Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: LadyTargaryen    21/09/2015    3 recensioni
Stannis è un uomo distrutto. La sua flotta è andata in pezzi durante la Battaglia delle Acque Nere. Ser Davos, il suo più fidato consigliere, l'unico uomo che chiami amico, marcisce in prigione, con l'accusa di tradimento. Eppure si ritrova a pensare a lui:sa che, sotto molti aspetti, è un uomo e un padre migliore di lui. Soprattutto un padre. Davos, che ha una grande e numerosa famiglia che vive di poco ma con gioia. Davos, che ha donato a sua figlia Shireen un sorriso costruendole una nave giocattolo, quando lui, suo padre, può vederla a malapena. Quando è lui il primo colpevole di quella malattia che l'ha sfigurata a vita. Ma passeggiando sulla spiaggia, s'imbatterà quasi per caso in un ciocco di legno. E si convincerà che, forse, non è troppo tardi per dimostrare a sua figlia, la cosa che ha di più prezioso al mondo, che le vuole bene.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Shireen Baratheon, Stannis Baratheon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un regalo

 

 

 

 

Stannis scalciò via le coperte.

 

Si tirò a sedere, sospirando. Il sangue gli pulsava nelle tempie, come mille piccoli martelli a percuotergli il cranio: erano minuti come aghi ma pesanti come mazze ferrate. Si passò le mani sul viso e strofinò gli occhi stanchi, gonfi di sonno arretrato e ricolmi di tutta la stanchezza che sentiva in corpo. Strinse con forza la radice del naso, tra pollice e indice, tentando di scuotersela di dosso, ma inutilmente.

 

Non era certo la prima volta che, nonostante la spossatezza, la notte non sembrava incline ad accoglierlo concedendogli qualche ora di riposo. Ormai era dalla Battaglia alle Acque Nere che non gli riusciva di chiudere occhio che per pochissimo tempo; alcune notti, come quella, non gli era accordata neppure quella piccola grazia. Era un uomo infaticabile, di ferro, ma persino le sue, di energie, conoscevano una fine. Poche ore, non domandava che poche ore di sonno. Gli sarebbero bastate, aveva imparato sin da ragazzo a temprarsi, corpo, mente e spirito. Eppure quella disastrosa, cocente sconfitta era quasi giunta a spezzarlo.

 

Chinò il capo sulle ginocchia, le mani tra i corti capelli anzitempo ingrigiti e madidi di sudore. Strinse i denti, mentre nella sua mente le immagini della battaglia ritornavano in tutta la loro impietosa nitidezza.

 

Le navi che si schiantavano, si speronavano, andavano in pezzi, il clangore ora acuto ora grave del metallo contro il metallo, l'imperversare dell'altofuoco che inghiottiva inesorabile ogni cosa.

 

Le urla strazianti degli uomini cui abiti, capelli, perfino armature, avevano preso fuoco a trasformarli in torce umane, i volti trasfigurati dal dolore mentre si buttavano in mare a cercare una salvezza inesistente.

 

Il puzzo della carne e del legno che bruciavano in un divampare verdognolo sul nero tetro delle acque della baia.

 

La consapevolezza, l'amaro, drammatico realizzare che la sua flotta, la sua armata, i suoi uomini, quei bravi uomini coraggiosi, tutto stava morendo dinanzi ai suoi occhi impotenti, inesorabilmente.

 

Che tutto era perduto.

 

Che la colpa di tutto non era che sua.

 

Perché non aveva considerato la possibile minaccia dell'altofuoco, perché non aveva creduto che le truppe dei Tyrell, anziché rimanere nella neutralità come avevano deciso alla morte di Renly quando si erano rifiutate di unirsi a lui, avrebbero scelto di spalleggiare i Lannister.

 

Perché lui era un soldato valoroso, un marinaio esperto, un veterano di molte battaglie.

 

Ma non era abbastanza.

