Felicity
«...Io
lo avevo detto che le begonie
color magenta avrebbero rovinato l'equilibrio dell'insieme»
«Tu
lo avevi detto? Ma per favore!
Sei stata tu, Theresa, ad insistere tanto per quei fiori orribili. Io
volevo
piantare dei tulipani sulle tinte dell'arancio...»
«Sì,
certo, e cosa c'entra
l'arancione con tutto il resto? Dovevamo fare un'aiuola più
grande e invece tu,
Richard, hai fatto cementare mezzo giardino, giardino per cui, giusto
come
promemoria, abbiamo dovuto sborsare ventimila dollari in
più!»
«Almeno
sappiamo dove parcheggiare le
auto! Se ascoltavo te ora avrei un'inutile serra piena di frutti di
bosco e la
macchina posteggiata a sei isolati da qui. E poi erano 19.800 dollari
in più,
non ventimila. Se proprio vuoi fare recriminazioni sii almeno precisa,
cara»
«Richard
perché non te ne vai a fare
un giro nella zona barbecue, che hai tanto voluto, e che userai solo il
4 di
luglio per fare due bistecche carbonizzate?»
Finiva
sempre così. Finiva sempre con
io che infilavo la testa in qualche arbusto, fingendomi interessata al
tipo di
terriccio utilizzato, per tentare di eclissarmi e non essere coinvolta
nei
furiosi litigi che avevano sempre luogo al momento conclusivo del mio
lavoro.
Era una scusa bella e buona per tentare di restare una spettatrice
della faida
che stava avendo luogo davanti a me, era una scusa perché io
sapevo tutto sulla
tipologia di terriccio utilizzata dal momento che era stata
accuratamente
selezionata dalla sottoscritta.
Le
persone si incontrano, si
innamorano, per un certo periodo pensano solo a fare i piccioncini,
dopodiché
decidono di evolversi, esattamente come farebbe un Pokemon.
Perché
non andare a convivere? Perché
non conoscere le rispettive ed assolutamente adorabili future suocere?
Perché
non fare un salto in oreficeria a comprare un anello, meraviglioso
gioiello
capace di far perdere la tramontana alle ragazze e farle strillare un
convintissimo SÌ! alla fatidica domanda, posta dal
fidanzato, magari
inginocchiato a terra e con Tour Eiffel sullo sfondo?
Matrimonio.
Luna di miele. Casa
nuova.
Preferibilmente
casa con giardino.
Eh
sì, perché l'errore di tutte
queste coppie avveniva quasi sempre a questo punto.
Ovvio,
a volte avveniva anche prima,
specialmente se decidevi di accasarti con un omuncolo dalla
personalità
completamente soggiogata dalla madre, impicciona con i fiocchi, naso
sempre
infilato nei cassetti di casa tua e consigli inopportuni e non
richiesti sempre
a portata di mano.
Le
lenzuola a 60 gradi? Macché siamo
matti?! Non vorrai che i meravigliosi ricami della Prozia Josephine
vengano
rovinati? Meravigliosi ricami che ti hanno procurato un altrettanto
meraviglioso
eritema cutaneo grazie al loro effetto grattugia e che, anche dopo
quindici
lavaggi alla massima potenza, sanno ancora di naftalina e disinfettante
d'ospedale.
Oppure
con un personaggio che faceva
visita all'estetista più spesso di te, avesse sul corpo la
metà dei peli che
avevi tu e spendeva in cosmetici il quintuplo di ciò che
spendevi tu.
Cara,
cosa sono queste doppie punte?
Se vuoi posso consigliarti una nuova maschera per capelli, naturale al
cento
per cento, un composto di alghe, grasso di balena, bava di lumaca e
pipì di
pipistrello, veramente portentoso!
Se
l'errore non riguardava la scelta
del compagno allora riguardava senza dubbio la scelta di acquistare una
casa
circondata da uno spazio verde.
Quasi
tutti vedevano il possedere un
giardino come un qualcosa che avrebbe reso più gioiosa e
verde la vita.
E
normalmente sarebbe stato così se
non fosse stato per i giardinieri, tutti ladri o scansafatiche.
