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Autore: Soul of Paper    24/09/2015    6 recensioni
Cosa succede quando Camilla scopre del trasloco di Gaetano? O meglio, cosa pensa di aver scoperto e come reagirà di fronte alla prospettiva di perderlo? Questa storia nasce dal mio desiderio di vedere una Camilla che fa il primo passo, magari anche pronta a "lottare" per Gaetano e Gaetano che, di fronte a un malinteso, tira fuori un po' di orgoglio e un pizzico di strategia ;).
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Camilla Baudino, Gaetano Berardi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota dell’autrice: voglio innanzitutto tranquillizzare chi segue la mia lunghissima storia su PAP che non ho affatto intenzione di abbandonarla, anzi, il prossimo capitolo è a buon punto e dovrebbe arrivare tra pochi giorni. Solo che il tarlo dell’ispirazione ha iniziato a darmi il tormento due giorni fa con questo piccolo esperimento e ho imparato ormai ad assecondarlo, perché se no sono guai ;). Doveva essere una oneshot, insomma, una autoconclusiva, ma tra gli orari di lavoro, la casa nuova e il mio stile di scrittura ho deciso che è meglio dividerla in due capitoli più brevi. La premessa è semplice: come scopre Camilla di un certo trasloco? O meglio, cosa pensa di aver scoperto Camilla? In questo capitolo ci sarà una prima parte introspettiva e la scena che dà il via a tutto. Vi anticipo già che non credo realmente che lo scopra esattamente così ma… vedrete, vi dò appuntamento alle note a fine capitolo per i dettagli sul seguito e per non rovinarvi la sorpresa sulle premesse.
 


“A new lease on life”


 
Capitolo uno: “Tutto cominciò da uno scatolone…”
 


 
Tutto era cominciato da uno scatolone.
 
Sì, uno scatolone, uno di quei cubotti o parallelepipedi (in fondo se ci si sforzava qualche concetto le era rimasto dagli anni passati a lottare prima con i suoi compiti di geometria e poi quelli di Livietta, che di solito erano stati prerogativa di Renzo ma… mentre Renzo era in altre faccende affaccendato – Carmen, ovviamente! – ci si era dovuta arrabattare pure lei) grigi o marroni e tristissimi che avevano accompagnato da sempre i momenti più traumatici della sua esistenza.
 
Quei cosi bislunghi, deformi ed ingobbiti peggio del povero Quasimodo, simboleggiavano per lei il caos, il salto nel vuoto, la sua vita che mutava di fronte ai suoi occhi e, fatalmente, mai in meglio. Certo, c’era forse stata un’eccezione: il suo matrimonio con Renzo. Ma all’epoca di scatoloni ce n’erano stati ben pochi: era tutto nuovo e lei in fondo aveva solo dovuto fare un piano di scale. Appartamento sopra a quello di mammà, un regalo di nozze – col senno di poi non saprebbe dire chi era il mittente e chi il destinatario del dono. Ma col senno di poi, forse quei maledetti pezzi di cartone pressato avevano cominciato a portarle sfortuna già da allora.
 
O forse, col senno di poi, è solo ingiusta adesso: in fondo era stata felice, erano stati felici, nonostante sua madre – una parola che solo da poco riesce a pensare senza sentire una pugnalata all’altezza dello sterno, l’unica cosa positiva di tutta questa storia, di tutto questo dolore fresco che aveva coperto e ovattato il dolore ormai quasi rappreso.
 
Per dieci lunghi anni, che erano passati troppo in fretta, c’erano stati felicità, tranquillità, serenità, forse un po’ di noia, di monotonia ma… aveva avuto una vita quasi perfetta, quella che tutte le sue amiche invidiavano. Il marito dolce, innamorato, premuroso, comprensivo, paterno, perfetto che tutte le raccomandavano di “tenersi stretto”. E soprattutto era arrivata Livietta a riempire la sua vita, la loro vita di una gioia e di un amore che Camilla non aveva mai provato prima, a farle capire per la prima volta cosa significa amare qualcuno più di se stessi, a tal punto da essere disposti a qualunque cosa pur di rendere felice quello scricciolo dagli enormi occhioni azzurri che la guardava, che li guardava con così tanto amore incondizionato da farle bene e male al cuore e che dipendeva solo da lei, da loro, la sua mamma un po’ folle e casinista e il suo papà adorato.
 