 

“Non abbastanza.” Nulla al mondo aveva mai avuto il potere di ferirlo come quelle due semplici parole. Era cresciuto sentendosele ripetere, ad ogni momento: quando lui e Robert, ancora ragazzini, si sfidavano alla corsa, alla lotta, quando assieme imparavano a nuotare, quando duellavano con le loro prime spade dalla punta smussata. Ti destreggi bene, Stannis, gli dicevano, ma non abbastanza. Guarda tuo fratello, aggiungevano. E lui guardava, con tutta l'invidia del fratello minore meno dotato, la rabbia dell'uomo che sa che nella vita sarà sempre secondo.

 

E vedeva Robert che rideva.

 

Rideva quando durante l'addestramento lo sconfiggeva e lo buttava nella polvere.

 

Rideva quando correvano ed arrivava per primo, mentre lui era un passo indietro, sempre un passo indietro, nell'inferno di chi inciampa e cade ad un soffio dalla meta.

 

Rideva quando le fanciulle, fossero servette, figlie di lord minori o loro cugine, preferivano lui, che era bello, spavaldo e spigliato alla timidezza mascherata di fredda serietà del fratello più giovane.

 

E Stannis aveva imparato ad odiarlo.

 

Ad ogni caduta, ad ogni insuccesso sentiva risuonargli nelle orecchie la sua risata. Robert era in ognuna delle sue sconfitte ad umiliarlo e deriderlo.

 

Sua madre Cassana, l'unica che non gli avesse mai preferito Robert, gli aveva sempre ripetuto che gli Dei prima o poi avrebbero ricompensato la sua tenacia, il suo impegno nel tentare di distinguersi. Non essere geloso di tuo fratello, Stannis, gli mormorava accarezzandogli i capelli, tenendolo tra le proprie braccia, verrà anche il tuo momento di brillare. Confida negli Dei, ma soprattutto in te stesso.

 

E lui vi aveva creduto. Aveva voluto credere che anche lui, un giorno, avrebbe ricevuto il rispetto e l'amore di cui Robert pareva oggetto esclusivo.

 

Ma sua madre era morta in mare assieme a suo padre, davanti a lui, e le sue parole, cui si era disperatamente aggrappato, erano colate a picco con la “Orgoglio dei Venti”. Quel giorno, sui bastioni di Capo Tempesta, aveva ripudiato i Sette. Ed aveva chiuso il proprio cuore a qualunque speranza di poter mai essere qualcosa d'altro che l'eterno secondo.

 

Perché lui non era abbastanza, e mai lo sarebbe stato.

 

Sospirò un'ultima volta, poi afferrò uno stivale e lo indossò. Il sonno quella sera non sarebbe venuto, era inutile sperarci. Tanto valeva alzarsi, uscire a schiarirsi la mente. La sua stanza, buia, semivuota, dai muri spessi e freddi, pareva soffocarlo. Calzati che ebbe gli stivali si alzò in piedi, indossò la giubba di cuoio sulla camicia che cominciava ad andargli larga sulle spalle ossute ed uscì.

 

Si arrestò davanti alla porta della stanza di Melisandre. La immaginò davanti al camino, a scrutare le fiamme cercando di leggervi il volere di R'hllor.

 

Se fosse entrato si sarebbe alzata per venirgli incontro. Lo avrebbe condotto al proprio letto e stretto a sé, premendosi il suo viso sul seno, caldo e bruciante come ogni parte di lei. Sarebbe stato lì per interi minuti, immobile, il cuore di lei che batteva contro il suo torace. Lei avrebbe cercato le sue labbra, fatto scorrere la mani sul suo petto scarno e lui, odiandosi per quella sua debolezza, non avrebbe saputo sottrarsi. L'avrebbe presa, ruvido, grezzo e affamato come sempre. Melisandre era calore che, sebbene per poco, scioglieva il ghiaccio nel suo petto, dissipando con le proprie certezze i suoi dubbi. Sei il campione di R'hllor, mio re, gli mormorava all'orecchio, la voce suadente, leggera e impalpabile come fumo. Nulla può sconfiggerti, poiché il tuo trionfo è già scritto.

 

Alzò una mano per bussare, ma fu solo un attimo, e la lasciò ricadere lungo il fianco.

 

No, nessuno poteva fare nulla per lui quella notte. Neppure il suo dio. Neppure lei.

