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Autore: Lost In Donbass    20/09/2015    1 recensioni
Lei si chiama Jimmy Sasha, ha un senso dell'umorismo molto particolare, e solitamente è una che ci va giù duro quando picchia.
Lui si chiama Tom, non è particolarmente emotivo, combina un sacco di guai, e come se non bastasse non ha capito un cavolo della faccenda.
L'altro si chiama Bill, si sente colpevole per tutto quello che sta combinando, è pieno di sensi di colpa, e ha un feticismo speciale per gli stivali.
Sfortuna vuole che Tom si innamori di Jimmy. Ma a lei piace Bill. E Bill ama senza riserve Tom. Se poi ci aggiungiamo un Georg filosofo e un Gustav preveggente, il fantasma di una gemella defunta e tanta, tanta amara ironia, cosa potrà mai succedere?
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest, Triangolo
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WE TURN YOUR GAME INTO A FIGHT
 
CAPITOLO PRIMO: INCONTRI IN PERIFERIA
 
-Signorina, lei è libera.
La tizia con la stretta uniforme da poliziotta mi lancia un’occhiata preoccupata, mentre io la guardo da sotto la frangetta, tormentandomi le mani callose, seguendo i suoi movimenti lenti e misurati, come se fosse abituata a comportarsi in questo modo.
-Questi sono i suoi effetti personali.
Sta evitando il mio sguardo, lo so, e le da fastidio il fatto che io la fissi insistente. Mi allunga la mia roba, stringendo tra le mani un pacco di fogli che presto dovrò firmare per il mio rilascio.
-Un pacchetto di gomme da masticare.- mi consegna le mie Brooklyn alla menta, che io intasco con un mezzo sorriso. Senza di loro, mi sento persa.
-Un fazzoletto.- la smorfia schifata che fa dandomi il mio fazzoletto di stoffa pieno di moccico è tragicomica. A un certo punto, si può avere un raffreddore. È legale, no?
-Una boccetta di disinfettante per piercing.- spero che non sia successo niente al mio anellino al naso, siccome ieri non me l’hanno fatto disinfettare.
-Un anello.- me lo rinfilo al pollice, l’unico dito a cui infilo anelli, e soprattutto dove infilo questo. Si è opacizzato l’argento, dannazione.
-Una foto … ?- l’ultimo oggetto che mi hanno fregato questi ipocriti tutori della legge è quello che prendo con più forza, infilandomela subito nella tasca dei jeans.
-Firmi qui.
Mi da una penna e mi indica dove firmare su un foglio ordinatamente battuto a macchina; firmo con lentezza esagerata, osservando di sottecchi la poliziotta, che continua a guardarmi come se potessi da un momento all’altro saltarle addosso e ucciderla a morsi. Beh, potrei esserne capace. Avevo morso un mio compagno alle elementari, quindi a maggior ragione dovrei saperlo fare adesso. Ma non lo voglio fare; primo, lei non mi ha fatto nulla. Secondo, non ci tengo a finire in cella di nuovo e questa volta per tanto tempo. E ben che meno voglio che la mia ex psicologa venga in qualche modo a conoscenza del fatto che sono ricaduta nella guerra dei morsi, come amo definirla io. Oh no, gente, basta guerra. Abbassate le armi, rinfoderate le unghie, mi arrendo solennemente. D’altronde, devo ancora provare a vederli, devo ancora fare un casino di cose prima di farmi rinchiudere da qualche parte, che sia un carcere, un ospedale, o un centro di assistenza.