Ma dopo dieci anni di quiete, improvvisa e non cercata, la tempesta l’aveva travolta. Un commissario di polizia dalla battuta pronta e dalle scarpe di cuoio inglese, che non erano sopravvissute al loro primo incontro, era piombato nella sua vita una sera come tante altre, a ribaltare ogni sua certezza, a portare il caos nella sua placida esistenza. A farle dubitare, per la prima volta da quando aveva pronunciato quelle promesse “fino a che morte non vi separi”, se quella vita, così perfetta, così invidiabile, così rassicurante e così prevedibile fosse davvero quella che voleva. A farle sognare, ad occhi chiusi e ad occhi aperti, di lasciarsi andare alla passione, a quella specie di corrente magnetica che sembrava attrarla inesorabilmente verso di lui, verso un uomo che non era suo marito. A domandarsi come sarebbe potuto essere una vita accanto ad un uomo che non era quello che aveva scelto e sposato. A farle sentire la mancanza di qualcosa di indefinibile, di qualcosa che non si era mai nemmeno accorta le mancasse prima di conoscere lui. A farle scoprire una parte di sé che nemmeno sapeva esistesse, che la affascinava, la tentava e la turbava in egual misura. Proprio come lui.
 
All’inizio non l’aveva preso sul serio, non aveva preso sul serio le sue frasi, i suoi sguardi, i suoi ammiccamenti, le sue battute. Fa così con tutte! Scherza soltanto! – si era detta, forse perché mentre le diceva a lei, chissà cosa diceva alla sua amica Bettina, chissà cosa faceva con la sua amica Bettina. O forse per sentirsi meno in colpa delle sensazioni che quelle battute provocavano in lei, quella specie di sciame d’api che si scatenava nel suo stomaco e che ronzava nelle sue orecchie ogni volta che lui scherzava, ogni volta che lui si avvicinava. E poi aveva iniziato pure lei a scherzare, a giocare.
 
A giocare con il fuoco.
 
E l’aveva sfiorato il fuoco e ci si era quasi scottata, quando lui l’aveva convocata a casa sua e le aveva comunicato così, senza troppi giri di parole, che si era innamorato. E che la tizia di cui si era innamorato e che Camilla aveva desiderato ardentemente ed irrazionalmente di strangolare con le sue mani, senza nemmeno conoscerla, non era altri se non lei, Camilla Baudino in Ferrero, madre, moglie, professoressa di professione e investigatrice per diletto e ormai diversamente giovane, oltre che ben poco avvenente.
 
Eppure lui, per qualche miracolo o scherzo del destino – o forse per qualche inspiegabile effetto collaterale dei litri di Vermouth che si erano scolati insieme nel corso della loro conoscenza – la trovava addirittura sexy, la donna più attraente che avesse mai incontrato.
 
Un pazzo totale. Ma quel pazzo l’amava.
 
Non era un gioco per lui, forse lo era stato all’inizio ma… non lo era più. Lui l’amava. L’amava.
 
Se l’era ripetuto come un mantra mentre scappava come una ladra da quel loft, toccandosi le labbra che ancora scottavano per quel contatto più leggero di una piuma.
 
Lui l’amava. Non era un gioco e Camilla si era trovata inaspettatamente a desiderare ardentemente di strozzare non un’altra ma se stessa.
 
Per essere andata a quell’appuntamento, per non essersi fermata prima, per avergli quasi permesso di baciarla, di arrivare ad un millimetro dall’infrangere tutte le sue promesse, tutti i suoi ideali, dal lasciarsi andare al caos. Dal diventare quel genere di donna che aveva sempre disprezzato o forse compatito. Dal tradire Renzo, Livietta, le promesse fatte, dal tradire se stessa.
 
Ma, soprattutto, perché nemmeno per lei era mai stato un gioco e l’aveva capito soltanto in quel momento, mentre una scarica elettrica la trapassava da parte a parte al solo sfiorare quelle labbra sconosciute che però sentiva di conoscere in ogni dettaglio, in ogni piega, in ogni curva, in ogni ruga, in ogni espressione, in ogni smorfia.
 
Come conosceva quegli occhi azzurri eppure così diversi da quelli di Renzo, quegli occhi luminosi, aperti, gentili, che si accendevano quando incrociavano i suoi, quello sguardo e quel sorriso così pieni di calore, che sapevano passare dal tepore del sole di primavera sul viso, all’incendio che ti consuma fin nelle viscere. Dalla dolcezza alla malizia, da Lancillotto a Casanova, tutto nel giro di un battito di ciglia.
 
Ci aveva provato ad allontanarsi da lui, ma ogni volta il destino sembrava rimetterlo sulla sua strada e lei non sapeva se odiarlo per questo o essergli grata.
 
Al destino e a Gaetano.
 
Si era illusa di poter controllare quello che provava per il suo commissario, l’attrazione che c’era e che c’è ancora tra loro.
 
Tutte palle.
 
Ma ci si era aggrappata a questa speranza con tutte le sue forze, all’illusione di poter salvare capra e cavoli, di poter tenere Gaetano nella sua vita senza che questo turbasse il suo matrimonio con Renzo.
 
Fino a quando si era ritrovata sì aggrappata, ma alle spalle di Gaetano, avvinghiata ai suoi capelli, alle sue labbra, che riesce ancora a sentire sulle sue come se fosse successo un’ora fa, in quello che definire un bacio sarebbe come definire Michelangelo un imbianchino e il Giudizio Universale nella Cappella Sistina come una mano di pittura.
 
