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Autore: HannibalLecter    15/09/2015    3 recensioni
Liam Carter Wright è un giovane avvocato esperto in divorzi e furiosi litigi, tipico topo di città la cui unica idea di contatto con la natura comprende un dissetante cocktail servito in una noce di cocco, calda sabbia bianca e donne dalla pelle dorata dal sole.
Felicity Van Houten, testa tra le nuvole e lentiggini, invece lavora quotidianamente immersa nel verde e ogni sera si rifugia nella sua casetta di campagna alquanto malandata, circondata da un vero e proprio paradiso fiorito, che la tiene impegnata a tal punto da farle scordare di fare la spesa o pagare le bollette.
Il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata. Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse
le viole sono blu
Liam Carter Wright è una testa di cactus
e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.
«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Felicity

 

«...Io lo avevo detto che le begonie color magenta avrebbero rovinato l'equilibrio dell'insieme»

«Tu lo avevi detto? Ma per favore! Sei stata tu, Theresa, ad insistere tanto per quei fiori orribili. Io volevo piantare dei tulipani sulle tinte dell'arancio...»

«Sì, certo, e cosa c'entra l'arancione con tutto il resto? Dovevamo fare un'aiuola più grande e invece tu, Richard, hai fatto cementare mezzo giardino, giardino per cui, giusto come promemoria, abbiamo dovuto sborsare ventimila dollari in più!»

«Almeno sappiamo dove parcheggiare le auto! Se ascoltavo te ora avrei un'inutile serra piena di frutti di bosco e la macchina posteggiata a sei isolati da qui. E poi erano 19.800 dollari in più, non ventimila. Se proprio vuoi fare recriminazioni sii almeno precisa, cara»

«Richard perché non te ne vai a fare un giro nella zona barbecue, che hai tanto voluto, e che userai solo il 4 di luglio per fare due bistecche carbonizzate?»

Finiva sempre così. Finiva sempre con io che infilavo la testa in qualche arbusto, fingendomi interessata al tipo di terriccio utilizzato, per tentare di eclissarmi e non essere coinvolta nei furiosi litigi che avevano sempre luogo al momento conclusivo del mio lavoro. Era una scusa bella e buona per tentare di restare una spettatrice della faida che stava avendo luogo davanti a me, era una scusa perché io sapevo tutto sulla tipologia di terriccio utilizzata dal momento che era stata accuratamente selezionata dalla sottoscritta.

Le persone si incontrano, si innamorano, per un certo periodo pensano solo a fare i piccioncini, dopodiché decidono di evolversi, esattamente come farebbe un Pokemon.

Perché non andare a convivere? Perché non conoscere le rispettive ed assolutamente adorabili future suocere? Perché non fare un salto in oreficeria a comprare un anello, meraviglioso gioiello capace di far perdere la tramontana alle ragazze e farle strillare un convintissimo SÌ! alla fatidica domanda, posta dal fidanzato, magari inginocchiato a terra e con Tour Eiffel sullo sfondo?

Matrimonio. Luna di miele. Casa nuova.

Preferibilmente casa con giardino.

Eh sì, perché l'errore di tutte queste coppie avveniva quasi sempre a questo punto.

Ovvio, a volte avveniva anche prima, specialmente se decidevi di accasarti con un omuncolo dalla personalità completamente soggiogata dalla madre, impicciona con i fiocchi, naso sempre infilato nei cassetti di casa tua e consigli inopportuni e non richiesti sempre a portata di mano.

Le lenzuola a 60 gradi? Macché siamo matti?! Non vorrai che i meravigliosi ricami della Prozia Josephine vengano rovinati? Meravigliosi ricami che ti hanno procurato un altrettanto meraviglioso eritema cutaneo grazie al loro effetto grattugia e che, anche dopo quindici lavaggi alla massima potenza, sanno ancora di naftalina e disinfettante d'ospedale.

Oppure con un personaggio che faceva visita all'estetista più spesso di te, avesse sul corpo la metà dei peli che avevi tu e spendeva in cosmetici il quintuplo di ciò che spendevi tu.

