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Autore: Feynman    16/09/2015    4 recensioni
Gallipoli.
Marina vive a Roma, ma a Gallipoli c'è sua madre.
Serena vive a Firenze, e anche sua madre è a Gallipoli - come tutta la sua vita, d'altronde.
Serena e Marina erano Schiele perché avevano colore.
***
Finchè l'uomo avrà occhi, avrà respiro,
vive la mia parola, e in lei sei vivo.
***
[Prequel di "Siamo Soutine e partecipante al Contest “V’è un piacere nello scrivere”, bandito da Chloe R. Pendragon e AmahyP sul Forum di efp]
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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IV.

 
 
Di binari morti, la stazione di Gallipoli ne aveva più di uno.
Marina non aveva fatto domande a Serena sul perché, la sua ultima sera lì a Gallipoli, avesse deciso di portarla alla stazione dei treni. Avevano comprato un paio di pezzi di pizza, una bottiglia di vodka e Serena aveva pensato alle sigarette anche se Marina le aveva detto che avrebbe preferito del Jack Daniel’s ma Serena le aveva detto che non le bastava il whiskey, per ubriacarsi. Erano risalite in moto e avevano raggiunto la stazione, quasi alle undici della sera. Germana non aveva trovato da ridire, quando le aveva beccate a baciarsi, sotto la finestra della camera di Marina e Carlotta, mentre suo padre, durante la classica conversazione su Skype settimanale, le aveva detto che avrebbero fatto i conti. L’indomani, quindi, Marina sarebbe tornata a Roma e Serena se ne sarebbe tornata a Firenze, al suo appartamento, dai suoi amici, alla sua vita da ventenne senza una vera aspirazione di vita.
In quel momento, però, erano solo due giovani donne stese sull’erba rada di una stazione morta una con la testa sulla clavicola dell’altra e fissavano il cielo stellato e sentivano l’odore del mare, poco lontano. Erano in silenzio: Marina sbocconcellava la pizza, senza un reale interesse a farlo e Serena aveva già acceso la terza sigaretta della nottata.
«Come sarebbe, se avessimo più tempo?» le chiese Marina, d’un tratto, alzandosi dall’altra e incrociando le gambe. Serena sospirò, prese una boccata di fumo e lo buttò fuori, continuando a guardare il cielo. «Probabilmente ti annoieresti. Io mi annoierei e finirebbe male».
«Non potremmo farla diventare una cosa… seria?».
«Dovresti iniziare a fregartene della gente, per davvero però. Dovresti permettermi di abbracciarti e baciarti in pubblico, di parlare con tuo padre e sputargli in faccia. Dovremmo prendere un appartamento assieme, magari a Parigi…».
«Suona bene».
«Suona come un’utopia, dear» sussurrò Serena, accarezzandole una guancia e guardandola dal basso.
«Vale la pena di sognarle, le utopie».
Serena si tirò su, la guardò negli occhi e le posò un leggero bacio sulle labbra che decise di interrompere quando Marina le posò la mano sulla guancia, per approfondirlo. «Non iniziare adesso a parlare come gli artisti, dear» le disse, sorridendole debolmente.
«Quindi cosa dovrei fare? Dimenticare tutto questo? Dimenticare… le cose che mi hai detto?».
Serena sospirò e prese tra le sue mani quelle di Marina che erano fredde e leggermente sudate. I lampioni del lungomare Marconi illuminavano un pezzo della ferrovia e si sentivano, in lontananza, gli schiamazzi della gente che passeggiava. «Voglio solo dirti di non contarci troppo, Marina. Tu sei bellissima, io mi sono innamorata di te in neanche un mese… ma sei appena nata e non puoi precluderti un’intera vita per colpa mia».
«Roma e Firenze non sono così lontane, Serena! Ormai ho diciotto anni e posso prenderlo un treno, da sola!» protestò Marina, sottraendosi alla presa di Serena che si ritrovò a sospirare, di nuovo, e a prendere un sorso di vodka.