-L’uscita è alla sua destra.- continua la poliziotta, indicandomi una porta, e la vedo quasi sollevata quando mi rinfilo il mio berretto e la giacca che mi avevano appeso a un appendiabiti di alluminio. Le faccio un gesto di saluto, giusto per far vedere che anche i carcerati sanno la buona educazione. Ehi, ci tengo a far bella figura, io! “Charme, e violenza. Che accoppiata incredibile”, diceva la mia ex psicologa, e aveva dannatamente ragione. Charme e Violenza. Peccato che ora lo charme e la violenza, da cose ben distinte che erano, si sono dovute fondere in una sola persona, che deve tenersele dentro, e farle convivere. “Mordi” mi dice una. “Bacia” mi dice l’altra. “Picchia” urla una. “Ama” sussurra l’altra. E allora io che devo fare? Mordere mentre bacio? Picchiare la gente che amo? Sinceramente, quando hai due te dentro, la vita si complica un sacco, perché devi decidere chi far uscire al momento giusto, devi regolarle, devi accoppiarle. Insomma, è un po’ come convincere una principessa casa chiesa, sempre vissuta in una bolla di cristallo a sposare un pirata sadico e violento, che non sa manco leggere. Non so nemmeno io spiegarlo con belle parole e normalità, ma non credo che alle persone interessi più di tanto capire come può cavarsela una ragazza con Charme e Violenza alberganti contemporaneamente in se stessa, lottando per vincere il primo posto dentro.
Infilo le mani in tasca, e sento la foto piegarsi sotto le mie dita. Sorrido, leccandomi l’anellino che ho all’angolo della bocca, strascicando i piedi sul selciato della città che conosco come le mie tasche, guardo il cielo di un triste azzurrino post pioggia, scolorito, smorto. Quel cielo che uno manderebbe volentieri a spigolare se non fosse che ci è nato sotto, e che deve sopportarlo perché, dai, ti ha dato i natali. È pur sempre casa tua, quel cielo e quelle strade umide e così accuratamente pulite ogni mattina. A chi verrebbe in mente di maledire la propria casa? Vorrei dire “a me, dannazione, a me verrebbe in mente”, ma Charme prende il sopravvento e sussurra, con la sua vocina dolce “Dai, lo sai che mentiresti a te stessa”. Quindi, ok, diamo ragione a tutte e due dicendo “Odierei la mia città se non fosse che è casa mia”, che è un dannato controsenso, ma va bene così. Le voci si quietano, e io mastico con gusto la mia gomma alla menta, che si appiccica alla bocca come un collante.
Mi scosto la frangetta infantile che ho sul viso, non l’ho ancora tagliata e non credo lo farò mai. Diciamo che non conto di invecchiare, perché una vegliarda con la frangetta farebbe un po’ ridere. Anzi, credo proprio che non arriverò manco ai quaranta, messa come sono.
Accelero il passo, calcandomi meglio il berretto sulla fronte, sputando un capello che come al solito mi è finito in bocca e passandomi una mano sul viso.
In realtà spero di non incontrare il tizio con cui ho fatto a botte ieri sera, e che mi ha fatta sbattere in celle per una notte intera. “Per accertamenti, signorina”, come aveva detto il poliziotto grasso che mi aveva messo le manette. Certo, mi sembra logico prendersela con la ragazzina magra con la frangetta, invece che con il ragazzone massa di muscoli. Con la piccola differenza, che magari la ragazzina non l’avrebbe mai pestato se lui non avesse provato ad allungare le mani.
Sbuffo, facendo una bolla con la gomma e lasciandola scoppiare con un sordo pop. Non c’è nessuno per le strade, di mercoledì mattina presto. I bambini sono a scuola, i ragazzi all’università o a scuola a loro volta, gli adulti a lavorare, i vecchi in casa a rammendare o a borbottare. E poi ci sono io, che vago come un’anima in pena, dando calci al vuoto, nel quartiere in cui sono nata, quello in periferia, quello lontano dal mondo, quello dove ci sta la gente storta, quello dove la gente perbene non ci va. Quello dove Tarantino gira i suoi film, dove avresti preferito non nascere. Quello dove la Violenza è insita dentro di te quando sei ancora nella pancia della mamma. Quello della gente cattiva, di quelli che spacciano, che fanno del male, quello della gente che sarebbe meglio non avere in giro. La tiritera è sempre quella, che sia a Chicago, a Napoli, a Londra, a Pechino, a Mosca o a casa mia. In Germania. In quella simpatica città persa nella pianura. Chiamasi Magdeburgo.