Cara, cosa sono queste doppie punte? Se vuoi posso consigliarti una nuova maschera per capelli, naturale al cento per cento, un composto di alghe, grasso di balena, bava di lumaca e pipì di pipistrello, veramente portentoso!

Se l'errore non riguardava la scelta del compagno allora riguardava senza dubbio la scelta di acquistare una casa circondata da uno spazio verde.

Quasi tutti vedevano il possedere un giardino come un qualcosa che avrebbe reso più gioiosa e verde la vita.

E normalmente sarebbe stato così se non fosse stato per i giardinieri, tutti ladri o scansafatiche. Vogliamo parlare di tutte le foglie perse dalla magnolia? E chi le raccoglieva le foglie? E le siepi da potare? E il prato da livellare? E i fiori da innaffiare?

Un giardino non era un optional che, pagando profumatamente, ricevevi assieme alla nuova casa.

Uno spazio verde era come un cucciolo da crescere, allevare e a cui voler bene.

Bisognava curarlo, dedicargli tempo ed amarlo.

La natura è estremamente munifica, ci fa doni preziosi e in cambio chiede pochissimo.

Prendete ad esempio quelle piante grasse che mia nonna chiamava belle di notte; paiono semplici cactus, le innaffi una volta ogni tanto, le sposti in un luogo luminoso e loro ti regalano una meravigliosa fioritura, tanto bella quanto caduca, dato che nel giro di un giorno o poco più essa appassisce.

«Non capisci, è un investimento per il futuro, per quando faremo delle grigliate ai compleanni dei bambini...»

«Oh Richard, hai ragione. I nostri bambini adoreranno giocare a basket nella zona con il porfido, come sei previdente»

Ecco, era bastato ventilare l'opzione di futuri pargoletti e la moglie era già in brodo di giuggiole.

Un lampo di invidia interruppe il corso dei miei pensieri ma mi affrettai a scacciarla via.

Mi rimisi in piedi e sfilai i guanti da giardinaggio, scrollando la terra rimasta adesa ad essi.

Vedevo in continuazione coppie che mi chiedevano di aiutarli a costruire una meravigliosa cornice fiorita e lussureggiante al loro nido d'amore. Ormai avrei dovuto farci l'abitudine, così come ormai ero familiare con i litigi futili per la posizione che avrebbe dovuto occupare un ulivo o il colore della ghiaia del vialetto d'ingresso.

Avrei dovuto, già, ma era inutile negare che vedere il proprio sogno realizzarsi nella vita di tanti sconosciuti e mai nella propria era frustrante a volte.

Sono un’inguaribile romantica e devo confessare che da piccola la mia attività preferita consisteva nel celebrare il matrimonio del mio unico Ken con le mie molteplici Barbie. E tutto ciò generava continue liti intervallate da energiche tirate di capelli e morsi con Zoe, mia sorella maggiore, il cui hobby prediletto consisteva invece nel decapitare le Barbie e cercare di sventrare Ken per vedere come fosse fatto il suo intestino.

Zoe aveva un futuro come chirurgo, o come macellaio, in effetti sarebbe stata anche una degna erede di Jack lo Squartatore, e invece era finita a scrivere articoli per una rivista punk letta da un totale di duecento persone e a pubblicare raccolte di racconti dalle tinte macabre sotto pseudonimo.

Il sole stava per tramontare e io non vedevo l'ora di caricare tutti i miei attrezzi e i miei vasi sul retro del furgone e partire alla volta della mia piccola oasi di pace.

Richard e Theresa avevano smesso di bisticciare e rinfacciarsi l'un l'altro questioni vecchie quanto la terra e ora sorridevano felici, mani allacciate, e ammiravano il loro nuovo giardino.

Avevo fatto un buon lavoro, ne ero più che certa.

Ok, ok, probabilmente io non avrei insistito tanto per avere cinque betulle posizionate a stella al centro del prato né per i graticci ricoperti di gelsomino che contornavano ogni spazio libero e saturavano l'aria con il loro profumo intenso, che se troppo prepotente risultava nauseante, ma, considerate le iniziali richieste del tutto strampalate e al limite del pacchiano, ero riuscita ad accontentare loro e a far si che il giardino fosse grazioso ed elegante.