«Lo so che non saremo così lontane, Marina. Tu… promettimi solo che non penserai, a me, come alla tua ragazza, okay?» le chiese, sorridendo. Marina intravide gli occhi grigi e scintillanti di Serena e sentì, nuovamente, le sue mani sul viso. Stavolta, Serena l’avvicinò e la baciò più profondamente, Marina aprì le labbra ed accolse la lingua dell’altra in un lungo accarezzarsi che tolse il fiato a entrambe.
Si staccarono con uno schiocco umido e Serena posò la sua fronte su quella di Marina e le sfiorò la punta del naso, con le labbra. «Potremmo provare ad essere amiche, nell’attesa».
«Mi piacerebbe».
«Cosa c’è di meglio di una buona e solida amicizia, con l’aggiunta di qualche scopata?».
Marina rise, forte e per la prima volta da quando la conosceva, Serena non la vide coprirsi la bocca per soffocarla o per renderla più gentile. Marina era bella – bella davvero. Le sarebbero mancati, a Firenze, i suoi occhi da cerbiatta color nocciola, le sue dita sempre sporche di tempera o grafite, i lunghi capelli biondi che amava intrecciarsi attorno al polso e tirare indietro per baciarle e succhiarle la pelle del collo, i suoi seni piccoli che coincidevano così bene con i palmi delle sue mani. Le sarebbe mancato l’odore di Marina così salato, dolce e amaro assieme. Sapeva di caffè, di mare e di tempere a olio. Le sarebbe mancato quell’animo d’artista perennemente corrucciato e malinconico che si illuminava non appena le concedeva di disegnarla, anche nuda.
«Facciamo un gioco» le propose Serena, poggiando la testa sull’incavo lasciato dalle gambe incrociate dell’altra.
«Che gioco?».
«Un gioco che faccio da sola e mai così spesso quanto vorrei. Ai miei amici non piace, ma voglio proporlo a te…».
«O-okay…».
«Io ti dico due parole, che fa loro non hanno alcuna connessione logica o di altro tipo, tu ne devi scegliere una e devi darmi una motivazione e devi articolarla. Ma non deve essere per forza coerente: un’immagine, una sensazione che ti dà la parola… una cosa così, capito?».
«Credo… credo di sì».
«Bene!» esclamò Serena, battendo le mani. «Piazza o penna?».
«Penna» rispose Marina, dopo poco. «Mi fa pensare a storie scritte a mano, con un calamaio sopra a fogli di pergamena, fiabe narrate attorno al fuoco, piume di corvo e ali di albatros… e notti di luna piena» le spiegò, in un sussurro. Lo raccontò al vento che veniva dal mare e glielo donò. Marina non capì il senso del gioco delle parole, ma le sembrò di star raccontando lei stessa una storia, attraverso delle immagini e le stava consegnando all’altra che ne avrebbe fatto musica e parole. «Tu, invece?».
«Piazza. Odora di estate e mi fa pensare alle ginocchia sbucciate, a partite di calcio con palloni mezzi sgonfi e bambine che vogliono diventare donne, anche se non è ancora il loro tempo e non sanno quanto lo rimpiangeranno. E zucchero filato» le disse Serena, tutto d’un fiato. Lei, quel gioco, lo conosceva bene e sapeva che ci si poteva bruciare come con il fuoco. Era intimo, quel gioco e pericoloso – come tutte le cose intime.
«Sei più realista di me» notò Marina, sorridendole e accarezzandole uno zigomo.
«Tu vivi in un altro mondo, Marina. È normale e giusto, che tu non lo sia».
«Puoi promettermi che tutto questo, anche da amiche, non cambierà?».
Serena rimase in silenzio e si perse a guardarla negli occhi, con la debole e lontana luce dei lampioni e quella della luna, in alto, che copriva la flebile luce di tutte le altre stelle. La guardò a lungo, per non scordarsela e per imprimersi bene la sua immagine, in quella sera d’agosto, per riportarsela alla memoria quando avrebbe sentito la sua mancanza, quando le sarebbe venuta la voglia di baciarla e di affondare dentro di lei, per sentirsi di nuovo piena. Avrebbero fatto sesso di nuovo, anche quella notte, perché voleva ricordarsi ogni singolo sospiro che le aveva procurato, i gemiti che le vibravano nelle costole e le gocce di sudore che le avrebbero solcato la pelle calda e arrossata da baci, morsi e graffi.