Sono troppo stanca per andare in bicicletta o sullo skate, se ne avessi uno sotto mano, ma sono anche troppo stanca per farmela tutta a piedi. Non voglio andare a casa. Voglio sentire ancora l’aria fresca di una pioggia recente sulla pelle, voglio respirare un po’ del profumo della pianura, voglio sgranchire le gambe indolenzite da quella notte in cella, sveglia a cercare di vedere le stelle dalla finestrella, senza vedere altro che un lampione mal funzionante e due falene ballerine. Potrei prendere un mezzo pubblico se avessi i soldi a portata di mano e se fossi vicina a una qualche stazione degli autobus. Ah, dimenticavo. È mercoledì, e per qualche motivo a me sconosciuto gli autobus a Magdeburgo in questo giorno non vanno.
Bene, mi devo sgranchire le gambe, e tutti sembrano d’accordo su questo fatto, quindi mi avvio verso il centro città, continuando a far scoppiare la gomma e strascicando i piedi, tentando di darmi una parvenza di ordine ai capelli, arruffati come quelli di una megera. Mi specchio in una pozzanghera che sta per asciugarsi sul bordo della strada, e studio velocemente il mio viso, studiandone i contorni rotondi, fissando la mia immagine nell’acqua sporca, che mostra due occhi semi chiusi, assonnati, leggermente stupefatti anche se non so il motivo. I capelli mi cadono scompostamente sul viso, oscurato dall’ombra della visiera del berretto da baseball. Me lo aveva regalato mamma per il mio decimo compleanno, incartato alla perfezione, pulito, nero con la scritta gialla. A lei invece era arrivato un cappellino con il pon pon bianco latte con i brillantini neri. Non mi separerei mai dal cappello, per tutto l’oro del mondo. Continuo a studiarmi, passando oltre a qualche livido e a qualche taglio crostificato sulle mani e sulle braccia, cercando di mettermi a posto i capelli, di legarli. Mi piace guardare la mia immagine ballerina e instabile, che si confonde e poi si rimostra. Seguo con gli occhi la mia maglietta sudicia, i jeans che mi arrivano a metà fondoschiena, le scarpe sfondate incrostate di tutto quello di cui possono essere incrostate. Ripasso il bracciale borchiato che ho appeso al polso, i piercing che mi adornano il viso. Sfarfallo gli occhi, per svegliarmi dal mio intorpidimento mattutino, per darmi l’impressione di essere bella sveglia, di far brillare a sufficienza le iridi violette che mi sono toccate in sorte dalla Natura.
-Ehi, tutto ok?
Se fossi una persona normale, sobbalzerei, tratterrei un urletto, mi girerei di scatto con una mano teatralmente messa sul cuore. Ma non faccio esattamente così. O meglio, mi giro di scatto, ok, ma con i pugni già pronti per fare una bella scazzottata, di quelle per scaricare i nervi, per sfogarsi.
-Calma, tesoro, metti giù quelle mani.
Il ragazzo davanti a me sorride, anche se è leggermente indietreggiato, con le mani in posizione di difesa. Abbasso i pugni subito, per due semplici motivi: uno, non avrei le forze per affrontare una menata con un tizio che avrà la mia età, alto il doppio di me, e con l’aria di essere uno con una certa forza fisica. Due, perché mi sembra maleducato accogliere un possibile aiuto con in versione “bambina cattiva”. Che poi dai, non prendiamoci in giro: non faccio paura a nessuno.
-Ehm, scusa, io … sì, sto bene, grazie.
Lo guardo negli occhi, grandi, colore simile a quello del caramello fuso, di quello che metti sulla panna cotta, una lunga coda di dreadlocks che penzola giù da un berretto simile al mio, dei vestiti da far invidia ai miei. Sorride, un sorriso chiaro, pulito, splendente. Wow, non gli manca un dente. Che figata.
-Ti ho vista china sulla pozzanghera, pensavo stessi male.- mi dice, scuotendo i capelli. Aspetta però. Io sto qui lo conosco, anche se sono sicura che non viva da queste parti. Cioè, io riconosco più o meno chiunque viva in periferia, voglia che sia il modo in cui parla, in cui si muove, in cui sorride. Beh, lui non lo è. E ora la grande domandona da un milione di dollari: se non è di qui, come faccio a conoscerlo?