«Felicity, non potremo mai ringraziarti abbastanza per ciò che hai fatto», chiocciò Theresa prendendomi le mani e sorridendomi commossa.

Il marito la raggiunse e le posò un braccio sulle spalle, «Mia moglie ha ragione, sei stata splendida e hai fatto un lavoro ammirevole»

Dopo altri sorrisi, complimenti e strette di mano ci congedammo, entrambi soddisfatti e contenti.

Certo, pensai arrampicandomi sul predellino del furgone, loro ora avevano un meraviglioso paradiso fiorito da godersi con la persona amata mentre a me toccava tornarmene a casa, stanca e sporca di terra fin nelle scarpe, dove mi attendeva George, il mio pesciolino rosso, e nessun'altro.

Parcheggiai sul retro della mia villetta e, nonostante la spossatezza, decisi di scaricare subito il furgone e di riporre tutta la mia attrezzatura da lavoro nella casetta di legno che la ospitava di solito.

Avrei potuto rimandare ma uno sguardo al cielo, plumbeo e minaccioso, mi fece cambiare idea.

Almeno per quella sera non sarei dovuta uscire ad innaffiare l'orto o far partire l'impianto di irrigazione.

Posizionai i secchi per la raccolta dell'acqua piovana nel giardino sul retro e, dopo aver chiuso il chiavistello della casetta degli attrezzi e aver infilato il naso nella piccola serra per una veloce ispezione, mi incamminai verso la casa buia.

Mi sfilai gli scarponcini da lavoro infangati e li lasciai sotto al portico, a lato della porta finestra della cucina.

In casa regnava la penombra e il silenzio più assoluto. Non sopportavo la luce artificiale, fredda e bianca, adoravo quella casa proprio perché dotata di molte più finestre rispetto alle altre e amavo la conseguente luminosità che accompagnava le mie giornate da mattina a sera.

Abbandonai la borsa di tela color verde militare che usavo sempre al lavoro sul divano e, senza neanche fermarmi a recuperare le ciabatte, mi affrettai verso il piano di sopra.

«Ahi!», come mi capitava nel 99% dei casi, quando volevo aggirarmi per casa senza accendere le luci sperando di vederci qualcosa, avevo picchiato il mignolino del piede contro uno spigolo. Era incredibile quanto facesse male. Aggrappandomi al corrimano, per non dover appoggiare il piede malandato a terra e non ruzzolare a terra vista la mia scarsa agilità, riuscii a raggiungere,  zoppicando e maledicendo quello stupido spigolo malefico, il bagno.

Gettai i jeans macchiati di verde e la leggera maglia in felpa color giallo chiaro nella cesta delle cose da lavare, seguiti dal paio di calzini a giraffe che indossavo quel giorno e la canottiera rosa, stinta dai troppi lavaggi aggressivi.

Pigiai il tasto di accensione della radio e, canticchiando le parole sbagliate di una hit del momento, zampettai in camera da letto, dove pescai il mio portatile e lo accesi.

Mentre aspettavo che si caricasse, attività che avrebbe richiesto un minimo di dieci minuti, considerata la zona piuttosto fuori mano in cui abitavo e la mia adsl decrepita, feci ritorno in bagno dove trovai due occhioni tondi fissi su di me ad attendermi.

«George, perdonami!», esclamai acciuffando la sua boccia e dirigendomi giù per le scale. «So che ti piace trascorrere il tempo in salotto sul davanzale quando non ci sono ma stamattina mi sono proprio scordata di te»

In tutta risposta il mio pesciolino emise delle bolle.

«Su, non fare l'offeso. Sai che di mattina presto sono più sbadata del solito. Per farmi perdonare guarda un po' cosa ti darò: una dose doppia di mangime! Yuppiii!»

Dopo aver scambiato altre due parole con George, feci ritorno al piano superiore e accesi la doccia.

Non solo l'adsl era lenta in quella casa ma anche la caldaia. Mentre l'acqua gelida scendeva nel box doccia tornai in camera dove, dopo aver immesso la password, mi collegai alla mia casella di posta elettronica.