 

Percorse i corridoi nel silenzio più totale. Roccia del Drago dormiva, e i suoi passi rimbombavano sulla nuda pietra rimbalzando da una parete all'altra. Le guardie al portone sobbalzarono vedendolo arrivare, e si ritrassero sollevando le alabarde che tenevano incrociate per lasciarlo uscire.

 

Il mare era quieto quella sera. Nero come la pece, si srotolava infinito davanti a lui, a formare un'unica distesa con il cielo sopra di sé. Il vento soffiava freddo, infilandosi maligno sotto i suoi vestiti come una lama ghiacciata. Stannis rabbrividì, e si sedette sulla spiaggia, con un lievissimo scricchiolio. Raccolse un pugno di rena e se la lasciò scivolare tra le dita. Era un gesto che compiva sin da quando era ragazzo: aveva il dono di riuscire a calmarlo, di aiutarlo a fare ordine nel turbinio dei propri pensieri.

 

Era sempre stato solo. Anche tra mille altri, si sarebbe sempre sentito solo.

 

Ma mai, mai come in quel momento la solitudine gli era parsa un peso tanto grande.

 

L'aveva accettata il giorno in cui si era posto sul capo una corona che mai gli sarebbe dovuta toccare, una corona che neppure desiderava ma che - per dovere ancora prima che per diritto - si era forzato ad indossare. Non era nato per regnare, ma il regno aveva bisogno di una guida, e lui non si sarebbe sottratto. Se si doveva reggere lo scettro, lui l'avrebbe fatto. Non si era mai fatto illusioni: essere re significava essere soli. Nessuno avrebbe portato quel fardello per lui.

 

Eppure all'epoca non era solo.

 

C'era un uomo al suo fianco a dividere con lui quel peso.

 

Un uomo fedele, buono, retto. Un uomo che tanti anni prima aveva punito per contrabbando mozzandogli le dita e fatto cavaliere un attimo dopo.

 

Ser Davos. Ser Davos Seaworth.

 

Il suo generale più coraggioso, il suo consigliere più fidato. L'unico uomo che chiamasse amico.

 

Lo aveva creduto disperso quando durante la Battaglia delle Acque Nere era caduto in mare. Da allora non aveva più avuto sue notizie. Lo aveva ritenuto morto, e nel proprio cuore lo aveva pianto, in silenzio. Era ricomparso settimane dopo, il volto bruciato, incrostato di alghe e salsedine, smagrito e quasi morto di sete. Era riuscito a salvarsi, era sopravvissuto. Aveva assistito alla morte dei suoi figli maggiori, e non aveva potuto far nulla per loro se non guardarli perire. Era vivo e cercava vendetta. Vendetta contro la Donna Rossa, contro quel suo dio che gli aveva portato via quattro figli. Forse era stato proprio quel desiderio, a tenerlo in vita.

 

Ed ora Davos per quella sua colpa marciva nelle segrete, tra i topi, le alghe marce e la paglia fetida.

 

Stannis strofinò la mano sul tessuto dei pantaloni, scuotendo via gli ultimi granelli di sabbia.

 

Davos, che con i monconi delle proprie dita ancora sanguinanti si era inginocchiato a giurargli fedeltà, Davos, che da vent'anni era suo consigliere, Davos, che aveva messo tutto se stesso al suo servizio sin dal primo giorno, che lo sosteneva con i fatti ancor prima che con le parole, era un traditore.

 

Il Cavaliere delle Cipolle è mio amico.

 

La voce di sua figlia Shireen tornò a risuonargli in testa.

 

Aveva detto che sarebbe passato a trovarmi.

 

Stannis contrasse la mascella e serrò gli occhi. Ricordava fin troppo bene la conversazione che aveva avuto con Shireen. La delusione, la tristezza che si erano dipinte sul suo viso deturpato alle sue parole. Era stato freddo, brutale, e se ne pentiva. Shireen era molto affezionata a ser Davos, uno dei pochi, forse l'unico che sapesse guardarla in volto senza ribrezzo. L'aveva lasciata sola, in quella stanzetta angusta più simile ad una cella che alla camera di una bambina, con nient'altro che quella piccola nave che ser Davos aveva scolpito per lei, e se n'era andato, con il cuore pesante. Non avrebbe mai dimenticato la stretta alla bocca dello stomaco, il macigno che gli aveva schiacciato il petto a vederla. Non era nulla di particolarmente elaborato, solo un pezzo di legno intagliato con due ritagli di pelle conciata per vele.