Ma lui le aveva sconvolto la vita due volte e gliel’aveva apparentemente rimessa a posto facendosi da parte, andandosene a Praga, permettendole di fare finta di niente, di fare finta che quello che era successo fosse giusto una spennellata di bianco come tante altre. Un incidente di percorso.
 
Tutte palle.
 
Era tornato ma non da solo. C’era quella dei tozzetti al cioccolato. Roberta, la sua fidanzata. Quanto l’aveva odiata Roberta, quanto l’aveva invidiata Roberta e quanto l’aveva, col senno di poi, benedetta Roberta.
 
Perché Roberta era stata l’alibi perfetto per la sua coscienza, per zittire i suoi sensi di colpa al primo, secondo, terzo, quarto, centesimo vermouth con Gaetano. Perché che c’era di male a trovarsi due, tre volte al giorno con un amico per un cappuccino o per un aperitivo al bar e qualche confidenza? Tanto lui era fidanzato, figuriamoci se pensava ancora a lei!
 
Non si capacita tuttora di come avessero fatto il suo stomaco e il suo fegato a reggere tutta quella caffeina e tutto quell’alcol che tracannavano guardandosi negli occhi e parlandosi di cose di cui avrebbe dovuto parlare con qualcuno che però stava in pausa di riflessione.
 
Eppure il rigurgito acido le era salito in gola soltanto una fredda mattina di fine inverno, quando Gaetano aveva sganciato la bomba: si sposava con Roberta.
 
La tazza le era caduta dalle mani, il cui tremore non era riuscita a contenere e la caffeina e il freddo non c’entravano niente.
 
La realtà aveva presentato finalmente il conto e le aveva ricordato che quell’anello al dito di Roberta e la definizione di fidanzata significavano quello che il dizionario della lingua italiana da sempre suggerisce ma che lei aveva preferito ignorare.
 
Era stato uno schiaffo in pieno viso, il primo, l’inizio della fine.
 
Perché anche se Gaetano alla fine non si era affatto sposato, l’alibi ormai non c’era più ed un secondo schiaffo, secco, netto e affilato come il bisturi di un chirurgo l’aveva colpita come una cinquina sulla guancia, rivelandole senza possibilità di smentita il vero motivo per cui questo maledetto matrimonio era saltato – altro che l’emergenza. Motivo che una parte di lei conosceva benissimo, visto che la colpa – o il merito – di quella scena degna del peggiore filmetto rosa era stata anche sua, oltre che del suo cellulare.
 
Gaetano l’amava ancora, forse più di prima, l’aveva sempre amata e nel delirio di una febbre l’aveva implorata, l’aveva implorata di… di aiutarlo a liberarsi di lei, di aiutarlo a lasciarla andare.
 
Il nodo allo stomaco non è affatto un ricordo, lo sente ancora adesso, insieme a quel maledetto pizzicore agli occhi.
 
Aiutami a distruggerti! – il ritornello di una canzone di Zarrillo che dovrebbe essere vietata a chiunque sia anche solo in odor di depressione, in quanto potenziale istigatrice di suicidi, risuona nelle sue orecchie ora come allora.
 
E lei aveva fatto esattamente ciò che le aveva chiesto, l’unica cosa che, da vigliacca e da egoista quale era, poteva fare per lui, per loro, per essere almeno un pochino meno egoista. Aveva preso l’unica strada che poteva prendere. Anzi, no, forse non era l’unica strada, ce n’era un’altra, più tortuosa, coraggiosa e difficile, ma era stata l’unica strada che era riuscita a prendere, che si era sentita pronta a prendere.
 
Aveva giocato con le vite di quattro persone, lei compresa, anzi cinque, contando Roberta, e doveva guardare in faccia la realtà e smettere di provocare tutta questa sofferenza con la sua indecisione.
 
Ed erano arrivati quei maledetti scatoloni a riempirle casa e a svuotarla pian piano, a svuotare e sradicare la sua vita, oggetto dopo oggetto, nastro di scotch dopo nastro di scotch.
 
Se ne era andata senza nemmeno salutarlo, di nuovo come una ladra, forse perché una parte di lei sapeva che non sarebbe mai riuscita a dirgli addio guardandolo negli occhi.
 
Barcellona era sembrata la meta ideale per ricominciare e ricostruire un rapporto con Renzo, con quel marito che, nonostante tutto quello che era successo, soprattutto nell’ultimo anno, sentiva di amare ancora.
 
Lei e Renzo si sarebbero ritrovati, lo avrebbe aiutato ad uscire dal suo periodo nero, si sarebbe dedicata solo a lui e a Livietta e piano-piano sarebbero tornati quelli che erano un tempo. Città nuova, vita nuova.
 
E Gaetano?
 
