Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: Knetgummi    16/09/2015    1 recensioni
[Ex "Canarini al microonde"]
*ATTENZIONE: STORIA INCOMPIUTA*
Michele è un ragazzo come tanti altri. Né magro ne grasso, né basso né alto, occhi e capelli castani come il novanta percento della popolazione italiana. Suona il basso, legge tanto e si barcamena tra la scuola e una madre opprimente che lo crede etero -- cioè, non che lui non si definisca un uomo etero, ma sua madre lo crede una ragazza a cui piacciono i ragazzi. L'unica cosa che ha di diverso da un qualsiasi adolescente, infatti, è che non è nato maschio.
Poi arriva Valentino, che cercando di dare un senso alla sua vita di universitario mancato si ritrova faccia a faccia con la forza, il carattere, il fascino, il culo di Michele.
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Canarini al microonde - Capitolo III

Capitolo III



Le esatte parole che pensò Michele quando vide il cosiddetto amico eterissimo di Valentino furono “questo mi prende per il culo”.

Era alto, molto alto, e per tutta la lunghezza del suo corpo non c'era nemmeno una singola particella che potesse scorrere davanti agli occhi inquisitori dei suoi senza destare sospetti. Portava pantaloni aderenti, una maglia improponibile a stampa batik arcobaleno e un paio di Converse viola, che dovevano essere di un numero tra il 45 e il 50 ed erano perfettamente in tinta con la sua macchina, parcheggiata poco distante.

Era anche biondo e Michi si stupì di constatare, guardando i peli delle braccia e non le sopracciglia, perché era girato di spalle, che fosse biondo naturale. I suoi erano profondamente convinti che i ragazzi che si tingevano fossero tutti gay, e non voleva insospettirli ancora di più. Non che la capigliatura importasse molto, in quel quadretto omosessuale.

“Eccoci qui. Lui è Adrian, il mio autista rumeno”, disse Valentino una volta che ebbe guidato Eleonora e Michele fuori dalla piazza, in una viuzza laterale dov'era radunato un gruppetto di manifestanti multicolore. Vale indicò il gigante biondo, che si voltò e sorrise, guardandolo poi negli occhi senza aspettarsi spiegazioni.

“Ah, eccoti. Pensavo fossi sparito con chissà chi. Ehm... ciao!”, salutò con un vocione inaspettato. “Amici di Vale? Vi devo portare da qualche parte, vero?”

Oh mio Dio, pensò Michele, non può essere vero. Deve togliersi quegli occhiali ridicoli.

“Beh, non tutti e tre. La ragazza è automunita”, gli rispose Valentino. Poi fece un ampio gesto con le braccia come a voler circondare una situazione troppo grande e complessa e scrollò le spalle, guardando Michele. “Su, su, presentatevi. Fate amicizia, da bravi.”

Adrian obbedì immediatamente, porgendo la mano a Eleonora e facendole un ampio, bianco sorriso. Sollevò gli occhiali da sole, tondi e rosa come il peggiore degli incubi di Michele, per donarle uno sguardo ammaliatore. “Io sono Adrian, piacere di conoscerti.”

Michele si girò verso Vale, mosso dalla curiosità che la conversazione di poco prima aveva acceso in lui. Il tipo con i capelli grigi gli aveva messo in moto qualcosa nello stomaco, una sorta di ansia di fondo, un'insicurezza data da qualche emanazione di quello strano personaggio. Era così sicuro di sé, così interessante, eppure non riusciva a capire né chi fosse oltre la recitazione sfacciata né cosa lo agitasse tanto di lui. Voleva sapere, voleva capire, voleva vedere fino a che punto potesse dire di combaciare con quello sconosciuto. Ormai da qualche tempo aveva sviluppato la teoria, più inconscia che intellettuale, che i rapporti tra le persone fossero regolati dalla ricerca di sé nell'altro.

Voltandosi non si sorprese di notare gli occhi al cielo di Valentino, reazione alle parole di Adrian che qualche minuto prima, con il suo muto assenso, aveva definito ipocrite. Si aspettava un simile moto di disapprovazione, benché scherzoso; la teatralità di Valentino doveva per forza nutrirsi di qualche copione, e a Michele quello sembrava familiare. Senza preavviso alcuno, come fossero amici di lunga data, i due si scambiarono uno sguardo d'intesa caldo e complice, lungo abbastanza da sciogliere una tensione di cui fino a un momento prima non si era accorto dell'esistenza.

