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Autore: hiromi_chan    21/09/2015    4 recensioni
René, diciotto anni, ironico e distaccato, arranca in mezzo ai suoi problemi evitandoli abilmente.
Sarà proprio tra le mura della stessa scuola che lo fa sentire sempre inadatto che sboccerà il primo amore: un sentimento tenero e innocente, confusionario e doloroso come i migliori primi amori.
Dahlia, giovane professoressa luminosa ed entusiasta, sarà la guida che accompagnerà René alla scoperta di se stesso.
Così la vidi per la prima volta.
Dahlia.
“Signorina Raltique” lo divenne solo a partire dal settembre seguente. Durante quei due ultimi mesi estivi, per me fu solo Dahlia. In verità, anche nel corso del mio ultimo anno di liceo fu semplicemente Dahlia. E ancor adesso, ogni volta che penso a lei, è sempre Dahlia.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2: Glass Heart Hymn

 



I am empty
In my end you are my beginning

There’s a ghost in the mirror
I’m afraid more than ever

Hallelu, hallelu, hallelujah
Let it rain, let it pour down on ya

Paper Route – Glass Heart Hymn

 



 

Dahlia, Dahlia, Dahlia.

Occhi scuri e ciglia abbassate sugli zigomi, carezzevoli. L'arco pieno delle labbra rosee.

Dahlia, Dahlia.

Profumo morbido e avvolgente.

Dahlia.

Un sogno a occhi aperti.
 

*
 

Decisi di frequentare le ripetizioni di latino. Dopotutto, non avevo niente di meglio da fare.

Fu proprio andando a scuola in una mattina come tante che la storia che vi sto raccontando prese una piega inaspettata.

Quando infilai il naso oltre la porta per vedere se avevo mantenuto il mio record da ritardatario, avvistai solo due persone in classe: Pauline, i capelli legati in una coda laterale con le punte azzurro fiammante in bella vista, era seduta scomposta sulla sedia. Teneva le braccia incrociate al petto e, più che masticare una gomma, stava ruminando.

Antoine, seduto dietro di lei, era completamente steso sul banco; aveva schiacciato la faccia sul braccio, e la bocca arricciata con la saliva colante da un lato gli dava un aspetto decisamente poco punk – e lui ci teneva, ad apparire sempre molto punk.

Stavo per tirare fuori il telefono e scattargli una foto compromettente da usare per la prossima grana che mi avrebbe piantato, ma poi Pauline mi notò.

«Oh, René!» esclamò, riattivandosi tutta. Il volto a forma di cuore risplendette. Batté anche la mani, facendo svegliare Antoine con un grugnito.

«Dov'è Blanchette?» chiesi, notando che il professore non era ancora arrivato.

Strano. In genere ci teneva a presentarsi con largo anticipo per poterci accusare tutti di ritardo e punirci di conseguenza.

«Non so, non si è visto» disse Pauline. Poi piegò l'indice alla mia volta e accavallò una gamba sull'altra, evidenziando bene il movimento. «Vieni qui, dai, che qualcosa da fare nel frattempo lo troviamo...»

«P-p-pauline, non p-p-pa-parlare con quell'idiota!» saltò su Antoine, sbattendo un pugno sul banco. Ovvio.

Nonostante il difetto di pronuncia, o forse proprio per questo, apriva la bocca anche quando non doveva e tendeva sempre a imporsi sugli altri duranti i discorsi.

«Parlo con chi mi pare e piace» ribatté subito lei, voltandosi per fulminarlo con un'occhiata truce. Nel movimento, i capelli frustarono l'aria. «E semmai l'idiota sei tu, non certo René.»

Antoine, per tutta risposta, digrignò i denti alla mia volta. «Sc-scommetto che sei tu ad a-a-aizzarmela contro quando non ci sono! Vuoi fare bella fi-figura con lei, non è vero?»

«Non ci tengo» feci, alzando gli occhi al cielo. Mi ero già stufato di quel teatrino, quindi ignorai il “cosa?” oltraggiato di Pauline e staccai la schiena dalla porta. «Vado di sopra. Mandatemi un messaggio quando arriva il professore.»

«Col-col cavolo!»

«Ci penso io» disse Pauline, sfilando da sotto il banco il cellulare con l'abilità con cui si maneggia una spada. «Ma poi mi dovrai un favore» fu svelta ad aggiungere, ammiccando, «un grosso favore.»