Non possedevo un cellulare, perciò tutti i miei contatti si limitavano al telefono di casa e al mio indirizzo email.

Newsletter del teatro cittadino, spam di un sito olandese di bulbi, due righe di ringraziamento da parte del mio penultimo cliente e un messaggio di Theodore.

 

Felicity,

Questo fine settimana non ho lezione e il seminario del sabato è sospeso a causa della pausa per le vacanze di primavera perciò sarò alla stazione venerdì sera. Probabilmente sarò sul treno delle 21.17 perciò posso prendere un taxi per venire da te, non vedo la necessità di disturbarti inutilmente.

Sto leggendo un saggio molto interessante sull' Ulmus campestris e ci sono dei passaggi molto interessanti che vorrei sottoporre alla tua attenzione.

Gli studenti sono sempre più irrequieti, illusi da queste giornate di pallido sole, sentono già l'odore dell'estate e iniziano a fare progetti sulle ferie, dimenticandosi che tra il mare e la libertà estiva ci sono io: io e l'importante esame che devono sostenere.

Ai miei tempi l'università era presa molto più sul serio; era un'opportunità preziosa che ci veniva offerta e non un obbligo a cui venivamo forzati. Ovviamente parlo per me, la tua triste vicenda universitaria mi è nota, perdonami.

A presto cara,

Professor T. H. Graham

 

Sospirai delusa chiudendo il mio account Gmail.

Cosa mi aspettavo? Sapevo benissimo che Theodore non era tipo da smancerie e sviolinate, e se non lo sapevo inizialmente sicuramente dopo tre anni di relazione avrei dovuto apprenderlo.

Eppure ogni volta leggevo avida le sue parole in attesa di un 'Mi manchi' scribacchiato alla fine o di un 'Oggi ti ho pensata' gettato quasi  casualmente nel bel mezzo del resoconto della sua ultima lezione.

Misi il pc in standby  ripromettendomi di rispondere alla mail più tardi, e dopo essermi liberata della biancheria mi gettai sotto il getto caldo della doccia. Forse speravo di poter sciacquare via, insieme alla terra e al sudore, anche quel perenne senso di insoddisfazione che mi accompagnava da un anno a questa parte.

Dopo essermi asciugata, mi infilai una vecchia felpa scolorita, un paio di pantaloni del pigiama e uno spesso paio di calzettoni decorati con pomodori e carote.

Intrecciai i capelli umidi e trotterellai al piano inferiore. Veloce tappa al frigorifero, dove recuperai una fetta di torta salata ai carciofi preparata il giorno precedente e un bicchiere di latte, e insieme al mio libro andai ad appollaiarmi sul divano in veranda.

Il cielo era sempre più cupo, rischiarato ad intervalli sempre più brevi da lampi di luce, seguiti da tuoni lontani che non preannunciavano nulla di buono.

Dopo aver cenato, riempii il mio annaffiatoio argentato alla fontanella nell'angolo e diedi da bere alle mie piantine aromatiche e ai vasi fioriti che rendevano la mia veranda una piccola giungla colorata e profumata.

Mi accoccolai nuovamente sul morbido divano e stesi il mio plaid a quadretti sulle gambe. Aprile era alle porte ma la temperatura era ancora freddina la sera.

Mi immersi nella lettura, beata nel mio piccolo mondo verde e mi scordai di rispondere a Theodore.

 

***

 

Liam

 

«Quella statuetta cinese è un dono della mia bisnonna Brunilde per le nostre nozze. Tu odiavi quel clown piangente, lo odiavi. Ripetevi sempre che ti fissava e avevi insistito perché non lo mettessi sul cassettone in camera nostra»

«Io adoravo quella statuetta. Ha trascorso gli ultimi sei anni nella vetrinetta in sala da pranzo solo perché io l'ho salvata da te e dalla tua intenzione di donarlo ad una pesca di beneficenza. Io lo spolveravo con cura tutte le settimane mentre tu hai rischiato di romperlo ben più di una volta»

«Ma non dire caz- ... Taci, Rupert, non farmi diventare scurrile. Non sai neanche dove si trovava il ripostiglio delle scope, figurarsi se spolveravi davvero quel clown schifoso!»