Nel giro di un secondo Adrian si era già rivolto verso di lui, lasciando Eleonora boccheggiante di fronte a tanta figaggine, mentre Vale aveva distolto lo sguardo e ripreso a guardare il suo amico ondeggiando sulle lunghe gambe.

“Adrian, piacere. Ma... cos'è quella roba che hai in testa? Hai la febbre?”

Michele si tastò la fronte, ricordandosi solo in quel momento del fazzoletto bagnato con cui Ele l'aveva costretto a tamponarsi la fronte e che fino a quel momento era rimasto legato intorno al capo, scaldandosi fino a perdere tutta la sua utilità.

“Ehm... no. Mi sono sentito male per il caldo.” Sulle ultime parole, quando Adrian portò in avanti il lungo braccio flettendone i muscoli per scacciare un insetto, soffocò in un conato d'invidia. Occhiali e scarpe esclusi, si ritrovava davanti al tipo d'uomo che lo faceva piangere la sera, prendendosi a pugni le cosce fino a non sentirle più e sognando di avere un corpo forte, maschile, solido come quello che aveva davanti agli occhi in quel momento, così tangibile da dare la nausea.

Oltre ad essere alto e snello aveva un bel viso sorridente, sopracciglia dritte sugli occhi nocciola e un innocentissimo paio di fossette incastrate tra le lentiggini. Era affascinante, bello in modo molto semplice e pulito, e anche se aveva i modi e le movenze di chi è ben consapevole del proprio aspetto non dava, di primo acchito, l'impressione d'essere arrogante.

Nonostante l'invidia, qualcosa nell'allegria di Adrian salvò il suo umore prima che precipitasse. “Mi chiamo Michele, comunque.”

Il suo interlocutore non sembrò stupito. Cazzo, sono passato anche con lui. Oggi è il mio giorno fortunato. “In che senso sei stato male? Oddio, povero.”

“Nulla di grave, un colpo di calore. Ora sto meglio... mi fa solo un po' male la testa.”

“Se dire cose senza senso non è nulla di grave...” Valentino ridacchiava a fianco di Adrian, tenendo un braccio sulla sua spalla nonostante fosse più basso di lui di qualche centimetro. Erano completamente diversi, ma sembravano in gran sintonia, e una volta ogni tanto si scambiavano qualche sguardo ridente. Chissà da quanto si conoscevano. “Lo ammetto, un po' mi ha fatto impressione”, disse rivolto più ad Adrian che a Michele. Il suo amico biondo, di rimando, gli sorrise in modo strano.

“Beh, non sembravi proprio tanto sconvolto”, replicò Michele, notando il tono vagamente derisorio dell'altro. Cercò di non dare a vedere quanto fosse piccato dal suo comportamento e dalla situazione umiliante.

Ele non lo aiutò nei suoi intenti, portandosi le mani alla bocca in un gesto esagerato, da fumetto, solo senza un GASP! scritto accanto. “Veramente dicevi cose senza senso? Oh Gesù, mi dispiace tanto! Non dovevo lasciarti da solo... mi dispiace mi dispiace mi dispiace!”

Gli andò vicino e tento di abbracciarlo, gesto che lui eluse prendendole le mani tra le sue in una stizza controllata. “Eleonora, ti prego, tranquilla. Non dire queste cose. Non è che se tu ci fossi stata mi avresti salvato... da cosa, poi?” Sospirò lasciando la presa. “Sto bene. Non capisco perché tu insista per farmi andare in ospedale. Anzi, guarda, ho cambiato idea. Non ci vado più, mi sono rotto le palle. E non sono il tipo da scroccare passaggi per niente.”

“No, no, ci devi andare!”

“Concordo con lei. Non sei un peso, caro, mi piace conoscere gente nuova. E poi devo portare a casa una ragazza che vive vicino al Sant'Anna.”

Ele sembrò confortata dal fatto che Adrian fosse d'accordo con lei. “Eddai, Michi! Fallo per me. Mi sento troppo in colpa.”

“Non me la sento, Ele.”

“Guarda che non devi obbligatoriamente chiamare i tuoi, eh.”

“Ok, però mio padre al pronto soccorso del Sant'Anna ci lavora. Mi sentirei una merda se dovessi dirti di sparire per non insospettirlo.”