 

Ma sua figlia amava quella barchetta, la stringeva al petto come il più prezioso dei tesori.

 

L'amava perché gliel'aveva regalata il Cavaliere delle Cipolle, il suo caro amico.

 

Un uomo che, pur non avendo con lei alcun legame di sangue, aveva saputo donarle un sorriso, portare un po' di gioia in quella vita triste e grigia che sua madre la obbligava a vivere, da sola, segregata, lontana da tutti. Lui, suo padre, con un proprio regalo aveva invece saputo soltanto condannarla.

 

Rammentava con dolorosa chiarezza la bambola dai colori di Casa Baratheon che le aveva comprato quando aveva pochi mesi. Gliel'aveva messa nella culla e Shireen se l'era stretta contro la guancia, tenendola stretta tra le sue minuscole mani, felice.

 

La sua felicità era stata di breve durata.

 

La pelle di Shireen aveva preso a seccarsi, facendosi flaccida e allo stesso tempo dura come la pietra. La piccola si graffiava il viso conficcandosi le unghie nella carne piagata, piangendo dal dolore. Avevano scoperto tardi che era stata la bambola il vettore del morbo. Gli era stato consigliato di abbandonarla nelle piane ancora fumanti dell'Antica Valyria, tra gli uomini di pietra. Quanto a sua madre, Selyse, non aveva visto altra soluzione che sopprimerla. E' un atto di carità, aveva sostenuto, ucciderla ora che è ancora troppo piccola per capire. Se anche dovesse salvarsi, rimarrebbe sfregiata a vita. Nessuno la vorrà mai.

 

Ma lui non aveva voluto sentir ragioni: Shireen era sua figlia, la sua unica figlia. Non l'avrebbe abbandonata.

 

Non l'avrebbe lasciata andare senza combattere.

 

Aveva fatto venire da entrambi i Continenti ogni maestro, guaritore e speziale, speso il denaro dei Baratheon quasi sino all'ultimo dragone finché la malattia non era stata arginata e il male sconfitto, ma non senza averle lasciato un marchio indelebile. Le cicatrici erano rimaste, a ricordare a Stannis che per colpa sua e di un suo minuscolo, imperdonabile attimo di leggerezza la vita della sua bambina appena venuta al mondo era stata sul ciglio della morte. Da allora sua moglie aveva decretato che la loro vergogna, quella figlia orribilmente sfigurata, sarebbe vissuta rinchiusa a Roccia del Drago, e mai ne sarebbe uscita. Sarebbe cresciuta senza cielo, senza sole. Senza amore. Stannis ogni tanto andava a trovarla, ma non riusciva a restare per più di pochi minuti. Vederla lì, in quel luogo angusto e asfittico in cui aveva acconsentito a rinchiuderla, lieta di vederlo nonostante tutto, lo faceva soffrire. Ad ogni compleanno le faceva un regalo: una volta una bambola, un'altra un nuovo vestito, un'altra ancora un libro. Shireen lo ringraziava abbracciandolo, e lui rispondeva con un sorriso tirato. Per quanti regali le facesse, mai avrebbe potuto cancellarle dal viso quelle orrende cicatrici. Nulla avrebbe mai potuto convincerlo che era stata una tragica fatalità, un crudele scherzo del destino, e non colpa sua.

 

Un giorno, nel corso di una visita ai suoi vassalli e ai loro domini, ser Davos e sua moglie Lady Marya Seaworth avevano imbandito un piccolo banchetto in suo onore nella loro dimora, il modesto castello a Bosco delle Piogge. Stannis aveva accettato, non senza un certo disagio. La vita gli aveva insegnato a diffidare del suo prossimo, a tenere i pugni chiusi piuttosto che ad aprire le braccia ad accogliere un ospite. Eppure, nonostante le poche pietanze in tavola, non ricordava di aver mai mangiato del pesce tanto buono. La cena era stata piacevole, anche se lui non aveva quasi mai aperto bocca, partecipando alla conversazione solo di rado.