La voce di Antoine che sbraitava contro Pauline di piantarla di provarci con me sfumò mentre mi dirigevo al tetto dell'ala ovest. Si trattava di un terrazzo dal perimetro quadrato che ospitava il capanno degli impianti di riscaldamento. L'accesso era, ovviamente, permesso soltanto al personale addetto alla manutenzione. Per questo mi ero procurato la chiave dell'unica porta di accesso (c'ero riuscito già al primo anno, facendo amicizia con Georgette, la vecchia bidella che mi tirava le guance. Come me, parlava poco e pensava molto. L'intesa era stata immediata).

Sbottonai la giacca rigida della divisa e me ne liberai, lasciandola cadere sul pavimento. La allargai per bene, stirando le maniche, e mi ci stesi sopra. Afferrata una sigaretta dalla tasca dello zaino accanto a me, me la infilai tra le labbra e la tenni lì per un po'.

A occhi chiusi, in silenzio e da solo: mi piaceva molto stare lì in quel modo. A volte, quando saltavo le lezioni e non sapevo dove andare o non avevo voglia di girare per la città, restavo semplicemente su quella terrazza. Quel tenue dolore agli arti intirizziti per il freddo, addolcito dal suono continuo dei contatori all'interno del capanno... Ecco cosa ricordo con più piacere della scuola.

Prima di allora, certo.

Prima di quel preciso momento.

Prima di quando sollevai le palpebre per accendere la sigaretta e vidi sopra di me un volto ovale, seminascosto da una piccola cascata di capelli castani.

«Dahlia?» mormorai, e la sigaretta mi scivolò quasi dalle labbra.

«Fumi, René? Dio, no. Togliti questa brutta abitudine» disse Dahlia. Se ne stava oltre la mia testa, piegata in avanti con le braccia incrociate dietro la schiena.

Pensai di essermi addormentato. Dovevo aver mormorato troppo il suo nome durante quegli spicchi di dormiveglia in cui me lo ripetevo per il gusto di sentir scivolare le lettere nella bocca.

«Mi hanno detto che eri qui... Che il mio studente mancante all'appello era qui» proseguì lei. E questo mi convinse che doveva essere tutto vero, perché mai, mai nella mia testa avrei potuto partorire una fantasia del genere.

«Studente» sillabai, chiedendomi se dovessi complimentarmi con me stesso o darmi dell'idiota per aver dimenticato di chiudere a chiave la porta del terrazzo.

Lei annuì e si rimise dritta, camminandomi intorno con passi lunghi e pensosi. «Vedi, il professor Blachette è caduto dalle scale di casa e ora si trova in ospedale, poverino. È successo tutto molto in fretta, ma c'è stato abbastanza tempo per trovargli un sostituto. Io ero già in città e così hanno chiamato tempestivamente me.»

«Organizzazione impeccabile» dissi, ancora steso. «Dovete aver davvero a cuore la nostra istruzione.»

«Oh, sì» disse Dahlia, non cogliendo il sarcasmo.

Mi tirai su sui gomiti, osservandola girarmi intorno. Mi sentivo come se avessi ricevuto una colossale mazzata in testa. «Tanto per chiarire» chiesi, «sei una professoressa. Tu.»

Lei fece un verso affermativo.

«La mia. La mia professoressa.»

Stesso verso affermativo, solo più prolungato, stavolta. «Avrei dovuto cominciare a insegnare qui solo a inizio anno, ma non mi dispiace aver avuto questa occasione. Potrò ambientarmi meglio.»

«Già, grazie, professor Blanchette» dissi, mettendomi in piedi e spazzando via la polvere dall'orlo dei pantaloni blu. Forse mi ero mosso troppo in fretta, perché provai un lieve capogiro.

«Oh, no, non intendevo... È ovvio che non sono felice che il professore sia...» si agitò Dahlia. «Mi stai prendendo in giro?»

Mi limitai a lanciare un sorriso storto alla giacca mentre la fissavo, meditando se raccoglierla o lasciarla lì e scappare il più in fretta possibile.

Dahlia decise per me. «Il mondo è piccolo» disse, prendendo la giacca e porgendomela.

Dopo un momento di esitazione, l'afferrai. «Piccolo e confortevole.»