Una tentazione, così l’aveva definito davanti alla tomba della sua professoressa.
 
Qualche migliaio di chilometri sarebbe bastato a darle la forza di mantenere i suoi propositi di stargli lontana e di non cedere più alla tentazione. Di non cedere oltre.
 
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
 
Tutte palle.
 
Chi ha scritto quella frase forse non sa che pure il cuore ha gli occhi, che magari di giorno stanno chiusi ma di notte, nei sogni, ci vedono benissimo.
 
L’aveva sognato in continuazione, soprattutto i primi tempi, tutte le notti.
 
Ogni volta che le succedeva qualcosa di bello, di brutto o che, peggio, non le succedeva proprio niente, avrebbe solo voluto poterne parlare con lui. Avrebbe voluto potersi sfogare con lui di quella maledetta città in cui si sentiva come un’estranea, in cui si sentiva sfiorire e appassire come una piantina tenuta chiusa in una stanza buia, mentre Renzo, almeno lui, sembrava sentirsi finalmente a casa e rifiorire ogni giorno di più. Ma non con lei, visto che lei era diventata l’angelo di un focolare perennemente vuoto e spento.
 
Avrebbe voluto potersi lamentare degli  orari, delle abitudini che non le appartenevano, di quella lingua che continuava a suonarle estranea, di quanto le mancassero Roma, sua madre, le sue amiche, i suoi studenti, il suo lavoro.
 
Di quanto le mancasse lui.
 
Era stata tante volte sul punto di chiamarlo anche solo per sentire la sua voce, come la peggiore stalker psicopatica o come la peggiore ragazzina patetica che fa le poste al ragazzo più grande che le piace.
 
Si era sempre fermata in tempo.
 
Ma aveva consumato come se fosse metadone una fotografia di lui, l’unica che aveva, il ritaglio di un giornale, un articolo sul loro primo caso insieme dopo il ritorno da Praga. La custodiva gelosamente come segnalibro in uno dei pochi romanzi rosa che possedeva – un regalo poco azzeccato che aveva abbandonato alla ventesima pagina – e a cui sapeva che Renzo non si sarebbe avvicinato nemmeno per sbaglio. E ogni tanto si faceva la sua dose quotidiana, quando suo marito non c’era.
 
Non che fosse difficile, visto che Renzo c’era sempre meno.
 
Aveva capito il motivo di quelle assenze quando le aveva annunciato così, da un giorno all’altro, che il loro matrimonio era finito. È stato bello ma non funziona più, grazie e arrivederci.
 
La botta era stata devastante. Lei odiava i fallimenti, li aveva sempre odiati e quello non era solo un fallimento, era IL fallimento. Un fallimento totale, su tutta la linea.
 
Aveva sradicato se stessa e sua figlia, aveva rinunciato a tutto, aveva rinunciato a LUI e per cosa? Per ritrovarsi di nuovo la casa piena di quei dannatissimi pezzi di cartone, per ritornare con la coda tra le gambe da dove era partita ma senza un marito e con l’autostima e il cuore in frantumi, più un principio di depressione.
 
E poi il tempo era passato a lenire almeno un poco le ferite e di nuovo altri scatoloni, questa volta per traslocare alla “Fattoria” con Marco dopo un fidanzamento lampo.
 
Povero Marco: era stata davvero una stronza con lui. La peggiore delle stronze.
 
Ma quando Renzo era tornato dicendole che non poteva passare tutta la vita con Marco, lei aveva sentito che aveva ragione. Non poteva farlo.
 
Sempre con il dannatissimo senno di poi, non sa quanto sia dipeso da Renzo e quanto da Marco. Perché, anche se aveva provato a convincersene in ogni modo, lei non aveva mai amato davvero Marco e ritrovare un certo commissariopromossovicequestore gliel’aveva fatto capire senza più alcuna ombra di dubbio.
 
Perché quello sciame d’api si era risvegliato e aveva fatto mille volte più casino in cinque minuti, nel rivedere Gaetano a Torino di fronte al commissariato e poi dalla finestra di fronte – maledetto e benedetto di nuovo il fato beffardo – che in tutta la sua grande storia d’amore con Marco messa insieme.
 
Ma aveva avuto bisogno di credere di amarlo Marco, perché il produttore di vini non era solo molto affascinante, ma era l’uomo giusto al posto giusto e lei aveva appena scoperto di aver perso per sempre non solo Renzo ma pure il sogno mai del tutto svanito da un angolo della sua mente e del suo cuore di un… di un qualcosa tra lei e il suo commissario.
 
Ma il suo commissariodiventatovicequestore non era più suo: si era sposato, aveva figliato, come aveva detto Torre e si era scordato di lei.
 
Come Renzo, anche Gaetano era andato avanti.
 
E lei era rimasta indietro, con un palmo di naso e una dieta degna di un culturista a base di uova al tegamino: chi troppo vuole nulla stringe. Così diceva sua madre… pace all’anima sua.
 