Vogliamo
parlare di tutte le foglie perse dalla magnolia? E chi le raccoglieva
le
foglie? E le siepi da potare? E il prato da livellare? E i fiori da
innaffiare?
Un
giardino non era un optional che,
pagando profumatamente, ricevevi assieme alla nuova casa.
Uno
spazio verde era come un cucciolo
da crescere, allevare e a cui voler bene.
Bisognava
curarlo, dedicargli tempo
ed amarlo.
La
natura è estremamente munifica, ci
fa doni preziosi e in cambio chiede pochissimo.
Prendete
ad esempio quelle piante
grasse che mia nonna chiamava belle di notte;
paiono semplici cactus, le
innaffi una volta ogni tanto, le sposti in un luogo luminoso e loro ti
regalano
una meravigliosa fioritura, tanto bella quanto caduca, dato che nel
giro di un
giorno o poco più essa appassisce.
«Non
capisci, è un investimento per
il futuro, per quando faremo delle grigliate ai compleanni dei
bambini...»
«Oh
Richard, hai ragione. I nostri
bambini adoreranno giocare a basket nella zona con il porfido, come sei
previdente»
Ecco,
era bastato ventilare l'opzione
di futuri pargoletti e la moglie era già in brodo di
giuggiole.
Un
lampo di invidia interruppe il
corso dei miei pensieri ma mi affrettai a scacciarla via.
Mi
rimisi in piedi e sfilai i guanti
da giardinaggio, scrollando la terra rimasta adesa ad essi.
Vedevo
in continuazione coppie che mi
chiedevano di aiutarli a costruire una meravigliosa cornice fiorita e
lussureggiante al loro nido d'amore. Ormai avrei dovuto farci
l'abitudine, così
come ormai ero familiare con i litigi futili per la posizione che
avrebbe
dovuto occupare un ulivo o il colore della ghiaia del vialetto
d'ingresso.
Avrei
dovuto, già, ma era inutile
negare che vedere il proprio sogno realizzarsi nella vita di tanti
sconosciuti
e mai nella propria era frustrante a volte.
Sono
un’inguaribile romantica e devo
confessare che da piccola la mia attività preferita
consisteva nel celebrare il
matrimonio del mio unico Ken con le mie molteplici Barbie. E tutto
ciò generava
continue liti intervallate da energiche tirate di capelli e morsi con
Zoe, mia
sorella maggiore, il cui hobby prediletto consisteva invece nel
decapitare le
Barbie e cercare di sventrare Ken per vedere come fosse fatto il suo
intestino.
Zoe
aveva un futuro come chirurgo, o
come macellaio, in effetti sarebbe stata anche una degna erede di Jack
lo
Squartatore, e invece era finita a scrivere articoli per una rivista
punk letta
da un totale di duecento persone e a pubblicare raccolte di racconti
dalle
tinte macabre sotto pseudonimo.
Il
sole stava per tramontare e io non
vedevo l'ora di caricare tutti i miei attrezzi e i miei vasi sul retro
del
furgone e partire alla volta della mia piccola oasi di pace.
Richard
e Theresa avevano smesso di
bisticciare e rinfacciarsi l'un l'altro questioni vecchie quanto la
terra e ora
sorridevano felici, mani allacciate, e ammiravano il loro nuovo
giardino.
Avevo
fatto un buon lavoro, ne ero
più che certa.
Ok,
ok, probabilmente io non avrei
insistito tanto per avere cinque betulle posizionate a stella al centro
del
prato né per i graticci ricoperti di gelsomino che
contornavano ogni spazio
libero e saturavano l'aria con il loro profumo intenso, che se troppo
prepotente risultava nauseante, ma, considerate le iniziali richieste
del tutto
strampalate e al limite del pacchiano, ero riuscita ad accontentare
loro e a
far si che il giardino fosse grazioso ed elegante.
«Felicity,
non potremo mai
ringraziarti abbastanza per ciò che hai fatto»,
chiocciò Theresa prendendomi le
mani e sorridendomi commossa.
Il
marito la raggiunse e le posò un
braccio sulle spalle, «Mia moglie ha ragione, sei stata
splendida e hai fatto
un lavoro ammirevole»
Dopo
altri sorrisi, complimenti e
strette di mano ci congedammo, entrambi soddisfatti e contenti.