 

Aveva osservato i figli di Davos: chi più, chi meno, i ragazzi Seaworth assomigliavano tutti a loro padre. Erano robusti, sani, pieni di vita. I più piccoli si azzuffavano di continuo tra loro, ruzzando vivaci sul pavimento come cuccioli d'orso, mentre Dale e Allard, i maggiori, tentavano di tenerli a bada. Davos li rimproverava, ma sempre con dolcezza. Li prendeva in braccio e li lanciava in aria, li portava a cavalluccio sulle spalle, si sedeva con loro volentieri sul pavimento, a giocare. I suoi occhi, quando li guardava o parlava di loro, brillavano d'orgoglio e d'affetto. Uno dei più giovani, quello che portava il suo nome, Stannis, teneva stretto in mano un piccolo cervo di legno che gli aveva costruito lui stesso. A banchetto finito, ser Davos lo aveva accompagnato sulle mura del piccolo fortilizio, ad illustrargli le ristrutturazioni e le migliorie che lui e sua moglie avevano effettuato. Era Lady Marya, aveva spiegato sorridendo con amore al pronunciarne il nome, ad occuparsi di amministrare ogni cosa. Devi andare molto fiero di tua moglie, aveva commentato lui. Davos aveva sorriso. Infatti, mio signore. E' una donna senza pari.

 

Stannis si sdraiò sulla sabbia, le mani intrecciate dietro la nuca. Non aveva mai realizzato sino a quel momento quanto invidiasse ser Davos. Ma non si trattava di quell'invidia rabbiosa, quell'odio sordo che aveva sempre provato nei confronti di Robert. Questa era diversa, più profonda.

 

Più dolorosa.

 

Lo invidiava perché aveva una moglie che lo amava, che ad ogni partenza lo abbracciava e baciava con calore, scrutando l'orizzonte ogni giorno, ansiosa di veder spuntare al largo le vele scure della sua “Beta Nera”.

 

Perché aveva figli forti e pieni di vita che correvano ad abbracciarlo saltandogli al collo, che potevano giocare all'aperto, correre sulla spiaggia a piedi nudi, tuffarsi in acqua, ammirare la sterminata vastità del cielo e del mare anziché uno sprazzo d'azzurro da una finestrella.

 

Perché era di bassi natali, analfabeta, semplice, ma sapeva far sorridere sua figlia con una piccola cosa come una nave giocattolo.

 

Davos era migliore di lui sotto molti aspetti. Era un uomo migliore, un padre migliore. Ed ora dormiva sull'umido pavimento di una cella, nei sotterranei della rocca, senza sapere cosa ne sarebbe stato di lui.

 

Si rialzò e prese a camminare stancamente, l'acqua del mare che cancellava i suoi passi sulla battigia. Era ancora perso tra i propri pensieri quando per caso mise un piede su un pezzo di legno. Si riscosse di scatto; abbassò gli occhi e si piegò a raccoglierlo.

 

Era un piccolo ceppo, forse d'abete, tanto piccolo che gli stava in una mano. La corteccia era ancora in buono stato, non era né marcia né fradicia e non aveva alghe su di essa; a giudicare dallo stato di conservazione non doveva essere stato a lungo in mare. Era buon legno, facile da intagliare ma non così morbido da spezzarsi con eccessiva facilità.

 

Ripensò alla barchetta tra le mani di Shireen. E i suoi piedi si mossero quasi da soli a riportarlo sulla strada per la rocca.

 