“Me ne frega zero! So che sei figlio di Satana e Belzebù, mica mi offendo.”

Michele ridacchiò e rifletté qualche secondo. La possibilità di trovare suo padre era infima, dato che il pronto soccorso vedeva entrare e uscire dalle sue porte qualche migliaio di persone ogni giorno.

“Ok, dai, ti faccio questo favore. Magari mi danno anche qualcosa per il mal di testa.”

“Bravo ragazzo”, disse Valentino, che fino a poco prima si era tenuto in disparte. “Anche mia madre lavora al Sant'Anna, è un'infermiera.”

“Davvero? Mio padre è un chirurgo. Ricuce quelli che arrivano lì d'urgenza, persone che hanno fatto incidenti e quant'altro. Cose sanguinose.” Secondo me è per questo che è uno schizzato, aggiunse mentalmente.

Valentino lo guardò per la prima volta con autentica curiosità. Fino a quel momento aveva assunto l'atteggiamento noncurante di chi è poco interessato alle altre persone e alle situazioni estranee a sé, ad eccezione che con Adrian, a cui erano dedicati battute e sguardi allusivi intenzionati a farlo ridere. Ora che aveva scoperto qualcosa di più su Michele invece aveva rizzato le orecchie, e a giudicare dallo sguardo neutro e assorto che gli rivolse stava macinando qualche pensiero in testa, come se fosse diventato tutto ad un tratto un soggetto degno di nota.

Più lo guardava, meno questo Vale gli sembrava decifrabile. Dall'abbigliamento temeva fosse un hipster, ma non ne era sicuro; gli hipster di solito gli stavano sulle palle dal primo sguardo.

“Allora, c'è una microscopica probabilità di farci dare un passaggio per casa o devo perdere le speranze?”

Una ragazza riccia e minuta spuntò dalla calca reggendo un borsone pieno di roba – bandiere, cartelloni, volantini e una cassa altoparlante. Si accompagnava a una coetanea col capo chino sul cellulare, alta, zainomunita e rossa di capelli, che nella distrazione le urtò una spalla facendole volare via qualche dépliant.

“Cazzo, Edith, potresti avere la decenza di aiutarmi invece di stare su Whatsapp!”

Edith? A Michele quel nome era familiare.

“Non rompere, sto cercando di scrivere a Fede.”

“Non mi interessa! Raccogli quei fogli e dammi una mano!”

Poi la ricciolina posò la borsa a terra e si precipitò ad abbracciare Adrian, volandogli al collo come un passerotto. “Adrian bello! Ti sei divertito oggi? Scusa se non sono stata molto presente, ho avuto parecchio da fare.”

“Tranquilla, Dani, vivo anche senza te che mi ronzi intorno. Guarda caso spunti giusto in tempo per scroccare un passaggio, eh?”

“Pensi sempre male. Cazzo, scusami!” La ragazza era ridiscesa in un balzo atterrando su un piede dell'amico, che aveva emesso un lamento di dolore. “Te lo giuro, ho finito ora di raccogliere la roba. Non arrivo a farti compagnia solo per farmi riportare a casa.”

“Ti credo, ti credo. Il piede mi serve per frenare, però.”

La rossa Edith, nel frattempo, aveva rimesso nel borsone i dépliant volati via e aveva riposto il cellulare. Si guardava intorno annoiata, facendo un cenno con la mano ogni tanto a persone che la salutavano.

“Ciao, ragazzi!”, salutò caldamente Adrian e Vale una volta che Dani si fu defilata.

Michele ebbe qualche secondo per riconoscere quelle membra allungate. Erano molto diverse da come se le ricordava, rese dagli anni più affusolate di come apparivano nei suoi ricordi, ma quando la osservò in viso i suoi grandi occhi verdi non gli lasciarono dubbi.

Prima ancora che potesse richiamare la sua attenzione fu lei ad alzare la testa, notarlo lì in piedi e emettere un grande strillo.

“MICHI!”


 


 


 

Le sopracciglia di Edith avevano sempre avuto una forma particolare, accentuatasi col crescere della ragazza; scendevano austere e spesse sugli occhi e verso l'esterno curvavano dolcemente verso il basso, in contrasto con le labbra sottili con gli angoli sempre all'insù.