Aveva disfatto tutti i cartoni appena preparati, impilati e caricati sul camion ed era tornata insieme a Renzo in quella che era stata la loro casa, il loro nido d’amore. In cui si era, per l’ennesima volta, illusa che avrebbero potuto tornare ad essere quelli che erano stati una volta.
 
Peccato che dal nido Renzo era di nuovo volato via subito, in direzione Torino. E come facevano a tornare ad essere una coppia, una famiglia, se metà della coppia e un terzo della famiglia era presente, quando andava bene, per un paio di weekend al mese?
 
E quindi altro giro, altro trasloco, altre scatole riempite e catalogate con precisione certosina, nonostante le proteste e gli scioperi della fame di Livietta contro la deportazione e nonostante sua madre continuasse a ripeterle che era una pazza a sradicare di nuovo la sua vita per il Mostro.
 
Ma lei a ribattere come un mantra a loro e a se stessa che con la convivenza tutto si sarebbe aggiustato.
 
Città nuova, vita nuova.
 
Quand’è che l’aveva già sentita quella frase?
 
Poco importa: tutte palle.
 
Erano ritornati alla loro vecchia vita, sì, la vecchia vita con lei che passava sempre più tempo con Gaetano da una parte e Renzo che passava sempre più tempo con Carmen dall’altra.
 
La cara vecchia Carmen, che lei aveva accettato di far richiamare pregando e sperando che o lui si rifiutasse o si rifiutasse lei.
 
Come no….
 
Sua madre di nuovo le aveva dato della cretina a fidarsi, perché il lupo perde il pelo – o i capelli – ma non il vizio.
 
Non è sicura se credere o meno in qualcosa dopo la morte, anche se a volte, nei momenti peggiori, aveva quasi sentito la presenza, il conforto di sua madre, che sembrava farle forza, ma è sicura che, da dovunque stia ora, sua madre stia morendo dalla voglia di dirle “te l’avevo detto!” e poi di stringerla in quell’abbraccio fortissimo di cui avrebbe maledettamente bisogno da quando Renzo è tornato a casa una sera, iniziando a balbettare scuse assurde e a delirare di hotel a cinque stelle e grappe aromatiche, mentre il suo cervello e la sua stramaledetta capacità deduttiva avevano già dedotto, avevano già capito e si rifiutavano di capire.
 
E poi la mazzata finale, l’ultima umiliazione, la più grande: suo marito stava per avere un altro figlio.
 
Lei no.
 
Non sa cosa le abbia fatto più male, più schifo: se immaginarsi Renzo e Carmen insieme in un eterno incubo ad occhi aperti e ad occhi chiusi, in ogni squallidissimo dettaglio, se il fatto che Renzo avesse cercato di giustificare il suo tradimento con il suo rifiuto di seguirlo ad un pallosissimo convegno di architettura e con i fumi della grappa aromatica, mentre lei non aveva mai ceduto di una virgola alle tentazioni nonostante tutto il vermouth ingollato a stomaco vuoto, o se sapere che il suo devoto marito non aveva nemmeno preso delle stramaledettissime precauzioni. Che non aveva minimamente pensato né a se stesso, né a Carmen né a lei, nemmeno alla sua salute fisica oltre che a quella mentale che ormai è a dir poco vacillante.
 
Aveva urlato, pianto, mangiato, vomitato, dato sfogo al dolore e alla rabbia tra le quattro mura di quell’appartamento ormai vuoto.
 
Non si era trattenuta, meno male che il vicino faceva il turno di notte e non l’aveva sentita, ma quell’abbraccio… quell’abbraccio di cui aveva sentito disperatamente bisogno le era mancato e le manca ancora.
 
In un attimo di follia era corsa alla finestra, non per buttarsi giù ma per guardare al di là del cortile e quello che aveva visto era stato come uno schiaffo, un tradimento quasi peggiore di quello di Renzo.
 
Gaetano, il suo Gaetano che accoglieva e consolava non lei ma il fedifrago con la sua grandissima faccia tosta e la sua grappa aromatica.
 
Maledetta solidarietà maschile: li avrebbe uccisi entrambi!
 
Tanto che l’aveva mandato a quel paese, lui e il suo messaggino in piena notte, perché certo, la priorità era il fedifrago che poverino non aveva un tetto sulla testa, non lei sola a mangiarsi il fegato e vomitare l’anima in un appartamento vuoto.
 
Ma, anche se non capisce ancora del tutto il comportamento di Gaetano di quella sera, con il passare dei giorni e soprattutto con ogni piccolo, grande gesto che le dedicava, piano piano il senso di tradimento e il risentimento nei suoi confronti si erano sciolti come neve al sole lasciando il posto solo ad un’immensa gratitudine e a quel dolore sordo piacevole al petto che da anni ormai associa unicamente a lui.
 