Certo,
pensai arrampicandomi sul
predellino del furgone, loro ora avevano un meraviglioso paradiso
fiorito da
godersi con la persona amata mentre a me toccava tornarmene a casa,
stanca e
sporca di terra fin nelle scarpe, dove mi attendeva George, il mio
pesciolino
rosso, e nessun'altro.
Parcheggiai
sul retro della mia
villetta e, nonostante la spossatezza, decisi di scaricare subito il
furgone e
di riporre tutta la mia attrezzatura da lavoro nella casetta di legno
che la
ospitava di solito.
Avrei
potuto rimandare ma uno sguardo
al cielo, plumbeo e minaccioso, mi fece cambiare idea.
Almeno
per quella sera non sarei
dovuta uscire ad innaffiare l'orto o far partire l'impianto di
irrigazione.
Posizionai
i secchi per la raccolta
dell'acqua piovana nel giardino sul retro e, dopo aver chiuso il
chiavistello
della casetta degli attrezzi e aver infilato il naso nella piccola
serra per
una veloce ispezione, mi incamminai verso la casa buia.
Mi
sfilai gli scarponcini da lavoro
infangati e li lasciai sotto al portico, a lato della porta finestra
della
cucina.
In
casa regnava la penombra e il
silenzio più assoluto. Non sopportavo la luce artificiale,
fredda e bianca,
adoravo quella casa proprio perché dotata di molte
più finestre rispetto alle
altre e amavo la conseguente luminosità che accompagnava le
mie giornate da
mattina a sera.
Abbandonai
la borsa di tela color
verde militare che usavo sempre al lavoro sul divano e, senza neanche
fermarmi
a recuperare le ciabatte, mi affrettai verso il piano di sopra.
«Ahi!»,
come mi capitava nel 99% dei
casi, quando volevo aggirarmi per casa senza accendere le luci sperando
di
vederci qualcosa, avevo picchiato il mignolino del piede contro uno
spigolo.
Era incredibile quanto facesse male. Aggrappandomi al corrimano, per
non dover
appoggiare il piede malandato a terra e non ruzzolare a terra vista la
mia
scarsa agilità, riuscii a raggiungere, zoppicando
e maledicendo quello stupido
spigolo malefico, il bagno.
Gettai
i jeans macchiati di verde e
la leggera maglia in felpa color giallo chiaro nella cesta delle cose
da
lavare, seguiti dal paio di calzini a giraffe che indossavo quel giorno
e la
canottiera rosa, stinta dai troppi lavaggi aggressivi.
Pigiai
il tasto di accensione della
radio e, canticchiando le parole sbagliate di una hit del momento,
zampettai in
camera da letto, dove pescai il mio portatile e lo accesi.
Mentre
aspettavo che si caricasse,
attività che avrebbe richiesto un minimo di dieci minuti,
considerata la zona
piuttosto fuori mano in cui abitavo e la mia adsl decrepita, feci
ritorno in
bagno dove trovai due occhioni tondi fissi su di me ad attendermi.
«George,
perdonami!», esclamai
acciuffando la sua boccia e dirigendomi giù per le scale.
«So che ti piace
trascorrere il tempo in salotto sul davanzale quando non ci sono ma
stamattina
mi sono proprio scordata di te»
In
tutta risposta il mio pesciolino
emise delle bolle.
«Su,
non fare l'offeso. Sai che di
mattina presto sono più sbadata del solito. Per farmi
perdonare guarda un po'
cosa ti darò: una dose doppia di mangime! Yuppiii!»
Dopo
aver scambiato altre due parole
con George, feci ritorno al piano superiore e accesi la doccia.
Non
solo l'adsl era lenta in quella
casa ma anche la caldaia. Mentre l'acqua gelida scendeva nel box doccia
tornai
in camera dove, dopo aver immesso la password, mi collegai alla mia
casella di
posta elettronica.
Non
possedevo un cellulare, perciò
tutti i miei contatti si limitavano al telefono di casa e al mio
indirizzo
email.
Newsletter
del teatro cittadino, spam
di un sito olandese di bulbi, due righe di ringraziamento da parte del
mio
penultimo cliente e un messaggio di Theodore.