 

*

 

«Potete chiamarmi semplicemente Dahlia e darmi del tu. Per le prossime settimane saremo solo noi quattro, e poi questa è la prima esperienza per me, quindi mi pare più produttivo entrare in confidenza, in modo da poter lavorare meglio insieme. Penso che avere un rapporto di reciproca fiducia tra insegnate e studenti faccia miracoli per l'apprendimento.»

Vedere Dahlia dietro la cattedra mi faceva uno strano effetto.

In realtà, vederla mi faceva uno strano effetto.

Era emozionata, le brillavano gli occhi e le guance erano appena un po' arrossate. Sembrava troppo giovane per tenere un registro in mano ma, mentre scriveva il suo nome alla lavagna con un pennarello blu, aveva l'aria di sapere esattamente cosa stesse facendo.

Quelli furono gli unici brevi momenti in cui la considerai una professoressa. Per me poi non fu mai solo quello. L'avevo conosciuta al di fuori della scuola, come una ragazza, per questo Dahlia fu una ragazza e una professoressa. In ogni caso, fece molto di più per me che tutti i professori della mia vita messi insieme.

La prima lezione fu di assestamento per tutti; Dahlia voleva farci capire che era disponibile e aperta nei nostri confronti, e che il suo obiettivo era unicamente aiutarci nello studio - «... Evitando imbarazzi e gogne pubbliche. Siamo qui per imparare» disse, e in quel momento mi sentii molto fiero di lei.

Dal canto mio, dovevo ancora associare alla ragazza del sogno il nuovo ruolo che andava a occupare nella mia esistenza: un ruolo concreto e, forse per questo, un po' spaventoso.

Mentre ripassavamo tutti insieme le basi della grammatica latina, combattevo contro l'istinto di incontrare i suoi occhi appena possibile. Tenevo una mano sotto il banco e tamburellavo le dita sul legno, andando a tempo mentre declinavo le parole.

In realtà, non riponevo molte aspettative nel corso di recupero. Né io né i miei due compagni avevamo a genio la materia, ma non eravamo del tutto impreparati; in fondo, studiavamo quella merda da anni, ormai. Ma se dovevamo frequentare il corso di recupero, un motivo c'era.

Nel mio caso, si trattava della totale indifferenza nei confronti della materia.

«Vi farò interessare, vedrete» garantì Dahlia a fine lezione, «e quando avrete capito che non si tratta solo di frasi fatte sterili e vuote da tradurre... Quando avrete interiorizzato il meraviglioso concetto che dietro ogni riga, dietro ogni parola c'è un uomo, un cuore che palpita, un'anima ancora viva dopo secoli... Sono sicura che allora andrà molto meglio.»

Mi persi nel suo entusiasmo e pensai che, se almeno uno di noi quattro si divertiva, era già qualcosa.

Quando uscii dall'aula le sorrisi. La punta dei polpastrelli premuta contro la cattedra, le dita tese, Dahlia ricambiò il saluto con calore.

Improvvisamente, il pensiero di tornare a scuola ogni mattina divenne allettante.

In quel momento, non diedi alcun significato particolare alla linea tirata delle sue labbra e alla postura rigida. Lo sguardo ferreo, le palpebre pesanti, le iridi quasi grige, queste cose sì, erano impossibili da non notare. Forse le ignorai volontariamente, non so dirlo. Forse ero troppo concentrato su me stesso.

Mi fissavo sui particolari, ma ero inesperto e ignoravo che, quando parla il cuore, si diventa sbadati e si perdono molte cose per la strada.

 

*

 

Una mano mi afferrò lo zaino da dietro, facendomi arretrare di mezzo passo.

«Che ve ne pare di Dahlia?» disse Pauline, lasciando la presa solo per arpionare il braccio attorno al mio.

Aggrottai le sopracciglia mentre Antoine arrancava verso di noi, ma non mi fermai ad aspettarlo. Era strano che uscissimo da scuola insieme. Generalmente non ci frequentavamo quasi mai oltre l'orario delle lezioni.

«Io non la trovo tanto affidabile» decretò Pauline senza aspettare risposta. «È giovane... Non lo so. Non mi ispira fiducia. Ma meglio lei di quella mummia di Blachette.»

«Con quella sua verruca» concordai, ingoiando la mia opinione su quanta fiducia ispirasse Dahlia a me.

Era inutile dirlo.