-Oh, ok, grazie della preoccupazione.- dico, arrotolandomi una ciocca attorno al dito. “Buona educazione, ricordatelo”. Mi suonano in testa le parole di mia madre, e decido di darle ragione, per una volta nella vita. – Mi chiamo Jimmy Sasha Spiegelmann, piacere.
Lui sorride e mi stringe la mano, che sarà il doppio della mia, callosa, forte.
-Tom Kaulitz, piacere mio.
Aspetta. Ma io sto nome lo conosco. Ma porca polizia, certo che so chi è sto pezzo di figo che mi stringe or ora la mano! È il chitarrista dei Tokio Hotel! Certo che devo proprio essere ai minimi termini se non riesco a riconoscere alla prima una delle persone più famose della Germania … chissà come sono messa male allora. La benedetta cella di stanotte mi deve aver disastrato testa, occhi e capelli. Posso anche dire addio alla mia già precaria sanità mentale. Evvai …
-Se ti chiedessi giusto ora di farmi un autografo sul braccio con il mio sangue siccome non ho penne a disposizione, lo faresti?- chiedo, raddrizzando la schiena e tentando di sembrare più alta di quello che sono.
-Credo che magari mi inventerei un modo migliore di farti un autografo.- scoppia a ridere, chinandosi un po’ su di me. Viva le tappe.
-Beh, forse potrebbe bastarmi il poter dire “Tom Kaulitz mi ha chiesto come stavo, e nonostante mi abbia vista nella mise più scassa che abbia, è stato epico”.
Mi sto chiedendo da dove mi esca tutta questa ironia e simpatia, che solitamente sfodero solo quando sono sveglia e riposata e che è venata anche in quei casi da un acido sarcasmo. Forse incontrare uno dei tuoi idoli ti cambia veramente la vita, lei lo diceva sempre. L’ho incontrato per tutte e due, tesoro.
-Che hai sulle braccia?- mi indica con un gesto del capo i tagli sulle braccia, e mi rendo conto di essere arrossita come un pomodoro bollito. Mi tiro immediatamente giù le maniche della giacca di jeans, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi; non mi piace dover dire di aver fatto a botte giusto la sera prima. Mi vergogno, in qualche modo, mi sento ricoperta di una patina di cattiveria e commiserazione, come se fossi qualcosa di già perso e irrecuperabile, qualcuno che deve essere ricoverato.
-Sono caduta dalle scale.- mento spudoratamente, sorridendo. Mi chiedo come faccia a essere così brava a dire bugie a raffica, senza pentirmi, senza farmi problemi. Forse è grave essere una bugiarda patentata.
-Mi dispiace. Vivi qui?
Sospiro impercettibilmente, perché più lo guardo più mi rendo conto che è ventimila volte più bello che nelle foto. Oh, non che sia brutto. Ma così è dannatamente vivo, realistico, vicino. Se non gli avessi stretto la mano potrei pensare che questo sia un sogno meraviglioso, come ne ho fatti a milioni. Se non potessi vedere le microscopiche imperfezioni che fanno la vera bellezza di un viso, potrei credere di essere sotto gli effetti di una brutta droga. Se non avessi sentito la sua voce rimbombarmi nelle orecchie, così splendidamente unica, potrei semplicemente auto convincermi di essere arrivata in Paradiso.
-Sì.- rispondo, anche se ammetto di non star facendo una grande figura con il mio idolo da anni a questa parte. Decido di cambiare velocemente argomento e di fare la domanda che più mi preme adesso – Non vorrei sembrarti maleducata, ma che ci fa il chitarrista dei Tokio Hotel nella periferia più losca di Mag?