Felicity,
Questo
fine settimana non ho
lezione e il seminario del sabato è sospeso a causa della
pausa per le vacanze
di primavera perciò sarò alla stazione
venerdì sera. Probabilmente sarò sul
treno delle 21.17 perciò posso prendere un taxi per venire
da te, non vedo la
necessità di disturbarti inutilmente.
Sto
leggendo un saggio molto
interessante sull' Ulmus
campestris e ci sono
dei passaggi molto interessanti che vorrei sottoporre alla tua
attenzione.
Gli
studenti sono sempre più
irrequieti, illusi da queste giornate di pallido sole, sentono
già l'odore
dell'estate e iniziano a fare progetti sulle ferie, dimenticandosi che
tra il
mare e la libertà estiva ci sono io: io e l'importante esame
che devono
sostenere.
Ai
miei tempi l'università
era presa molto più sul serio; era un'opportunità
preziosa che ci veniva
offerta e non un obbligo a cui venivamo forzati. Ovviamente parlo per
me, la
tua triste vicenda universitaria mi è nota, perdonami.
A
presto cara,
Professor
T. H. Graham
Sospirai
delusa chiudendo il mio
account Gmail.
Cosa
mi aspettavo? Sapevo benissimo
che Theodore non era tipo da smancerie e sviolinate, e se non lo sapevo
inizialmente sicuramente dopo tre anni di relazione avrei dovuto
apprenderlo.
Eppure
ogni volta leggevo avida le
sue parole in attesa di un 'Mi manchi' scribacchiato alla fine o di un
'Oggi ti
ho pensata' gettato quasi casualmente
nel bel mezzo del resoconto della sua ultima lezione.
Misi
il pc in standby ripromettendomi
di rispondere alla mail più
tardi, e dopo essermi liberata della biancheria mi gettai sotto il
getto caldo
della doccia. Forse speravo di poter sciacquare via, insieme alla terra
e al
sudore, anche quel perenne senso di insoddisfazione che mi accompagnava
da un
anno a questa parte.
Dopo
essermi asciugata, mi infilai
una vecchia felpa scolorita, un paio di pantaloni del pigiama e uno
spesso paio
di calzettoni decorati con pomodori e carote.
Intrecciai
i capelli umidi e
trotterellai al piano inferiore. Veloce tappa al frigorifero, dove
recuperai
una fetta di torta salata ai carciofi preparata il giorno precedente e
un
bicchiere di latte, e insieme al mio libro andai ad appollaiarmi sul
divano in
veranda.
Il
cielo era sempre più cupo,
rischiarato ad intervalli sempre più brevi da lampi di luce,
seguiti da tuoni
lontani che non preannunciavano nulla di buono.
Dopo
aver cenato, riempii il mio
annaffiatoio argentato alla fontanella nell'angolo e diedi da bere alle
mie
piantine aromatiche e ai vasi fioriti che rendevano la mia veranda una
piccola
giungla colorata e profumata.
Mi
accoccolai nuovamente sul morbido
divano e stesi il mio plaid a quadretti sulle gambe. Aprile era alle
porte ma
la temperatura era ancora freddina la sera.
Mi
immersi nella lettura, beata nel
mio piccolo mondo verde e mi scordai di rispondere a Theodore.
***
Liam
«Quella
statuetta cinese è un dono
della mia bisnonna Brunilde per le nostre nozze. Tu odiavi quel clown
piangente, lo odiavi. Ripetevi sempre che ti fissava e avevi insistito
perché
non lo mettessi sul cassettone in camera nostra»
«Io
adoravo quella statuetta. Ha
trascorso gli ultimi sei anni nella vetrinetta in sala da pranzo solo
perché io
l'ho salvata da te e dalla tua intenzione di donarlo ad una pesca di
beneficenza. Io lo spolveravo con cura tutte le settimane mentre tu hai
rischiato di romperlo ben più di una volta»
«Ma
non dire caz- ... Taci, Rupert,
non farmi diventare scurrile. Non sai neanche dove si trovava il
ripostiglio
delle scope, figurarsi se spolveravi davvero quel clown
schifoso!»