«Da-da-dahlia non è male davvero» intervenne a voce troppo alta Antoine, mettendosi affianco a Pauline. Ridacchiò come se gli fosse venuta in mente la battuta del secolo e si grattò la testa dal lato dei capelli rasati. «Pr-proprio una tr-troietta carina.»

A diciotto anni ci si crede molto saggi e invece si dice e si pensa un quantitativo spaventoso di cavolate; ora che è passato un po' di tempo, me ne rendo conto. In quel preciso istante, invece, non fui affatto ragionevole, e poco importava che Antoine di anni ne avesse avuti solo diciassette e fosse stato uno dei tipi più immaturi che avessi conosciuto.

Mi liberai con uno strattone da Pauline e scattai verso l'altro, afferrandogli la camicia. Una cappa ardente era di colpo calata sui miei occhi, sul ponte del naso, una bomba mi era esplosa nello stomaco. Avevo scoperto i denti e, se ne fossi stato capace, avrei ringhiato.

Fu questione di pochi secondi; spinsi Antoine all'indietro contro il cancello del liceo e lui, sebbene più alto e più grosso di me, si lasciò maneggiare per la sorpresa.

«Ripetilo un'altra volta» soffiai sul suo naso aquilino, «e non mi tratterrò.»

«F-f-forza» fece lui, dimenandosi. «F-fallo.» Era agitato, i lineamenti erano tirati nella tensione.

Sentii sporgere il mio mento in avanti e penso che, se Antoine mi avesse provocato ancora o avesse detto qualcos'altro di offensivo nei confronti di Dahlia, l'avrei picchiato davvero.

Ma Pauline spinse le braccia tra noi e ci divise con un sbuffo iroso. «Idioti, siete due idioti!» scoppiò, trascinando Antoine verso di lei. «Che diamine pensate di fare?»

Mentre riprendevamo fiato, lui ghignò, ma lo vidi passarsi la mano intorno al punto della maglia che avevo stretto, Pauline al suo fianco con le narici larghe e le guance rosse.

E mi sentii molto, molto stupido.

Una fitta di vergogna mi trapassò lo stomaco. Guardai a terra e mi allontanai in fretta da loro, scombussolato... in fiamme.

 

*

 

«È chiaro che dovete sfogare in qualche modo la tensione tra voi» decretò la mattina dopo Pauline.

Eravamo tutti e tre seduti ai nostri banchi, intenti a fissare ostinatamente la cattedra ancora vuota. Mi ero risvegliato sentendomi quasi nauseato e non riuscivo a riconoscermi nelle mie stesse azioni. Però ero orgoglioso come sanno esserlo quei ragazzi che credono di poter bastare a loro stessi e non conoscono altro mondo al di fuori di quello solitario che appartiene loro.

Non vedevo l'ora di rivedere il sorriso di Dahlia. Ero certo che avrebbe potuto migliorarmi la giornata.

«Insomma, non può andare avanti così per sempre» continuò Pauline, masticando la gomma come da rituale. «Voglio dire, tu piaci a me...» disse, indicandomi, «... io piaccio lui» e buttò distrattamente l'indice verso Antoine, «... quindi la cosa può finire solo in tre modi: o lottate per me con una bella scazzottata controllata senza troppo rancore...»

La guardai alzando un sopracciglio.

«... O sfogate tutta questa tensione a letto voi due...»

Anche Antoine si voltò a fissarla di scatto, un'espressione mista di panico e disgusto che mi fece quasi ridere.

«... Oppure, e questa è la mia possibilità preferita...» e un sorrisetto sornione si allargò sul viso di Pauline, «... Threesome!»

«Buongiorno, ragazzi» cinguettò Dahlia, entrando in classe con delle fotocopie in mano.

«Grazie a dio» esalai.

«Pro-professoressa, la adoro» si aggiunse Antoine, «e gi-giuro che non le ma-ma-mancherò di rispetto.» A sorpresa, si voltò dalla mia parte, gli occhi fiammeggianti e il mento alto. «Mai.»

Capii che si stava rivolgendo a me.

Lessi le implicite scuse e la promessa nelle sue parole. Spiazzato, annuii appena alla sua volta. Antoine era una testa calda, ma era anche coraggioso; non aveva paura di niente, e se questo da una parte lo rendeva ancora più avventato, dall'altra gli dava un'onestà che mancava a me.