Salì i gradini due a due, passò oltre il portone ancora presidiato, ignorando le occhiate stupite delle guardie. Rapido percorse i corridoi che portavano alle sue stanze. Cercò con lo sguardo il proprio farsetto in cuoio borchiato che prima di distendersi a tentare di dormire si era accinto a ricucire con un grosso ago da tappezziere, com'era sua abitudine fare dopo ogni battaglia. Lo prese, assieme ad un rocchetto di filo di canapa, e si sedette alla propria scrivania. Sguainò il pugnale che portava abitualmente alla cintura e, dopo essersi premurato di pulire dalla sabbia il pezzo di legno, iniziò a scortecciarlo accuratamente. Dopo che l'ebbe rimossa interamente, se lo rigirò tra le mani, meditando sulla forma da dargli e da dove partire. Iniziò rimuovendo tre pezzi lunghi non più di un dito e li lavorò a lungo per dargli una forma quanto più possibile affusolata: con quelli avrebbe costruito l'albero maestro. Passò quindi a scolpire la tolda, ad intagliare la carena. Modellò il castello di prua e il cassero; intagliò a lungo la parte anteriore e ne ricavò il bompresso. La lama scorreva, scavando e levigando, delineando prima lo scafo, poi la chiglia e le murate. Per ultimo scolpì il timone. Infine spinse la punta del coltello nel legno, a mezzanave: fece forza sull'elsa, e ruotandola praticò il foro circolare dove avrebbe inserito l'albero. Ritagliò un quadrato dalla grossa pezza di pelle di bue da cui ricavava toppe da applicare all'interno della propria giubba, la distese sulla superficie del tavolo e la fermò in alto e in basso con ciascuno dei due legni che avrebbe adibito a pennoni. Srotolò quattro buoni palmi di canapa, la tagliò coi denti e ne infilò un capo nella grossa cruna squadrata dell'ago. Quindi, facendo passare l'ago sopra e sotto il legno, cominciò a cucire la vela. Una volta che fu pronta, la legò all'albero con numerosi nodi, per poi incastrarla sul ponte della barchetta.

 

La posò davanti a sé, a contemplarla. Non era uomo da ritenersi soddisfatto se non dell'assoluta perfezione, e quel balocco era ben lungi dall'essere perfetto: la vela cadeva un po' lasca e i pennoni erano lievemente storti. Tuttavia non poté evitarsi di guardarlo con un certo malcelato orgoglio.

 

Forse Davos avrebbe fatto un lavoro migliore, ma in quel momento non gli importava.

 

Si alzò dalla scrivania, la piccola barca in mano. Imboccò nuovamente il corridoio e lo percorse sino alla stanza della figlia. Salì i gradini di pietra che conducevano alla sua porta e guardò oltre le sbarre. La camera era parzialmente illuminata dalla luce di una candela quasi completamente consumata: in un angolo, sdraiata prona sullo stretto lettuccio addossato al muro, la bambina leggeva. Stannis nascose la barchetta dietro la propria schiena e con la mano libera spinse la porta.

 

- Shireen… -.

 

La ragazzina alzò il capo dal libro e si voltò verso l'ingresso. Lo vide, e il suo volto rovinato si apri in un dolce sorriso. - Padre! -. Scese dal letto e corse da lui ad abbracciarlo. Stannis le accarezzò delicatamente i capelli. Non si era mai reso conto di quanto fossero fini, al pari dei suoi. - E' bello vederti, padre! -. esclamò contenta Shireen staccandosi dal genitore – Stai partendo? Vai da qualche parte? -. L'uomo per un attimo non seppe cosa rispondere, travolto dall'entusiasmo di tutte quelle domande.

 

Pensava che stesse partendo. Perché solo quando partiva passava a salutarla.

 

- In realtà – cominciò con una certa goffaggine, mentre Shireen gli prendeva la mano tra le sue e lo faceva mettere a sedere sul proprio letto. - sono venuto per darti una cosa. Un regalo. - spiegò. - Un regalo? Che bello! -. Il sorriso della piccola si allargò, e il cuore di Stannis, anche se impercettibilmente, parve alleggerirsi. - Posso vederlo? -. Il padre tolse la mano da dietro di sé. - Non è un granché. – si scusò, porgendogliela – Sicuramente quella che ti ha costruito ser Davos è molto più bella. Spero ti piaccia, in ogni modo. L'ho scolpita per te. -.

 

Si sentì sciocco, ridicolo perfino, ma l'emozione che provò davanti alla gioia con cui la figlia prese la barchetta zittì qualunque altra cosa.