Lui ride, scuotendo un po’ i dreadlocks, lanciandomi un’occhiata divertita, e devo ammettere, un po’ superiore. Beh, non che nelle foto non si vedessero gli sguardi suoi e di Bill come se fossero i nuovi dei di questo mondo, però dal vivo fa più effetto. Ammetto di venerarli come se davvero fossero dei, e anche lei lo faceva quasi peggio di me. Però dà fastidio vedersi uno, che per quanto è il tuo mito, per quanto scrivi il suo nome dappertutto, per quanto appendi i suoi poster alle pareti della stanza, ti fissa con un velo di superiorità. O perlomeno, a me non piace, mi fa sentire ancora più piccola di quello che già io sia.
-Passeggia come tutte le persone di questo mondo.- ridacchia Tom.
-Mi fa piacere sapere che anche gli dei passeggino.- rispondo, e mi stupisco di quanto sia diventata simpatica in questo momento. Effetto Kaulitz, effetto comica.
-Ogni tanto scendiamo dal nostro trono di cristallo per vedere come se la passa la gente comune.- sorride, e ok, un punto a Tom. Non pensavo che avesse senso dell’umorismo, pensavo l’avesse perso del tutto essendo famoso. Avevo ragione a idolatrarli senza riserve. – E tu che fai?
-Mai sentito parlare di Diogene? Lui cerca l’Uomo, io cerco Tom.
-A parte che non so assolutamente chi sia Diogene, vedo che tu hai raggiunto il tuo obbiettivo.
-Stranamente sì. Anche se la periferia non è un gran posto per farsi un giretto.
Ci guardiamo negli occhi, intensamente, due sorrisi stampati in faccia, il suo da copertina, il mio da inutile umano.
-A parte delle buffe fan che si imbelinano dalle scale e che parlano di strani personaggi, sono piuttosto sicuro di non incontrare nessun fotografo con gli ormoni a mille e nessuna fan “usuale” che farebbe notare la mia presenza per tutta la città. È difficile essere famosi.- ha gli occhi leggermente inclinati all’insù, impercettibilmente a mandorla.
-Beh, allora sei fortunato. Non ho visto nemmeno un gatto in giro a quest’ora. Ci siamo solo io e te.
Mi rendo conto troppo tardi del doppio senso della mia frase, contando che non voglio far la figura della ragazza arrapata. Peccato che io faccia un sacco di doppi sensi piuttosto volgari senza rendermene minimamente conto, anche perché io ci vedo solo il lato normale della vicenda, mentre gli altri, chissà come mai, ci vedono sempre il lato sporco. La solita fortuna dei principianti …
-Non avrei mai detto che mi avresti voluto violentare!- esclama Tom, che devo ammettere, è un pessimo attore, ma che ha un modo di fare decisamente grandioso. Bene, ora sono davanti a un bivio arduo: lo violento, oppure riparo alla meglio la mia stupidissima affermazione? Opto per un misto tra le due cose.
-No, aspetta, non intendevo quello. Dicevo solo che non c’era nessun altro per la strada, ma non volevo approfittarne. Cioè, ammetto di averci pensato, ma era un pensiero così, senza capo ne coda!
Ottimo lavoro, Jimmy, così se accetta la scusa bene, se vuole andare oltre bene comunque. Ho creato un ottimo tavolo da gioco, in cui entrambi possiamo decidere al meglio che carte giocare. L’ho detto che sono la campionessa di Cirulla del quartiere?
-Dovresti stare attenta con la lingua, Jimmy Sasha.
Ok, mi sta prendendo bellamente in giro. Grandioso, la mia superstar mi dileggia, dovrei mettermi a piangere come una fontana in questo momento. Invece rido. Perché rido? Beh, intanto perché sono strana, e su questo non ci piove. E poi perché mi fa ridere lui, il modo in cui parla, in cui muove le mani che sono abituata a veder andare su e giù sulle corde della chitarra, in cui sorride. Se avessi una colonna sonora incorporata come nei film, adesso si dovrebbe sentire “I’m your biggest fan, I’ll follow you until you love me …” con tanto di cuoricini che mi svolazzano attorno.
-Vedrò di mandare la mia lingua a lezioni di grazia. E comunque, chiamami anche solo Jimmy. O solo Sasha. Oppure anche JdoubleS.
Tom ride di nuovo, e io faccio scoppiare la gomma da masticare.