Perché quella sera Gaetano non aveva preso le parti di Renzo, Gaetano era, è e sarà sempre dalla sua parte, ora lo sa. Non era Renzo che voleva aiutare, difendere, proteggere,  ma lei. Di questo ora è sicura, anche se forse non comprenderà mai i ragionamenti di Gaetano quella sera.
 
Perché in tutte queste settimane, in tutti questi mesi, fin da subito, non aveva perso occasione di dimostrarle sostegno e vicinanza in una maniera così delicata e rispettosa e sensibile che le provocava un bruciore agli occhi – per una volta piacevole – e quell’ormai arcinota fitta al petto. Riusciva incredibilmente ad essere presente senza essere opprimente, ad esserci quando aveva bisogno di lui e a capire quando voleva stare da sola. Sembrava intuire, fiutare come un segugio quando stava per lasciarsi andare e con due battute farle ritrovare un minimo di quella fiducia in se stessa e di quell’autostima che si erano polverizzate di fronte a quest’ennesima umiliazione, a quest’ennesimo fallimento.
 
Il suo fallimento, perché come si dice… se mi freghi una volta è colpa tua. Ma se mi freghi due volte è colpa mia.
 
E lei si era fatta fregare di nuovo, come una cretina, ostinandosi a salvare qualcosa che non poteva essere salvato, perché Renzo, nonostante tutti i suoi proclami di amore e di pentimento non la amava più, non come un marito dovrebbe amare e soprattutto rispettare una moglie.
 
E anche se davvero è amore quello che prova per lei, che se ne fa lei di un amore così?
 
Non contano le parole ma i fatti e i fatti stanno a zero: se questo è amore, lei non vuole averci più niente a che fare con l’amore.
 
Tutte palle.
 
Perché lei aveva e ha disperatamente bisogno d’amore, d’amore vero, puro, di bene, come mai prima di quel momento, aveva bisogno di quell’abbraccio che non riusciva a chiedere e non riusciva a dare. Nemmeno a lui: quella sera sì, sì che avrebbe potuto, nella vulnerabilità e nella disperazione, aggrapparsi a lui, lasciarsi abbracciare e avvolgere da tutto quel calore che le trasmetteva con la sua presenza. Perché se c’è una cosa di cui Camilla è sicura è che lui non avrebbe mai approfittato della sua vulnerabilità, mai, soprattutto non quella sera.
 
Ma dopo… dopo era tardi… aveva paura di essere ferita, aveva paura di quello che provava per lui, di quello che lui provava per lei, sapeva e sa che ogni loro abbraccio è troppo pericoloso per lei, si sentiva e si sente ancora troppo scoperta, vulnerabile, nuda, fragile e si era chiusa a riccio completamente.
 
Era stato, come sempre, dannatamente e miracolosamente bravo a far breccia nelle sue difese, da quando l’aveva convocata a tradimento con la complicità del vicepreside, l’aveva portata a levarsi gli occhiali che indossava come uno scudo, le aveva preso le mani e, guardandola negli occhi, l’aveva implorata di permettergli di starle vicino.
 
La cosa più simile a quell’abbraccio che potesse permettersi e permettergli in quel momento senza fuggire o senza sciogliersi in lacrime e singhiozzi, anche se c’era mancato un soffio e sa che lui lo sapeva.
 
Era diventato esattamente quello di cui aveva bisogno: l’amico dolce, comprensivo, rispettoso e corretto. Perfetto. Niente più avvicinamenti pericolosi, solo qualche battuta ogni tanto – e per i primi tempi nemmeno quelle – come a ricordarle quello che c’era e ci sarebbe sempre stato, che LUI ci sarebbe sempre stato ma che sapeva aspettarla. Che avrebbe aspettato che lei fosse pronta, che il suo cuore e il suo ego feriti a morte si fossero un minimo rattoppati, che uscisse dal suo periodo nero e…
 
E un giorno chissà…
 
Tutte palle.
 
Aveva aspettato certo. Aveva aspettato giusto il tempo che lei svuotasse gli armadi, i cassetti, per gettare quasi tutta la roba del fedifrago in altri dannatissimi cubi di cartone, anche se nei cassetti continuavano a spuntare a tradimento cose che le ricordavano di lui, anche se il fedifrago, anzi Renzo - doveva abituarsi ad avere un rapporto almeno civile con lui, per il bene di Livietta, sebbene l’avrebbe voluto uccidere per quel mezzo sorriso che gli era spuntato sul volto quando le aveva confermato di aspettare IL MASCHIO che tanto aveva desiderato e che lei non si era forse mai sentita pronta a dargli – non si decideva a completarlo il trasloco e il suo studio sembrava ancora un garage.
 