Mentre i due amici chiacchieravano nella Panda sovraffollata di Adrian, gli scatti espressivi di quelle sopracciglia cullarono Michele tra risate e ricordi d'infanzia, vissuti con quella che era stata la sua storica migliore amica dal primo giorno di scuola prima elementare.

Lui e Edith avevano sempre frequentato la stessa classe, dalle elementari alle medie, e avevano sempre abitato nella stessa via; entrambi provenivano da famiglie benestanti ed entrambi erano nati con un certo spirito da ribelli combinaguai. Tra loro c'era stata la classica amicizia tra bambini con caratteri e vissuti molto simili, partita da una litigata per finire in associazione a delinquere: tutte le punizioni inflitte dagli insegnanti, le lamentele sulle regole imposte dai genitori e le risse tra compagni di classe le avevano vissute fianco a fianco, facendo a botte di tanto in tanto ma sempre stimandosi a vicenda. Per lui Edith, che quand'erano bambini tutti chiamavano Eddi, era un'amica e una complice, di cui ammirava la spavalderia e l'irruenza, tanto diversi dalla sua ritrosia. Lei era quella che lo spingeva a ribellarsi alla sua famiglia e alla scuola – con disastrose conseguenze, sì, ma tanta soddisfazione; gli aveva fatto conoscere i Green Day e la musica house in prima media, coi primi bagliori della ribellione adolescenziale, e l'aveva incitato a prendere in mano il basso elettrico per formare una band. Il progetto della band era poi andato in fumo, mentre la passione per il basso a Michi era rimasta.

L'aveva spesso calmata dopo i litigi con i suoi genitori, quando la rabbia non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. In poche cose differivano, e una era l'attitudine il proprio ceto sociale: Edith era convinta che i suoi genitori fossero dei bigotti a causa della loro mentalità borghese, e da ragazzina, quando litigava con loro, ribadiva sempre quanto le facesse schifo l'ipocrisia dei suoi famigliari. Un giorno suo padre, un imprenditore di una certa importanza, si stancò e decise, visto che “il modo in cui portava a casa i soldi la disgustava tanto”, di non concederle più alcun lusso. Niente paghetta, niente videogiochi e niente abiti costosi; minacciò di mandarla in collegio se non si fosse calmata.

Michele le fece un gran discorso filosofico per cercare di calmarla, perché secondo lui non si diventa stronzi essendo ricchi e cattolici, un po' lo si nasce. Di certo crescere in ambienti ultraconservatori non aiuta, ma “se tutti quelli nati in famiglie abbastanza ricche sono stronzi in automatico”, le disse, “vuol dire che noi siamo stati adottati”. Cercava di capire i suoi genitori, apprezzando tutte le cose che gli avevano dato – la bella casa, tanti vestiti, playstation e l'agognato Fender Jazz Bass – e per cui avevano lavorato sodo; non credeva che la sua famiglia fosse poi tanto diversa da quella di molti suoi amici. Mal sopportava di dover curare la sua reputazione, mentendo su tutto e dovendo dare l'immagine di una ragazzina perfetta ed educata, ma era un fastidio che riuscì a tollerare fino a una certa età.

Michele si era pure invaghito di Edith, in terza elementare. Dalla timidezza non gliel'aveva mai detto e la faccenda era finita per sempre inscatolata nella sua soffitta mentale, nell'angolino buio e polveroso delle cose imbarazzanti. Ricordandosi di quella cotta, in seconda media, si era reso pienamente conto del fatto che gli piacessero le ragazze.

Dopo la prima superiore i genitori di Edith, che avevano iniziato a viaggiare molto per lavoro, decisero di affidare la giovane scalmanata e il fratellino alle cure dei nonni. Edith partì per la Svizzera. L'ultima volta che lei e Michele si videro fu una calda sera di luglio, infestata dalle zanzare. Presero un gelato, chiacchierarono come al solito e il giorno dopo, senza preavviso, lei lo chiamò piangendo dal treno. “Sto andando in Svizzera, Michi. Odio quei due stronzi.”

Non si videro più. Durante i primi mesi di lontananza si sentirono tutti i giorni su Facebook, poi poco alla volta i contatti si diradarono fino a sparire del tutto, dispersi nei duecento chilometri che li separavano.

E ora Edith era lì, senza più le guance paffute e la lunga treccia di un tempo, ma con un taglio corto, grandi occhiali da sole e il cipiglio deciso di una donna forte. Era cresciuta.