«Lo
hai detto! Bene, è mio. Avvocato,
segni cortesemente»
«Sai
che affare! Non ho mai visto un
soprammobile così brutto ed inquietante in tutta la mia
vita»
«Lo
so, infatti finirà immediatamente
nell'immondizia. Ma almeno sarò io ad avere il piacere di
farlo e non tu. Ho
sempre detestato la tua bisnonna Brunilde, vecchiaccia
rancorosa»
«Non
parlare così dei miei parenti!»
«Ora
sei tu, Janet cara, che devi
smettere di dire cazzate. Hai passato tre quarti della nostra luna di
miele a
inveire contro i regali di nozze e gli abiti indossati al ricevimento
dal tuo
parentado, dando della puttana stagionata a tua zia Tori e augurando la
morte a
tuo cugino Dean»
Finiva
sempre così. Finiva sempre con
io che infilavo la testa in qualche cartelletta piena di documenti,
fingendomi
interessato a scartoffie su quante ore di tv potesse vedere il bambino,
figlio
di una coppia neodivorziata, e quanti litri di acqua al giorno dovesse
bere,
per tentare di eclissarmi e non essere coinvolto nei furiosi litigi che
avevano
sempre luogo in ogni momento del mio lavoro. Era tutta una scusa,
ovviamente
sapevo benissimo che il piccolo Finn Jones avrebbe dovuto assumere 1,75
litri
di acqua giornalmente e non guardare la televisione per più
di 103 minuti, lo
sapevo benissimo dato che quel documento lo avevo redatto io.
Le
persone si incontrano, si
innamorano, per un certo periodo pensano solo a fare i piccioncini,
dopodiché
impazziscono e cadono nella trappola mortale di LSS. Anche detta La
Scelta Suicida:
il matrimonio.
Chicchi
di riso, torta a sette piani,
viaggio alle Bahamas, casa nuova, comunione dei beni, station wagon,
primo
pargolo, cagnolino, casa nuova con giardino, secondo pargolo.
E
dopo?
E
dopo entravo in gioco io.
Sì,
perché il 35% di tutte queste
belle favole finiva con il divorzio.
Divorzio
vuole dire tante cose.
Ad
esempio parcella super generosa
agli avvocati divorzisti, vedere lo stipendio mensile del sottoscritto
come
conferma.
O
discussioni furiose e cariche di risentimento
per decidere a chi spetti tenere la macchina per il pane, appena
riesumata
dalla cantina dopo anni di oblio, o la maschera da sub ritrovata dagli
uomini
dei traslochi dietro alla scaffalatura della taverna.
O
anni e anni di insulti repressi e verità
nascoste urlati con cattiveria di fronte a cento persone sconosciute in
un'aula
di tribunale. Perché non avremmo potuto continuare a vivere
tranquillamente se
non fossimo stati messi a conoscenza del fatto che Jim si era fatto la
madre di
sua moglie Sally, la quale non riuscendo a restare incinta del
sopracitato Jim,
era ricorsa ad un donatore anonimo e quando poi il figlio era nato con
gli
occhi a mandorla aveva incolpato il coreano del negozio di alimenti
sotto casa
di averla sedotta ed abbandonata. Jim allora aveva fatto una bella
scazzottata
con il povero coreano innocente, rivelatosi però un vero
Jackie Chan, ed era
finito al pronto soccorso con tre costole rotte, un femore sbriciolato
e la
milza spappolata. Si era poi scoperto che aveva un cancro al colon e la
madre
di Sally nel scoprire ciò aveva urlato al mondo di aspettare
un figlio da Jim e
dopodiché era stramazzata al suolo a causa di un infarto.
O
poveri bimbetti strapazzati di qua
e di là da due genitori assolutamente scellerati che
facevano il calcolo dei
secondi presenti in una settimana per fare in modo di spartirsi il
figlio in
modo equo.
Adoravo
il mio lavoro, soprattutto
perché grazie ad esso potevo concentrarmi sulle disgrazie
altrui ignorando,
almeno momentaneamente, le mie.
Conducevo
la tipica vita da scapolo
più che benestante: studio legale, golf, palestra, aperitivi
con gli amici,
weekend con ragazze bellissime da scaricare la domenica sera e attico
in cui
mettevo piede giusto per dormire.
Dopo
altri cinquanta minuti di
battibecchi Janet e Rupert mi strinsero la mano e, ignorandosi a
vicenda,
lasciarono il mio studio.