«Lo hai detto! Bene, è mio. Avvocato, segni cortesemente»

«Sai che affare! Non ho mai visto un soprammobile così brutto ed inquietante in tutta la mia vita»

«Lo so, infatti finirà immediatamente nell'immondizia. Ma almeno sarò io ad avere il piacere di farlo e non tu. Ho sempre detestato la tua bisnonna Brunilde, vecchiaccia rancorosa»

«Non parlare così dei miei parenti!»

«Ora sei tu, Janet cara, che devi smettere di dire cazzate. Hai passato tre quarti della nostra luna di miele a inveire contro i regali di nozze e gli abiti indossati al ricevimento dal tuo parentado, dando della puttana stagionata a tua zia Tori e augurando la morte a tuo cugino Dean»

Finiva sempre così. Finiva sempre con io che infilavo la testa in qualche cartelletta piena di documenti, fingendomi interessato a scartoffie su quante ore di tv potesse vedere il bambino, figlio di una coppia neodivorziata, e quanti litri di acqua al giorno dovesse bere, per tentare di eclissarmi e non essere coinvolto nei furiosi litigi che avevano sempre luogo in ogni momento del mio lavoro. Era tutta una scusa, ovviamente sapevo benissimo che il piccolo Finn Jones avrebbe dovuto assumere 1,75 litri di acqua giornalmente e non guardare la televisione per più di 103 minuti, lo sapevo benissimo dato che quel documento lo avevo redatto io.

Le persone si incontrano, si innamorano, per un certo periodo pensano solo a fare i piccioncini, dopodiché impazziscono e cadono nella trappola mortale di LSS. Anche detta La Scelta Suicida: il matrimonio.

Chicchi di riso, torta a sette piani, viaggio alle Bahamas, casa nuova, comunione dei beni, station wagon, primo pargolo, cagnolino, casa nuova con giardino, secondo pargolo.

E dopo?

E dopo entravo in gioco io.

Sì, perché il 35% di tutte queste belle favole finiva con il divorzio.

Divorzio vuole dire tante cose.

Ad esempio parcella super generosa agli avvocati divorzisti, vedere lo stipendio mensile del sottoscritto come conferma.

O discussioni furiose e cariche di risentimento per decidere a chi spetti tenere la macchina per il pane, appena riesumata dalla cantina dopo anni di oblio, o la maschera da sub ritrovata dagli uomini dei traslochi dietro alla scaffalatura della taverna.

O anni e anni di insulti repressi e verità nascoste urlati con cattiveria di fronte a cento persone sconosciute in un'aula di tribunale. Perché non avremmo potuto continuare a vivere tranquillamente se non fossimo stati messi a conoscenza del fatto che Jim si era fatto la madre di sua moglie Sally, la quale non riuscendo a restare incinta del sopracitato Jim, era ricorsa ad un donatore anonimo e quando poi il figlio era nato con gli occhi a mandorla aveva incolpato il coreano del negozio di alimenti sotto casa di averla sedotta ed abbandonata. Jim allora aveva fatto una bella scazzottata con il povero coreano innocente, rivelatosi però un vero Jackie Chan, ed era finito al pronto soccorso con tre costole rotte, un femore sbriciolato e la milza spappolata. Si era poi scoperto che aveva un cancro al colon e la madre di Sally nel scoprire ciò aveva urlato al mondo di aspettare un figlio da Jim e dopodiché era stramazzata al suolo a causa di un infarto.

O poveri bimbetti strapazzati di qua e di là da due genitori assolutamente scellerati che facevano il calcolo dei secondi presenti in una settimana per fare in modo di spartirsi il figlio in modo equo.

Adoravo il mio lavoro, soprattutto perché grazie ad esso potevo concentrarmi sulle disgrazie altrui ignorando, almeno momentaneamente, le mie.

Conducevo la tipica vita da scapolo più che benestante: studio legale, golf, palestra, aperitivi con gli amici, weekend con ragazze bellissime da scaricare la domenica sera e attico in cui mettevo piede giusto per dormire.

Dopo altri cinquanta minuti di battibecchi Janet e Rupert mi strinsero la mano e, ignorandosi a vicenda, lasciarono il mio studio.