Mi sentii ancora più mortificato per aver reagito in quel modo il giorno prima. Io e lui non eravamo mai andati molto d'accordo ed era vero che Antoine si sentiva in dovere di portare avanti quella stupida rivalità per via di Pauline... Ma questo non cambiava le cose. Non avrei mai creduto di poter scattare in quel modo, di poter minacciare qualcuno, tanto meno un compagno.

Però Antoine aveva insultato Dahlia, e io non ci avevo visto più. Era quella, la semplice realtà dei fatti.

Ero sempre stato un ragazzo controllato e non avevo mai creato problemi senza la certezza di saperli rivolvere, in qualche modo, per conto mio.

Quello scatto fu, penso, la prima emozione selvaggia e sconosciuta dalla quale mi lascia prendere senza pensare prima alle possibili conseguenze delle mie azioni.

«Oggi vi ho portato qualcosa» stava dicendo intanto Dahlia. Si avvicinò per distribuire le fotocopie e mi incantai sul frusciare della sua gonna rosa, quasi impercettibile. «Una versione e un approfondimento sull'autore, in modo che possiate avere un'idea delle vibranti personalità della letteratura latina... e non le consideriate solo bersagli delle vostre maledizioni.»

Tossicchiai e Antoine si dimenò un po' sulla sedia.

Dahlia si appoggiò alla cattedra e, dopo essersi schiarita la voce, iniziò a leggere in metrica dalla fotocopia: «Si quis in hoc artem populo non novit amandi, hoc legat et lecto carmine doctus amet. Se qualcuno tra questa gente non conosce l'arte di amare, legga quest'opera e, dopo averla letta, ami da intenditore.»

L'arte di amare.

Feci oscillare la matita tra le mani e mi scoprii interessato all'argomento.

Ascoltai Dahlia con l'intenzione di non perdermi neanche un parola, seguendo ogni suo movimento quando prese a camminare davanti alla cattedra. I raggi del sole estivo che filtravano dalla finestra le circondavano i capelli di un alone morbido.

Percepii la mia schiena sciogliersi e il ritmo del respiro cambiare, farsi più profondo, più dolce e misurato.

 

*

 

Stavo steso sul pavimento del terrazzo, sistemato nel mio posto esclusivo. Era una mattinata stranamente grigia e le nuvole avevano iniziato ad addensarsi tra loro. Il sole faceva capolino da dietro una di esse, colorandone il bordo di un bianco accecante – uno spicchio argenteo.

Allungai la mano verso lo zaino e tastai a caso fino a che non riuscii ad aprire la cerniera. Estrassi la mia Nikon, puntai l'obiettivo, sistemai lo zoom e scattai.

In quel momento, la porta si aprì con un cigolio – non l'avevo chiusa a chiave, stavolta consapevolmente. Non so cosa mi fossi aspettato ma, qualunque cosa fosse, stava avvenendo ora. Sorrisi.

«Eccoti qui» fece Dahlia, il fiato corto per aver fatto le scale. «Temevo di dover tenere una lezione tutta sola, oggi.»

«Gli altri?»
«Pauline ha chiamato per farmi sapere che non sta bene» disse, avvicinandosi e sedendosi accanto a me. «Poco dopo ho ricevuto un messaggio di Antoine che diceva che non sarebbe venuto perché senza Pauline non c'era motivo di farlo, allora gli ho risposto che il motivo era la sua promozione, e lui ha scritto “Beh, sì, vengo domani, devo andare in un posto”. Penso che abbia intenzione di andare a casa di Pauline per vedere come sta, non è carino?»

Le ultime parole sfumarono nella sua risata e io abbassai le palpebre, respirando a fondo.

Mi faceva sentire... bene. Ecco cos'era: lei mi faceva sentire bene.

«Se passerò l'esame di riparazione, uscirai con me un'altra volta?» chiesi, portando le mani sotto la testa.

Il sole ora era del tutto nascosto, ma sembrava che quella nuvoletta non riuscisse a contenerlo. La luce brulicava oltre la nuvola, il grigio era come spezzato e da ogni crepa si poteva intravedere il bianco più luminoso, quello che feriva gli occhi.

«Un'altra?» disse Dahlia, «non mi risulta ci sia stata una prima volta.»

«Un primo appuntamento non convenzionale, lo ammetto» concessi, annuendo, «ma non per questo meno valido.»