Mi
massaggiai esausto le tempie
cercando un po' di sollievo. Ultimamente avevo perennemente dei mal di
testa
lancinanti.
L'elegante
orologio a pendolo affisso
accanto alla finestra segnava le sei e quarantatré e la
stanza era ormai in
penombra, chiaro segno che il sole era già tramontato.
Sistemai
le varie cartellette di
documenti sparse sulla scrivania, infilai nella mia ventiquattr'ore le
scartoffie relative ai clienti con cui avevo appuntamento il giorno
seguente e
spensi la lampada in stile art noveau, che faceva bella mostra di
sé tra un
prezioso tagliacarte in madreperla e un portapenne indonesiano,
souvenir del
mio ultimo viaggetto antistress.
Recuperai
il mio soprabito e uscii
socchiudendo la porta. Salutai Diana, la mia segretaria,
rimproverandola per il
sui ritardo nel raggiungere i suoi due bambini che la attendevano a
casa e me
ne andai, immergendomi nell'aria frizzante di quella sera.
Il
viaggio fino a casa fu estenuante.
Odiavo abitare in una grande città quando ciò
voleva dire ore bloccati nel
traffico delle ore di punta, furiose suonate di clacson e imprecazioni
senza
sosta rivolte a pedoni e ciclisti incoscienti che decidevano di tentare
il
suicidio gettandosi davanti alla tua auto senza preavviso.
Il
mio iPhone lampeggiava senza sosta
dal sedile del passeggero e io dovetti sforzarmi di pensare ai trecento
dollari
di multa per uso del telefono cellulare alla guida pagati tre settimane
prima
per frenare il mio istinto di allungare la mano ed afferrare il
telefono e
controllare chi mi avesse scritto.
Parcheggiai
la mia scintillante Audi
nel posteggio a me riservato e mi diressi verso l'ascensore, rivolgendo
un
cenno del capo al custode del parcheggio sotterraneo nel passare
davanti al suo
ufficio.
Strisciai
il mio badge argentato
e, mentre i
numeretti scorrevano
pigramente sul display al di sopra della lucida pulsantiera, scorsi le
email
ricevute, cestinandone la metà senza neppure aprirle.
Il
mondo era pieno di scocciatori e
non avevo nessuna voglia di prestare loro neanche un briciolo della mia
attenzione, figurarsi il mio prezioso tempo o la mia impeccabile
competenza
professionale.
L'ascensore
trillò per annunciare che
avevamo raggiunto l'ultimo piano e le porte metalliche si aprirono
silenziose
davanti a me.
Di
fronte alla vetrata che si
affacciava sulla città illuminata c'era una figura maschile,
di spalle rispetto
a dove mi trovavo.
«Dovrò
decidermi a toglierti il pass
d'accesso a casa mia», borbottai gettando con noncuranza la
giacca sul divano
di pelle nera.
L'uomo
non si voltò ma lo udii
ridacchiare, «Sono certo che dopo averti comunicato le liete
novelle di cui
sono ambasciatore desidererai averlo fatto...»
Non
mi allarmai più di tanto,
Matthew, era un bravo avvocato ma tendeva ad essere leggermente
melodrammatico.
Avevamo
frequentato insieme la
facoltà di legge di Harvard ma,
mentre
io avevo preferito le schermaglie tra mogli che avvelenavano la cena
del marito
e coniugi che tentavano di soffocare le consorti come dei moderni
Otello, lui
aveva scelto di intraprendere il ramo del notariato. Si occupava di
eredità,
lasciti ed era testimone di lotte all'ultimo sangue per sancire quale
dei
trentasette pronipoti ingrati e avidi di un magnate del petrolio avesse
diritto
alla fetta più cospicua del patrimonio di famiglia.
«Mildred
è morta, soffocata
accidentalmente dalla sua stessa lingua biforcuta?», mi
informai dirigendomi
verso la cucina.
Aprii
il mio frigorifero spaziale
curioso di sapere cosa mi avesse cucinato quel giorno Inés,
la mia tuttofare di
fiducia.