Mi massaggiai esausto le tempie cercando un po' di sollievo. Ultimamente avevo perennemente dei mal di testa lancinanti.

L'elegante orologio a pendolo affisso accanto alla finestra segnava le sei e quarantatré e la stanza era ormai in penombra, chiaro segno che il sole era già tramontato.

Sistemai le varie cartellette di documenti sparse sulla scrivania, infilai nella mia ventiquattr'ore le scartoffie relative ai clienti con cui avevo appuntamento il giorno seguente e spensi la lampada in stile art noveau, che faceva bella mostra di sé tra un prezioso tagliacarte in madreperla e un portapenne indonesiano, souvenir del mio ultimo viaggetto antistress.

Recuperai il mio soprabito e uscii socchiudendo la porta. Salutai Diana, la mia segretaria, rimproverandola per il sui ritardo nel raggiungere i suoi due bambini che la attendevano a casa e me ne andai, immergendomi nell'aria frizzante di quella sera.

Il viaggio fino a casa fu estenuante. Odiavo abitare in una grande città quando ciò voleva dire ore bloccati nel traffico delle ore di punta, furiose suonate di clacson e imprecazioni senza sosta rivolte a pedoni e ciclisti incoscienti che decidevano di tentare il suicidio gettandosi davanti alla tua auto senza preavviso.

Il mio iPhone lampeggiava senza sosta dal sedile del passeggero e io dovetti sforzarmi di pensare ai trecento dollari di multa per uso del telefono cellulare alla guida pagati tre settimane prima per frenare il mio istinto di allungare la mano ed afferrare il telefono e controllare chi mi avesse scritto.

Parcheggiai la mia scintillante Audi nel posteggio a me riservato e mi diressi verso l'ascensore, rivolgendo un cenno del capo al custode del parcheggio sotterraneo nel passare davanti al suo ufficio.

Strisciai il mio badge argentato e,  mentre i numeretti scorrevano pigramente sul display al di sopra della lucida pulsantiera, scorsi le email ricevute, cestinandone la metà senza neppure aprirle.

Il mondo era pieno di scocciatori e non avevo nessuna voglia di prestare loro neanche un briciolo della mia attenzione, figurarsi il mio prezioso tempo o la mia impeccabile competenza professionale.

L'ascensore trillò per annunciare che avevamo raggiunto l'ultimo piano e le porte metalliche si aprirono silenziose davanti a me.

Di fronte alla vetrata che si affacciava sulla città illuminata c'era una figura maschile, di spalle rispetto a dove mi trovavo.

«Dovrò decidermi a toglierti il pass d'accesso a casa mia», borbottai gettando con noncuranza la giacca sul divano di pelle nera.

L'uomo non si voltò ma lo udii ridacchiare, «Sono certo che dopo averti comunicato le liete novelle di cui sono ambasciatore desidererai averlo fatto...»

Non mi allarmai più di tanto, Matthew, era un bravo avvocato ma tendeva ad essere leggermente melodrammatico.

Avevamo frequentato insieme la facoltà di legge di Harvard ma,  mentre io avevo preferito le schermaglie tra mogli che avvelenavano la cena del marito e coniugi che tentavano di soffocare le consorti come dei moderni Otello, lui aveva scelto di intraprendere il ramo del notariato. Si occupava di eredità, lasciti ed era testimone di lotte all'ultimo sangue per sancire quale dei trentasette pronipoti ingrati e avidi di un magnate del petrolio avesse diritto alla fetta più cospicua del patrimonio di famiglia.

«Mildred è morta, soffocata accidentalmente dalla sua stessa lingua biforcuta?», mi informai dirigendomi verso la cucina.

Aprii il mio frigorifero spaziale curioso di sapere cosa mi avesse cucinato quel giorno Inés, la mia tuttofare di fiducia.

Invece di trovare un bel piatto guarnito e pronto per il microonde mi imbattei, con mio grande disappunto, nel vuoto cosmico che regnava nel freddo e spoglio interno dell'elettrodomestico.