-Non saprei spiegarmi il motivo del perché io mi senta piuttosto ridicolo a stare piantato come un lampione in una strada deserta a disquisire con una nostra fan, come se fossimo amici da una vita, senza preoccuparmi minimamente di eventuali fotografi nascosti in giro a farmi le foto, pronti a scrivere qualche insulso commento su di noi.
-Io non saprei spiegarmi il motivo del perché sono qui per strada, con davanti Tom Kaulitz, ovvero il mio dio, a chiacchierare amabilmente senza essergli saltata al collo urlando, oppure senza avere avuto un mancamento per la felicità di essere con lui, e senza ancora essere giunta a una conclusione per farmi fare un autografo.
-Beh, posso fartelo sulla carta del chewing-gum. Ho trovato una penna in tasca.
Ottimo lavoro, Tom, geniale. Sorrido, tirando fuori la cartina stropicciata del Brooklyn dalla tasca, allungandogliela il più stirata possibile, e facendo gli occhi a cuore mentre me la firma. Ho il suo autografo. Paradossale, quando eravamo andate al concerto, non c’era stato verso di farcene fare uno, invece ora che sono appena uscita dalla cella ci riesco gloriosamente. Sei felice, bambola? Abbiamo l’autografo!
-Tooooom, idiota, vuoi rispondere sì o no? Mi sto addormentando se non rispondi subitoooo!
Mi giro di scatto, perché, porco lo Stato, questa è la voce del gemello del mio dio, ovvero l’altro da idolatrare e a cui inchinarsi senza riserve. Riconoscerei questa voce splendida, melodica, sottile ma allo stesso tempo ricca, che mi risuona così spesso nelle orecchie, che mi culla di notte, che mi sveglia al mattino. È la voce di Bill, l’amore nascosto del cuore inacidito della sottoscritta.
-E’ la suoneria che quel furbone di mio fratello mi ha messo.- spiega Tom, alzando gli occhi al cielo, prendendo il telefono e smontandomi un sogno.
Basta solo che borbotti un “Che vuoi”, che nella via deserta si spande un urlo talmente forte da far male alle orecchie, e che obbliga il mio caro rasta ad allontanare con una smorfia l’apparecchio dall’orecchio.
-Tooooom, accidenti a te, si può sapere dove sei?
-Bill, calmo, per favore, non strillare.- Tom si passa una mano sul viso, e sembra così pacato rispetto a quel fuoco d’artificio che è Bill, che davvero mi chiedo come possano essere gemelli. Allora non è la ricostruzione per la fama, di caratterizzare così i ragazzi. Sono veramente l’uragano e l’occhio del ciclone.
-Non strillare?! Sono a casa da solo già da due ore!
-Sei maggiorenne e vaccinato, su, non fare ste scene.
-A parte il fatto che la mamma mi ha appena detto che io e te non abbiamo fatto la antitetanica, non puoi mollarmi da solo e non farti sentire per due ore!
-Bill, ti prego, datti una calmata. È successo qualcosa?
-Sì. Hai presente i miei stivali di coccodrillo, quelli argentati, quelli che ho messo al compleanno di Georg?
-Come posso dimenticarmi di quegli orrori?
-Bene, li ho persi.
Vedo Tom sbiancare di colpo, passandosi una mano sulla fronte. Ho come l’impressione che ora si scatenerà la Terza Guerra Mondiale, dal modo in cui mi lancia un’occhiata allarmata. E forse anche io non sono il massimo dell’educazione a stare qui impalata a sentire la conversazione tra due quasi sconosciuti.
-Cosa vuol dire che li hai persi, tesoro?
-Che non li trovo da nessuna parte accidenti!! Vieni subito a casa, recupera i G&G, muovi il culo, fai qualcosa! Mi viene un infarto, un mancamento, un collasso, Tooom!
-Sì, tesoro, stai tranquillo, arriviamo subito.