Invece
di trovare un bel piatto
guarnito e pronto per il microonde mi imbattei, con mio grande
disappunto, nel
vuoto cosmico che regnava nel freddo e spoglio interno
dell'elettrodomestico.
«Niente
cenetta succulenta questa
sera, la tua cara Inés ti informa che suo cugino Pedro ha
avuto un attacco di
cuore e si scusa», Matt confermò il mio triste
presagio sventolandomi un
biglietto davanti al viso.
Prima
o poi la sua domestica avrebbe
imparato il suo nome pensò leggendo il Señor
Liam Cater Writ scarabocchiato in cima al post-it.
Inés
proveniva da una famiglia di
origini portoricane decisamente troppo numerosa. Il mese scorso si era
assentata per il matrimonio di Carmen, per accompagnare
Lenór dalla ginecologa,
per i continui attacchi di panico di Javier, per badare al figlio della
parrucchiera della vicina di casa di sua sorella e per andare al saggio
scolastico della nipotina della sua ex collega.
Ma
bastava uno dei suoi manicaretti
da stella Michelin a farmi dimenticare il suo rumoroso e fastidioso
parentado.
«Com'è
messo il tuo stomaco?»,
domandai al mio amico dirigendomi verso il telefono posato su un lucido
tavolinetto tondo al lato della poltrona.
Non
avevo mai imparato a cucinare
neanche la più semplice delle pietanze e se ero arrivato a
trentaquattro anni in
salute e senza rischiare la morte per inedia era soltanto grazie ai
take away e
alle donne della mia famiglia.
I
pranzi di undici portate di mia
nonna May e i conseguenti mal di pancia dovuti all'abbuffata sono dei
ricordi
difficili da scordare, così come la tovaglia a quadri rossi
e bianchi e il suo
grembiule giallo perennemente macchiato di sugo.
Scacciai
quei ricordi e afferrai il
cordless e la lista dei numeri dei ristoranti che consegnavano a
domicilio.
Matthew
nel frattempo si era
accomodato su uno degli alti sgabelli cromati della penisola della
cucina.
«Mildred
è di nuovo nella sua fase
dieta, ormai mangia solo riso basmati scondito e cavolini di
Bruxelles...», mi
rispose scuotendo sconsolato il capo.
«Motivo
in più per liberarsi di lei
una volta per tutte!», esclamai risoluto, scorrendo con lo
sguardo i vari nomi
dei locali. «Stasera andiamo di thailandese.
Obiezioni?»
«Due
sere fa ho cenato con due fette
di cetriolo e una spremuta di pompelmo; mangerei anche una bistecca di
orso
polare a questo punto»
Dopo
una breve telefonata al
ristorante e un rapido avviso alla portineria tornai dal mio amico che
stava
fissando sconsolato il suo riflesso sulla superficie a specchio del
bancone.
«Insomma
qual è il problema?»
Aprii
nuovamente il frigorifero e
pescai un paio di bottiglie della pregiata birra prodotta alla vecchia
maniera
in un monastero che mi facevo recapitare direttamente dalla Germania.
«I
miei problemi confrontati ai tuoi
non sono nulla...»
Sbuffando
mi accomodai di fronte a
lui allungandogli una delle due bibite. «Hai finito di
profetizzare sventure?
Dimmi cosa è successo»
Non
amavo i giri di parole e non
credevo nel basta un poco di zucchero e la pillola va
giù. Le cose
andavano dette, per quanto crudeli e dolorose potessero essere.
«È
stato ritrovato il testamento di
tuo nonno Tobias...»
Rimasi
per un attimo disorientato.
Tobias era il padre di mia madre ed era morto ben dieci anni prima. Era
già
vedovo al momento della sua scomparsa e tutti pensavano che la sua
grande
tenuta in campagna e i suoi risparmi sarebbero passati ai tre figli ma
poco
dopo si era scoperto che il vecchio aveva accumulato una vera e propria
fortuna
e un nuovo figlio si era fatto vivo avanzando la pretesa di ottenere
una parte
del lascito.
In
assenza di testamento era stato
tutto diviso tra mia mamma e i suoi due fratelli e la casa di campagna
era
stata chiusa, i mobili coperti da lenzuoli lisi e le finestre sbarrate.