«Niente cenetta succulenta questa sera, la tua cara Inés ti informa che suo cugino Pedro ha avuto un attacco di cuore e si scusa», Matt confermò il mio triste presagio sventolandomi un biglietto davanti al viso.

Prima o poi la sua domestica avrebbe imparato il suo nome pensò leggendo il Señor Liam Cater Writ scarabocchiato in cima al post-it.

Inés proveniva da una famiglia di origini portoricane decisamente troppo numerosa. Il mese scorso si era assentata per il matrimonio di Carmen, per accompagnare Lenór dalla ginecologa, per i continui attacchi di panico di Javier, per badare al figlio della parrucchiera della vicina di casa di sua sorella e per andare al saggio scolastico della nipotina della sua ex collega.

Ma bastava uno dei suoi manicaretti da stella Michelin a farmi dimenticare il suo rumoroso e fastidioso parentado.

«Com'è messo il tuo stomaco?», domandai al mio amico dirigendomi verso il telefono posato su un lucido tavolinetto tondo al lato della poltrona.

Non avevo mai imparato a cucinare neanche la più semplice delle pietanze e se ero arrivato a trentaquattro anni in salute e senza rischiare la morte per inedia era soltanto grazie ai take away e alle donne della mia famiglia.

I pranzi di undici portate di mia nonna May e i conseguenti mal di pancia dovuti all'abbuffata sono dei ricordi difficili da scordare, così come la tovaglia a quadri rossi e bianchi e il suo grembiule giallo perennemente macchiato di sugo.

Scacciai quei ricordi e afferrai il cordless e la lista dei numeri dei ristoranti che consegnavano a domicilio.

Matthew nel frattempo si era accomodato su uno degli alti sgabelli cromati della penisola della cucina.

«Mildred è di nuovo nella sua fase dieta, ormai mangia solo riso basmati scondito e cavolini di Bruxelles...», mi rispose scuotendo sconsolato il capo.

«Motivo in più per liberarsi di lei una volta per tutte!», esclamai risoluto, scorrendo con lo sguardo i vari nomi dei locali. «Stasera andiamo di thailandese. Obiezioni?»

«Due sere fa ho cenato con due fette di cetriolo e una spremuta di pompelmo; mangerei anche una bistecca di orso polare a questo punto»

Dopo una breve telefonata al ristorante e un rapido avviso alla portineria tornai dal mio amico che stava fissando sconsolato il suo riflesso sulla superficie a specchio del bancone.

«Insomma qual è il problema?»

Aprii nuovamente il frigorifero e pescai un paio di bottiglie della pregiata birra prodotta alla vecchia maniera in un monastero che mi facevo recapitare direttamente dalla Germania.

«I miei problemi confrontati ai tuoi non sono nulla...»

Sbuffando mi accomodai di fronte a lui allungandogli una delle due bibite. «Hai finito di profetizzare sventure? Dimmi cosa è successo»

Non amavo i giri di parole e non credevo nel basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Le cose andavano dette, per quanto crudeli e dolorose potessero essere.

«È stato ritrovato il testamento di tuo nonno Tobias...»

Rimasi per un attimo disorientato. Tobias era il padre di mia madre ed era morto ben dieci anni prima. Era già vedovo al momento della sua scomparsa e tutti pensavano che la sua grande tenuta in campagna e i suoi risparmi sarebbero passati ai tre figli ma poco dopo si era scoperto che il vecchio aveva accumulato una vera e propria fortuna e un nuovo figlio si era fatto vivo avanzando la pretesa di ottenere una parte del lascito.

In assenza di testamento era stato tutto diviso tra mia mamma e i suoi due fratelli e la casa di campagna era stata chiusa, i mobili coperti da lenzuoli lisi e le finestre sbarrate.

Gli feci cenno di continuare non sapendo bene cosa dire al riguardo. Non riuscivo a capire come la cosa dovesse riguardare me nello specifico.

«Ti ha lasciato la casa», Matthew spinse verso di me un fascicolo di fogli e mi indicò un paragrafo e subito dopo il mio nome, Liam Carter Wright, per confutare i miei dubbi.