Mette giù con la stessa identica smorfia che farebbe una persona se gli annunciassero che World War Z è realtà. Mi guarda, e io guardo lui. Allora il mio cantante preferito, quello di cui ho più poster che mobili, di cui so a memoria tutti i tatuaggi dichiarati è un isterico nevrotico sul serio, non è una montatura. Non so se gioire, perché ho amato sempre persone vere e non costruite, oppure disperarmi perché ho donato il mio cuore granitico a una checca psicolabile.
-Ehm, era mio fratello.- Tom arrossisce, e devo dire che è molto carino con le guanciotte imberbi tutte rosse come due mele.
-Si è sentito.- commento. Ok, da quando mi prendo queste libertà?
-Beh, ammetto che ora potrai anche dire che Tom è un vero cafone, ma devo andare da Bill. Senti, è stato bello conoscerti, ok?
-Tu sai come far morire una Alien.- se non fosse che sono particolarmente resistente psicologicamente parlando, sarei svenuta come un birillo. Faccio scoppiare la gomma, e sarebbe tanto bello se lei fosse qui con me a salutare il nostro idolo. Però ci sono solo io, la seconda parte dello specchio, senza poter nemmeno tenere tra le dita la sua parte. Senza potermi tagliare le mani con un suo coccio.
-Ho un’idea.- lo vedo infilare una mano in tasca e poi mi allunga un affare, che io stringo tra le dita leggermente storte – Mi sei simpatica, Sasha.
Io? Che sono simpatica a qualcuno? Domani penso che nevicherà.
-Se vorrai, vieni a questo indirizzo segnato sull’etichetta. Per dopodomani, è un’intervista a una radio di Berlino. Puoi entrare, se vuoi, e ci aspetti; quando usciamo, ti vengo a salutare e ti presento gli altri.
Ok, a questo punto la cosa naturale da fare è svenire nella pozzanghera, oppure urlare eccitata, o anche mettermi a piangere davanti ai suoi occhi scuri.
Invece non faccio nessuna di queste tre cose. Perché se nasci in periferia, impari a non fidarti di nessuno e di niente. Impari a essere un bastardo malfidente. Impari a far uscire la bestia che c’è in te, come un ghiottone della Kamcatka. Impari a mostrarti come quello che sei, a tirare fuori i denti. Impari a smontarti i sogni ancora prima di sognarli. Impari a ucciderti ancora prima di nascere.
-Perché lo fai, Tom?
-Perché sei la prima fan che incontro che non urla, non piange, e non fa domande idiote.
E con questa Verità, da aggiungere al nostro “Vangelo Tokio”, se ne va, lasciandomi lì da sola, in mezzo alla strada umida, sotto un cielo sbiadito e azzurrino, impegnata a fissare la strada dove ha svoltato il dio, scomparendo alla vista. Stringendo tra le dita il biglietto e la cartina della gomma da masticare, che mi esplode in faccia con un altro pop, facendomi quasi sobbalzare nel  silenzio smorto della strada.
 
*****
Ma buonasera Aliens! Bene bene .. eccomi qui con una nuova ff, che spero almeno a qualcuno sia piaiciuta.
TH: Devi aggiornare Breathless!
Io: Ehm, lo so, dai, è quasi finita.
TH: Devi concentrarti su Wont'you be my bloody Valentine!
Io: Lo so, smettetela! Questo è solo un mero esperimento della sottoscritta, per vedere come riesce a scrivere una Het, perdipiù "triangolo", cosa che non ha mai fatto nel fandom! Non perseguitatemi.
G&G: Ti daremo fiducia appena appariremo.
B: E appena mi fai fare la persona in bolla.
T: Io ti do fiducia perchè mi hai fatto subito apparire. 
Io: Ok, uff che vita .... va beh, come vi ho detto è la prima del genere, quindi ve ne sarei grata se mi lasciaste un commento per darmi qualche dritta visto che so che è una storia piuttosto paradossale .... dai, è per farsi due risate in compagnia!
EFP intero: Datti all'ippica, pagliaccia!
Io: ok, scusate, va bene ... comunque vi prometto che i prossimi capitoli saranno mooooolto più belli e profondi. A presto!
TH: Guten Nacht!

 
 
 
  
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