Michi la guardava con gli occhi spalancati, sorridendole felice. Malgrado l'imbarazzo e il sottile velo di distanza, Edith era sempre la stessa. Tutte le sue movenze gli riportarono all'improvviso alla mente i ricordi più disparati, dall'odore della mensa alle elementari ai pigri pomeriggi preadolescenziali passati a masticare cicche e atteggiarsi a emo.

“Ma quando sei tornata? Perché non mi hai cercato prima?”

“Sono qui da settembre, mi hanno rispedita a Brescia perché mia madre ha cambiato lavoro. Non viaggia più tanto, quindi ora ha tempo per prendersi cura di me e Andrea, che ora va alle medie... è diventato uno scassaminchia, sai?”

Michele ridacchiò. Il fratello minore di Eddi gli era sempre stato simpatico. “Che scuola fai?”

“Lo scientifico. Sono in classe con lei”, disse indicando la ragazza di nome Dani, seduta alla sua destra, “e Vale va in quinta nella stessa scuola.”

“Vale? Vale cosa?”, chiese l'interessato, girandosi verso di loro dal sedile del passeggero.

“Dicevo a Michi che andiamo a scuola insieme. Sai che eravamo migliori amiche quand'eravamo piccole? Era da anni che non ci vedevamo.”

L'abitacolo si fece silenzioso come dopo una pessima battuta, dopodiché Valentino, facendo finta di nulla, riprese a chiacchierare con Adrian ad alta voce.

“Eddi, mi sono dimenticato di dirti una cosa importante.” Michi aveva storto la faccia in un'espressione di imbarazzo, sentendo lo stomaco torcersi come un panno bagnato.

“Che c'è?”

Sputò fuori tutto il coraggio che aveva, ignorando la tensione. “Sono trans. È una storia lunga da spiegare ora, comunque sappi che sono un ragazzo, ecco tutto. Mi faccio dare del maschile da un annetto circa e tutti quelli che mi conoscono fuori dalla famiglia mi chiamano Michele.”

Ci fu qualche istante di silenzio in cui Michi mise su un cipiglio duro, un muro su cui far schiantare il biasimo di Eddi nel caso si fosse manifestato.

Lei, infatti, aggrottò la fronte per qualche secondo. Lo guardò negli occhi, imperscrutabile, per un lasso di tempo in cui Michele potè solo tacere, guardare altrove e lasciare che un velo di sudore gli appiccicasse la maglia alla schiena.

“Perché non me l'hai detto prima?! Mi hai fatto fare una figura di merda.”

La sua amica d'infanzia gli sorrideva con candore, facendolo sentire un completo imbecille. Di cosa si preoccupava, alla fine? Ogni anno sempre più persone aprivano la mente alle diversità sessuali, non aveva senso prendersi un coccolone ogni volta che confessava a qualcuno di essere transgender. I suoi compagni di classe non avevano reagito nel migliore dei modi, era vero, continuando a dargli del femminile e guardandolo allarmati se si azzardava a posare innocentemente gli occhi su di una ragazza, ma non l'avevano nemmeno insultato o picchiato. E ora la sua amica l'aveva accettato come nulla fosse.

Scoppiò a ridere, sentendosi in colpa per aver sospettato dell'apertura di vedute di Eddi.

“Sei sempre il solito.”

 


Buonasera, gentili lettori.
Il capitolo di oggi, in realtà, l'ho finito un paio di settimane fa, ma ho avuto tempo di metterlo online  solo oggi causa scuola e stanchezze varie.
Non ho molto da aggiungere, se non: vi vedo, lettori silenziosi! So che una quindicina di persone segue la storia e qualcuno l'ha addirittura messa tra i preferiti, ma non vedo molti commenti... vi prego, recensite. Non è che se non lo fate non continuo la storia, no, non sono il tipo da ricattare la gente in questo modo e in ogni caso ho intenzione di finire la storia a prescindere dal suo seguito. Però... ecco, le recensioni mi renderebbero felice e scrivo più volentieri se so che qualcuno attende aggiornamenti e si è appassionato alla fic. Quindi, please, lasciate un piccolo commento! E ricordate che sottolineando i miei punti di forza e -- soprattutto -- i miei errori mi aiutate molto ad alzare il livello della storia.
Passate una buona serata, folks.
- Knet

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Knetgummi