Fissai la lancetta dell'orologio a parete affisso di fronte a me e mentre i secondi passavano ticchettando cercai di ricordarmi l'ultima volta che avevo visto mio nonno. Andavamo a trovarlo di rado, mio padre non era mai andato troppo a genio al suocero e vecchi rancori impedivano ai due di sostenere una conversazione civile.

Probabilmente era il mese di Aprile dato che ricordo chiaramente che morì nel bel mezzo della primavera, la sua stagione preferita. Se chiudessi gli occhi potrei ancora vederlo, la sua figura leggermente ingobbita ma pur sempre imponente stagliata contro la porta d'ingresso, il suo tono sempre burbero e le sue mani dure, da persona che ha passato una vita a lavorare la terra che mi lasciavano dei buffetti sulle guance, nonostante i miei vent'anni.

«Non può averlo fatto, ero il nipote che vedeva di meno e poco prima della sua morte aveva avuto un litigio più violento del solito con mia madre...»

«E invece, leggi qui, nero su bianco. Sei l'unico proprietario. Casa e terra. È tutto tuo», Matt levò dalla tasca della sua elegante giacca beige un paio di chiavi e me le porse sorridendo incoraggiante, «Chi lo sa, magari fare l'agricoltore potrà rivelarsi una scelta più felice di giurisprudenza...»

«Io amo il mio lavoro», precisai.

Il mio amico fece un gesto noncurante con la mano e sbuffò, «Non lo metto in dubbio ma non penso che la vita che conduci da quando non sei più s-»

Lo interruppi senza curarmi di apparire maleducato, «Lo so cosa pensi Matthew. Ma, onestamente,  la cosa non turba il mio sonno o influisce sulla mia vita, che gestisco come mi pare e piace essendo adulto e vaccinato», lo misi a tacere con poco garbo.

Sapevo di essere stato ingiusto con lui, eravamo amici da quindici anni e non si meritava la mia scortesia ma purtroppo non sopportavo quando le persone iniziavano a darmi consigli non richiesti e a criticare il modo in cui avevo deciso di condurre la mia vita.

Matt alzò le mani in segno di resa e ridacchiando si alzò dal bancone, «Afferrato il concetto! Sei sempre più suscettibile amico mio, sarà la mezza età che si avvicina inesorabile...», ghignò.

Il trillo del campanello precedette la mia risposta al vetriolo perciò mi limitai a regalargli un dito medio poco elegante ma sempre efficace prima di dirigermi verso l'ascensore.

Ritirai la nostra cena dalle mani di Oscar, la povera anima che veniva sfruttata senza pietà dal nostro portinaio, e, dopo avergli allungato dieci dollari, tornai dal mio amico.

«Allora, come sta la cara Mildred?», chiesi recuperando un paio di tovagliette da un cassetto.

«Secondo me benissimo ma ora si è autoconvinta di avere un tumore della pelle e sta dilapidando il mio capitale vagando senza sosta tra oncologi e luminari della dermatologia...»

«L'ultima volta che ho avuto il piacere di incontrarla mi aveva detto che sentiva che presto avrebbe avuto un ictus...», lo informai.

Lui alzò le spalle e storse le labbra, «Se avessi dato ascolto a ciò che diceva di "sentire" sarebbe dovuta essere morta già sette volte da quando stiamo insieme»

Scossi la testa non riuscendo a capire, come sempre, perché mai Matthew si ostinasse a dividere il letto con quella donna sgradevole e più simile ad una farmacia ambulante che ad una compagna di vita.

Mi sedetti di fronte alla nostra cenetta e mi rilassai pensando per l'ennesima volta a quanto fossi fortunato ad essere meravigliosamente scapolo.

 

 

 

Buonasera a tutti quelli che ce l'avranno fatta ad arrivare fino a qui. Probabilmente da questo capitolo non si capisce un accidenti, o un cactus come direbbe Felicity, ma l'intento era un po' quello. L'inserire i due punti di vista nello stesso capitolo è un esperimento che non credo avrà seguito; mi piaceva come idea per introdurre parallelamente i protagonisti  ma penso crei un po' di confusione, che ne dite voi?

Detto ciò sparisco e inizio a sperare in qualche commentino.

S.

  
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