 

Shireen la stringeva tra mani come fosse stata una corona d'oro, incapace di staccare gli occhi da essa. - E' meravigliosa! -. Lo guardò, raggiante:- Grazie! -. E si buttò a capofitto tra le braccia di Stannis. Il padre questa volta non esitò a rispondere all'abbraccio: la strinse a sé come non aveva mai fatto, premendosi la bambina al petto, mentre sulle sue labbra sottili e severe, sul suo viso perennemente adombrato, compariva un piccolo, invisibile sorriso. - Hai già pensato ad un nome da metterle? - chiese, ancora avvinto alla figlioletta. Shireen si sciolse dalle sue braccia. - Sì! La chiamerò...La “Furore”! -.- E' un bel nome. - concordò Stannis – E domani se vorrai andremo assieme a metterla in mare, così da sincerarci che galleggi. Cosa ne pensi? -. Il sorriso di Shireen scomparve:- Mia madre mi proibisce di uscire sulla spiaggia. Dice che nessuno deve vedermi. - replicò mestamente. - Dice...Che sono orribile. -.

 

Stannis digrignò i denti, reprimendo la rabbia. Rabbia verso la moglie, che la obbligava ad una vita da prigioniera nella sua stessa casa, ma soprattutto verso se stesso, che le aveva sempre consentito di farlo.

 

- Tua madre si sbaglia. Non è affatto vero che sei orribile. - decretò brusco – E domani uscirai da questo castello con me. Sono tuo padre e ritengo di poter aver voce in capitolo. -. Alle sue seppur dure parole Shireen tornò ad illuminarsi. - Davvero ? -.- Certamente. Ora però devi dormire, o domattina sarai troppo stanca per fare alcunché. -. Fece per alzarsi ma la bambina lo trattenne, afferrando un lembo della sua tunica. - Mi racconti una favola, padre? -.

 

Stannis rimase un attimo perplesso. Una favola? Era passata una vita da che Cassana radunava lui e Robert davanti al camino acceso e, con Renly in braccio, iniziava a narrare di dame bellissime ed eroici cavalieri. Ce n'era una, in particolare, che amava più di tutte ascoltare…

 

Tornò a sedersi accanto a Shireen, la schiena contro la parete. - Conosci la storia del drago che aveva solo metà cuore? - le domandò. Lei scosse il capo, accoccolandosi contro di lui:- No, padre. -. Stannis si schiarì la voce, cercando di riportare alla mente come iniziasse, e l'attirò a sé con un braccio. - Tutto comincia in una terra lontana, governata da un re spietato e crudele. Un giorno la gente, stanca di subire ingiustizie, decise di ribellarsi. Il figlio del re, accompagnato da Bowen, il suo maestro di spada, prese parte allo scontro assieme al padre e… -.

 

Erano più di vent'anni che non sentiva quella storia, e narrarla a Shireen, sua figlia, la sua bambina, che stretta a lui lo guardava coi suoi grandi occhi ricolmi di curiosità, gli scaldò il cuore in maniera indicibile.

 

Quella notte, ne era certo, non avrebbe portato con sé altri incubi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell'Autrice: Buongiorno, bella gente! Eccomi di ritorno! E stavolta con una bella (spero almeno LOL) OS sul mio e nostro Stannis The Mannis. Va detto, non ci siamo amati sin dal principio: ero troppo presa da Dany-son figa-son bella-son fotomodella. Peccato che poi la fanciulla abbia deciso di far riposare il culo (e cacciare il mio orso ç_ç) giocando alla Madre Teresa di Meereen con mio sommo dispiacere. Son quindi passata dal “Vai Dany! Da-ny! Da-ny!” al “Ma no ma che fai ma perché” al “Ma morissi” al definitivo “E allora muori.” La “conversione” al Team Dragonstone è stata inevitabile. Perché sì, il buon Stannis non è esattamente Mr. Simpatia (anzi, è adorabilmente complessato e burbero all'ennesima potenza) ma ha carisma e fascino a vagoni. Concludo dicendo che questa ff mi frullava in testa già dai tempi (bei tempi, sigh) della 3x08: potevo non scriverla proprio ora che il mio amato Mannis è stato brutalmente accoppato da quei due maledetti di D&D?

 

Ciò detto...A voi!

 

 

 

#Raky

 

 

 

PS: Vi è piaciuta l'idea di usare Dragonheart (la mia infanzia XD) come favola? Da Stannis in fondo non possiamo certo aspettarci unicorni e fatine. E la piccola adora i draghi, quindi...

 
  
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