Marina le aveva fatto vedere il quadro che aveva dipinto – perché è ancora in vacanza, e poteva permettersi di dipingere – e c’erano solo loro due, con uno sfondo giallo e marrone, come se del caffè ci fosse caduto sopra. Erano due figure abbracciate e fuse fra loro in un delirio di biondo, rosso, fuoco e neve. C’era la pelle bianca di Marina, gli occhi color cenere di Serena, i capelli di grano e le labbra rosso sangue, i capelli di brace e le dita di tempera. C’erano loro due, che facevano male all’anima e, così fuse, così assieme, così una dentro l’altra si facevano del male a vicenda perché, Marina glielo aveva spiegato, loro due erano come un quadro Schiele dove sono gli spigoli dei corpi, i lati non visti, gli occhi profondi ed i colori a fare male. Sono i soggetti, a farsi male, in un quadro di Schiele e loro erano Schiele, perché non sarebbero potute essere altro. Serena, allora, le aveva detto che lei non avrebbe voluto farle del male e Marina le aveva risposto che, alcune volte, era con il dolore che ci si sentiva vivi.
Era per questo che Serena non poteva prometterle che non sarebbero cambiate. Lei sapeva cos’era, ma Marina? Il dolore era vitale. Marina era dolore, allora Marina doveva essere vitale perché altrimenti niente avrebbe avuto più senso.
«Non ci pensare» le disse Marina, senza aspettare una risposta. «Ce ne fottiamo, del mondo».
Serena allungò una mano, la posò sulla carotide e rimase così, a sentire sotto i polpastrelli, la vita dolorante di Marina che continuava a respirare e che la pregava di fottersene delle domande che le proponeva il suo stesso cervello.
Marina le strinse il polso e cercò di rallentare il suo respiro, per sincronizzarsi con il cuore tranquillo di Serena, per berne la serenità e per chiederle di non dimenticare mai quel momento, anche se avrebbe fatto male ad entrambe. Se Serena non sapeva dove si sarebbero incagliate, Marina sperava che avrebbero continuato una lunga e tranquilla navigazione in mare aperto. Non le poteva chiedere di amarla per sempre, quando sapeva che non si sarebbero viste per tanto tempo ancora, quando sapeva che suo padre le avrebbe dato di nuovo contro, quando sapeva che avrebbe riempito alla rinfusa la sacca della palestra e avrebbe preso il primo pullman, dalla stazione Tiburtina, verso Gallipoli, per fuggire da sua madre. Sapeva che, una volta alla stazione, avrebbe preso un treno per Firenze e si sarebbe dimenticata anche di sua madre e che ci sarebbe stata solo Serena, la sua vita da reietta e una fantasia adolescenziale che sapeva di menta, fumo e tempere ad olio.
«Ti posso promettere che non mi dimenticherò mai di te, Marina».
«Questa è la miglior promessa d’amore che puoi farmi, Serena».
 
 
 
 
 
Ti amo.
Ti amerò.
Ti amavo.
Ti amai.

Ti amerei






 
N.d.A
Eccomi qui, con l'ultimo capitolo di questa storia che, personalmente, ho adorato talmente tanto da essere indescrivibile. Marina e Serena, per me, contano molto di più di qualsiasi altro personaggio di cui abbia mai scritto - in solitaria. 
Ho concluso anche questa che, in realtà, era già finita... ma, dettagli. 
Spero che sia piaciuto anche a voi, questo percorso anche se è stato incredibilmente breve. 
Magari, un giorno, torneranno anche Serena e Marina. 

Grazie a tutti quelli che hanno letto, recensito e inserito questa storia nelle liste. 
Feynman
   
 
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