Gli
feci cenno di continuare non
sapendo bene cosa dire al riguardo. Non riuscivo a capire come la cosa
dovesse
riguardare me nello specifico.
«Ti
ha lasciato la casa», Matthew
spinse verso di me un fascicolo di fogli e mi indicò un
paragrafo e subito dopo
il mio nome, Liam Carter Wright, per confutare i miei dubbi.
Fissai
la lancetta dell'orologio a
parete affisso di fronte a me e mentre i secondi passavano ticchettando
cercai
di ricordarmi l'ultima volta che avevo visto mio nonno. Andavamo a
trovarlo di
rado, mio padre non era mai andato troppo a genio al suocero e vecchi
rancori
impedivano ai due di sostenere una conversazione civile.
Probabilmente
era il mese di Aprile
dato che ricordo chiaramente che morì nel bel mezzo della
primavera, la sua
stagione preferita. Se chiudessi gli occhi potrei ancora vederlo, la
sua figura
leggermente ingobbita ma pur sempre imponente stagliata contro la porta
d'ingresso, il suo tono sempre burbero e le sue mani dure, da persona
che ha
passato una vita a lavorare la terra che mi lasciavano dei buffetti
sulle
guance, nonostante i miei vent'anni.
«Non
può averlo fatto, ero il nipote
che vedeva di meno e poco prima della sua morte aveva avuto un litigio
più
violento del solito con mia madre...»
«E
invece, leggi qui, nero su bianco.
Sei l'unico proprietario. Casa e terra. È tutto
tuo», Matt levò dalla tasca
della sua elegante giacca beige un paio di chiavi e me le porse
sorridendo
incoraggiante, «Chi lo sa, magari fare l'agricoltore
potrà rivelarsi una scelta
più felice di giurisprudenza...»
«Io
amo il mio lavoro», precisai.
Il
mio amico fece un gesto noncurante
con la mano e sbuffò, «Non lo metto in dubbio ma
non penso che la vita che
conduci da quando non sei più s-»
Lo
interruppi senza curarmi di
apparire maleducato, «Lo so cosa pensi Matthew. Ma,
onestamente, la
cosa non turba il mio sonno o influisce
sulla mia vita, che gestisco come mi pare e piace essendo adulto e
vaccinato»,
lo misi a tacere con poco garbo.
Sapevo
di essere stato ingiusto con
lui, eravamo amici da quindici anni e non si meritava la mia scortesia
ma
purtroppo non sopportavo quando le persone iniziavano a darmi consigli
non
richiesti e a criticare il modo in cui avevo deciso di condurre la mia
vita.
Matt
alzò le mani in segno di resa e
ridacchiando si alzò dal bancone, «Afferrato il
concetto! Sei sempre più
suscettibile amico mio, sarà la mezza età che si
avvicina inesorabile...»,
ghignò.
Il
trillo del campanello precedette
la mia risposta al vetriolo perciò mi limitai a regalargli
un dito medio poco
elegante ma sempre efficace prima di dirigermi verso l'ascensore.
Ritirai
la nostra cena dalle mani di
Oscar, la povera anima che veniva sfruttata senza pietà dal
nostro portinaio,
e, dopo avergli allungato dieci dollari, tornai dal mio amico.
«Allora,
come sta la cara Mildred?»,
chiesi recuperando un paio di tovagliette da un cassetto.
«Secondo
me benissimo ma ora si è
autoconvinta di avere un tumore della pelle e sta dilapidando il mio
capitale
vagando senza sosta tra oncologi e luminari della
dermatologia...»
«L'ultima
volta che ho avuto il
piacere di incontrarla mi aveva detto che sentiva che presto avrebbe
avuto un
ictus...», lo informai.
Lui
alzò le spalle e storse le
labbra, «Se avessi dato ascolto a ciò che diceva
di "sentire" sarebbe
dovuta essere morta già sette volte da quando stiamo
insieme»
Scossi
la testa non riuscendo a
capire, come sempre, perché mai Matthew si ostinasse a
dividere il letto con
quella donna sgradevole e più simile ad una farmacia
ambulante che ad una
compagna di vita.
Mi
sedetti di fronte alla nostra
cenetta e mi rilassai pensando per l'ennesima volta a quanto fossi
fortunato ad
essere meravigliosamente scapolo.