Ne seguì una pausa tanto lunga che fui costretto a voltarmi. Una mano di Dahlia era vicino al mio volto, le unghie corte e lo smalto trasparente. Il suo viso era tutto stretto in qualcosa che non capivo e che fece aumentare il ritmo dei miei battiti. Di colpo mi sentii come se qualcuno mi tenesse la testa sott'acqua a forza.

«Lascia perdere, René, mh?» disse lei. «Piuttosto pensa a non venire bocciato di nuovo.» E poi cambiò tono, la voce che si alzava forzatamente di un'ottava. «Di', ma questo posto ti piace così tanto da volerci restare un altro anno in più?»

«Dio, no» alzai gli occhi al cielo, il cuore che sprofondava un po'.

«Scommetto che sei uno di quelli che non studiano solo perché non sono interessati» disse, sfoderando uno sguardo sornione come se avesse capito tutto di me. «La conoscenza ti apre la mente, René... Ti rende potente. Non sai mai come potrebbe influenzare la tua... vena artistica.»

Le ultime parole le sillabò lentamente, con attenzione. Seguii il suo sguardo e vidi che era approdato sulla Nikon, abbandonata al mio fianco.

Sentii premere contro lo sterno il bisogno di giustificarmi. «È solo un passatempo» dissi, stringendomi nelle spalle. «Non c'è niente da influenzare.»

Un verso lungo, basso e decisamente poco convinto le scappò dalle labbra. Mi tirai su a sedere, scaricando il peso sui palmi aperti. Senza volerlo, mi accorsi che la mia mano era finita così vicino alla sua... La pelle formicolò in un senso di aspettativa che ebbi appena il tempo di reprimere prima che lei chiedesse, di punto in bianco:

«Perché ti piace fare foto?»

Ci pensai. Non me l'ero mai domandato, in realtà, ma sapevo di amare la fotografia.

Amavo le foto perché fermavano il tempo e lo spazio e creavano l'illusione di possedere cose che non avrei mai posseduto. Le amavo con un'intensità tale che a volte mi spaventava, perché rasentava la ferocia.

«Mi danno... tempo importante» articolai, incerto. «Mi danno ciò che non potrei mai avere.»

E questo poteva tranquillizzarmi allo stesso modo in cui poteva farmi sentire solo: con la potenza di un terremoto, la dolcezza di una carezza.

E fu proprio in quel momento che mi sentii avvolto dalla delicatezza devastante di una carezza: Dahlia mi stava prendendo il viso tra le mani, piano. Mi ritrassi d'istinto, il viso di lei che non era mai stato così vicino: fermo, le sopracciglia corrucciate come se si fosse trovata davanti a un gigantesco problema, gli occhi... quasi tristi.

Non si lasciò scoraggiare dalla mia reazione e poggiò i piccoli palmi sulle mie guance, cercando qualcosa nella mia faccia con apprensione.

«Ma guardati...» mormorò come si mormora un segreto o una verità appena scoperta. «Sei meraviglioso. Se solo ti rendessi conto di tutte le cose che potresti essere in grado di fare... Sei un concentrato di potenziale inespresso. Sei una meraviglia. Non lo vedi?» disse, un sorriso mesto.

Un pungo sullo stomaco non avrebbe avuto su di me lo stesso effetto.

Dahlia fece scivolare via le mani lasciandomi solo, una statua di sale. La pelle che aveva toccato bruciava nella sua assenza, un contrasto spettacolare col gelo delle mie articolazioni.

Dahlia guardò l'orizzonte, ignara dell'effetto sconcertante che quel gesto e quelle parole avevano avuto su di me – io, che non ero mai stato toccato in quel modo da nessuno... io, che non ero abituato a ricevere attenzioni del genere da nessuno.

«O la vita è un'avventura da vivere audacemente, oppure è niente» disse poi, quasi cantilenano.

Riconobbi che era una citazione. Mi schiarii la gola e chiesi: «Ancora Ovidio?»

Si voltò dalla mia parte, le labbra tirate in un arco morbido, luminosa contro le nuvole grigie. «Helen Keller.»

In quel momento pensai, e lo penso ancora, che se tutti avessero accanto qualcuno come lei che ti ricorda che vali, allora il mondo sarebbe un posto migliore.

 

*

 

Studiai. Per Dahlia, perché volevo renderla fiera, dimostrarle che non aveva sbagliato a darmi un po' di fiducia... e perché volevo disperatamente che non smettesse di farlo.

 

 

   
 
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