Aveva aspettato che lei abbassasse le difese, che ritirasse gli aculei, che si sentisse talmente in pace, talmente serena con lui e con quell’angelo di suo figlio da portare il suo corpo e il suo inconscio a tradirla. Due volte. A lasciarsi andare nella stanza di Tommy a quel sonno che disperatamente ogni notte le sfuggiva e arrivava sempre troppo tardi: prima sulla scrivania e poi in quel letto così grande per un bimbo.
 
Una piuma tra i capelli e sulla spalla l’aveva svegliata – per modo di dire perché era ancora mezza intontita – e istintivamente, senza quasi pensarci, l’aveva salutato come si impediva sempre di fare, con un bacio sulla guancia ben diverso dai guancia a guancia che di solito dà agli uomini che definisce amici, senza sottotesti e virgolette.
 
Si era dimenticata per un secondo quanto fosse pericoloso Gaetano per lei, quanto fosse pericoloso avvicinare i loro visi in quel modo.
 
Ma lui gliel’aveva ricordato, l’aveva risvegliata bruscamente e dolcemente con un vero bacio, breve, delicato, lieve come quel tocco sul collo e dalla forza dirompente di uno tsunami.
 
Come sempre… ma stavolta era diverso, perché mentre gli dava le spalle senza guardarlo e chiamava quel maledetto ascensore che sembrava non arrivare mai, non si era solo sentita confusa, sconvolta, come sempre, no! Stavolta c’era anche un vago sentore di rabbia che montava dentro di lei.
 
Non saprebbe dire se verso di lui per avere infranto questo specie di patto non scritto di solidarietà non amorosa o verso se stessa per avergli permesso di infrangerlo, per averlo quasi invitato ad infrangerlo per… per non riuscire a fare a meno di lui, a tremare ad ogni suo tocco, a desiderare disperatamente di voltarsi, spingerlo contro quella porta e baciarlo – come aveva fatto mille volte nei brevi e tormentati sonni delle notti successive. Per non riuscire, allo stesso tempo, a lasciarsi andare, a non avere paura di lui, dell’intensità viscerale di questi sentimenti ingarbugliati che prova per lo stimatissimo vicequestore Gaetano Berardi a cui non vuole, non può dare un nome, perché quel nome la atterrisce e la fa sentire ancora più fragile e vulnerabile di quanto già è.
 
L’aveva evitato per due settimane, due intere settimane, o forse era lui che aveva evitato lei. Di sicuro non l’aveva cercata, non aveva provato ad avvicinarsi e per i primi giorni questo le aveva fatto comodo. Oh, se le aveva fatto comodo!
 
Al quarto giorno una specie di ronzio nell’orecchio aveva cominciato a infastidirla, diventando sempre più forte mano a mano che i giorni passavano, mano a mano che il campanello non suonava, il cellulare non squillava. Nessun caso, nessuna scusa per vederlo, nessuna nuova improbabile emergenza sanitaria di Tommy – almeno non che lei sapesse. Aveva solo incrociato padre e figlio in cortile una sera quando era scesa un attimo per portare Potti a fare i bisogni.
 
Il fatto che l’avesse fatto proprio all’orario in cui di solito Gaetano e Tommy rientravano dal lavoro e da scuola e che l’attimo era durato più di un quarto d’ora, nonostante l’aria già fredda di fine novembre, era ovviamente da ritenersi assolutamente casuale.
 
Tommy aveva salutato lei e Potti con il solito entusiasmo ma, mentre cane e bimbo giocavano insieme, tra lei e Gaetano era sceso un silenzio gelido più della sera che era già notte.
 
Nessuno sembrava intenzionato ad aprire bocca per primo, forse entrambi si aspettavano una parola, una giustificazione, delle scuse o anche solo delle recriminazioni.

Niente, solo qualche occhiata fugace prima che Gaetano ricordasse a Tommy che era ora di cena e ignorasse, come lei, l’invito del bimbo ad unirsi a loro, facendo finta di non aver sentito e salutandola con due frasi di circostanza.
 
Lo sguardo deluso di Tommy l’aveva fatta sentire uno schifo ancora più di quanto già si sentisse, ma era stato niente rispetto al gelo che le era ormai entrato fin nelle ossa, un gelo che nemmeno una serata davanti a un caminetto acceso avrebbe potuto estinguere.
 
A meno che non ci fosse qualcuno insieme a lei davanti al caminetto – le ricorda la vocetta maliziosa e tentatrice nella sua testa che ha, chissà perché, lo stesso tono di Francesca.
 
Aveva capito istintivamente che c’era qualcosa nell’aria, qualcosa che non andava, che stavolta era diverso e ne aveva avuto conferma una sera quando, senza farsi vedere, da perfetta stalker quale era diventata, aveva spiato acquattata  dietro le tende la finestra di fronte.
 
E, proprio davanti al divano, ci aveva trovato la sua nemesi: uno di quei cosi oblunghi marrone chiaro, con le inconfondibili freccette nere rivolte verso l’alto e la scritta fragile, che, pure se non riusciva ovviamente a leggere, avrebbe potuto riconoscere anche a chilometri di distanza.
 
