cornetta, ma nessuno rispose: dall'altra parte del telefono, sentì qualcuno trattenere il fiato.
«Pronto?» ripeté, ma ottenne di nuovo il silenzio. Fece per riattaccare e mandare al diavolo i buontemponi che facevano perdere tempo alla gente, ma la voce di Albert lo fermò: «Doug, sono io» mormorò.
«Al?».
«Ho scelto un brutto momento?».
«Assolutamente no, cosa è successo?».
Albert esitò e Douglas riuscì anche a immaginarlo mentre tormentava il filo del telefono, pizzicandolo come la corda di una chitarra: Albert aveva questa specie di tic ogni volta che al telefono parlava con qualcuno che non sentiva da tempo e pensava di disturbare.
«Albert, sei ancora lì?».
«Io non avrei mai permesso che ti trattassero come hanno trattato me al processo» riuscì a dire dopo un'eternità.
«Aspetta, Albert, di cosa parli?».
«Quel pomeriggio, la settimana scorsa, quando sei venuto a trovarmi» rispose: «Era questo che volevo dire, quando mi hai detto che avrei potuto fare il tuo nome».
«E perché non lo hai detto?».
«A essere sincero, non me lo ricordo più» disse: «Sono ancora sbadato, come puoi notare».
Douglas sorrise e lo sentì ridere piano, come se temesse che qualcun altro potesse udirlo: tante volte, prima del processo e della prigione, si era lamentato con Albert perché la sua proverbiale distrazione gli faceva dimenticare cene sul fuoco o le chiavi in casa. Il ricordo di quei rimproveri e la risata leggera di Albert che risuonava nella cornetta del telefono gli riscaldarono il cuore.
«Volevo anche ringraziarti per essere passato» mi dice: «Ci ho messo un po' per capirlo e per dirtelo, ma avevo bisogno del tuo sorriso».
«Albert...».
«Mi hai migliorato la giornata con quel sorriso» mi interrompe: «Grazie per esserci stato».
Douglas era senza parole per quella chiamata forse inattesa: le parole dell'altro lo hanno sorpreso al punto che si accorse appena in tempo che Albert lo stava salutando. Gli strappò la promessa che lo avrebbe richiamato all'ora di pranzo e, anche dopo che Albert aveva riattaccato, Douglas rimase per un po' con la cornetta in mano e, quando si decise a riappenderla, mancava una manciata di minuti alle nove, l'ora in cui avrebbe dovuto essere in ufficio a terminare la relazione.
Corse nella stanza da letto e riuscì finalmente a farsi un presentabile nodo alla cravatta, stupendosi ancora del fatto che il mondo continuasse a girare con i suoi problemi anche dopo la telefonata di Albert. Si abbottonò la giacca e si diede un'ultima occhiata allo specchio, accorgendosi allora degli occhi lucidi che asciugò lentamente con il dorso della mano, mentre con un sorriso rivolto a se stesso cercava di convincere il suo riflesso che, da quel momento in poi, le cose non avrebbero potuto che andare bene.
E quella sera, Douglas donò ad Albert lo stesso sorriso e le stesse lacrime.











Note dell'Autrice
Allora, da dove vuoi che inizio?
Partiamo dal contesto: la storia è ambientata negli anni Cinquanta in Inghilterra, quando ancora era in vigore la legge contro gli omosessuali. Dal momento che ho letto da qualche parte che ci sono stati migliaia di uomini, oltre ad Alan Turing e a Oscar Wilde, arrestati e finiti in prigione per omosessualità, ho pensato di scrivere la storia di uno di loro, in relazione al rapporto con il suo fidanzato, e facendo contrastare il tutto con il tema del sorriso, che ha fatto da sfondo alla one shot.
I prestavolti della storia sono David Tennant (Albert) e Andrew Scott (Douglas).
Concludo le note ringraziando aturiel per aver organizzato il contest a cui la storia partecipa.
Alla prossima,
Triz
  
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