Avrà comprato qualcosa per Tommy – primo pensiero. Magari un giocattolo di quelli voluminosi, da montare.
 
Ma il ronzio nelle orecchie era aumentato mentre nello stomaco nessun brusio stavolta, solo una specie di sasso che non voleva andarsene né su né giù.
 
Aveva ignorato sasso e ronzio anche quando la sera dopo era apparso un altro di quei cosi, impilato sopra al precedente nel salotto di casa di Gaetano, ed il ronzio era diventato una specie di sibilo, di fischio fastidioso e sempre presente.
 
Magari ha comprato qualche mobile nuovo per rinnovare la stanza di Tommy o magari sta dando via i vestiti che al bambino ormai non vanno più – del resto Tommy cresce talmente in fretta!
 
Tutte palle.
 
La terza sera, poco dopo che Livietta si era ritirata in camera sua – ultimamente sembrava sempre stanca, strana, aveva poco appetito, forse le mancava George o forse non si era ancora ripresa dalla botta di suo padre e, passata la fase di rabbia, era arrivata quella del dolore – c’era stata la mazzata finale.
 
Un terzo e un quarto scatolone, accanto ai primi due.
 
Se due indizi fanno una prova, quattro fanno una certezza.
 
La conferma che c’era qualcosa che non andava, qualcosa di grave, di storto, l’aveva avuta quando al fischio si era accompagnato uno strano formicolio che dalla punta delle dita le aveva invaso le braccia, quando improvvisamente il ferretto del reggiseno sembrava essere diventato di due taglie più stretto e impedirle di respirare, il fiato corto, il battito di un tamburo nel petto, le labbra secche ed addormentate.
 
Stava arrivando un altro attacco di panico e si era imposta di mettersi seduta sul divano a respirare, a fare gli esercizi che alla fine le aveva insegnato Francesca, visto che lei si era rifiutata di andare dalla psicologa che le aveva consigliato.
 
Dopo una chiamata a Francesca, trascorsa tentando di ignorare la preoccupazione nella voce dell’amica, che, con Roberto in casa, non poteva correre lì senza preavviso, si era tranquillizzata e l’aveva rassicurata che tutto andava bene.
 
Tutte palle.
 
Per la carità, l’attacco di panico era passato ma non andava affatto tutto bene, per niente.
 
Seguendo un impulso irrefrenabile, si ritrova adesso, meno di ventiquattr’ore dopo quella telefonata, insieme a Potti in giardino, seduta su una panchina, accoccolata a lui per scaldarlo e per scaldarsi, i bisogni ormai soddisfatti da un pezzo.
 
Quelli di Potti almeno.
 
Mentre cerca di non battere i denti per il freddo, ode infine i passi inconfondibili di padre e figlio raggiungerla, imbacuccati quasi quanto lei ma sicuramente molto meno intirizziti.
 
Il dolcissimo peso di Tommy le vola in braccio, trasmettendole per qualche istante il calore di cui ha disperatamente bisogno per poi sparire così come è venuto, perché Tommy si è lanciato a giocare con Potti, sgambettando per tutto il giardino dietro al cagnolino.
 
Dopo aver studiato per un attimo i loro giochi, invidiando benevolmente quella meravigliosa ed ormai irraggiungibile innocenza, Camilla solleva lo sguardo ed incrocia per la prima volta quegli occhi azzurri che la guardano con… con preoccupazione?
 
“Sei sicura di stare bene?” domanda Gaetano, dopo essersi schiarito la voce, come se non fosse più abituato ad usarla.
 
“Bene?” ripete lei, confusa, trattenendo l’impulso di scoppiare in una risata sarcastica e replicare che no, non va tutto bene, per niente.
 
La sua vita e bene è da qualche mese che vivono ai poli opposti del globo terracqueo.
 
“Sei quasi blu…” proclama con voce neutra e bassa, sollevando un dito e puntandolo verso la sua bocca, prima di mordersi quelle labbra che avevano catturato le sue a tradimento e che popolavano i suoi sogni da allora anzi da… da… era perfino inutile provare a fare il conto e poi lei e la matematica non erano mai andate d’accordo, “da quanto è che stai qua fuori?”
 
“Potti aveva bisogno di… di fare i suoi bisogni e io avevo bisogno di un po’ d’aria,” risponde semplicemente, con tutta la nonchalance di cui è capace, ignorando la domanda pronunciata e quelle sottintese.
 
Gaetano sembra per due o tre volte sul punto di dire qualcosa per poi bloccarsi senza che un solo suono esca dalla sua gola.
 
Prima che il silenzio si faccia ancora opprimente, Camilla tira un respiro, prende coraggio e sgancia la domanda che stava per esploderle in testa come una bomba, lasciandola deflagrare in mezzo al giardino.
 
“Ho visto gli scatoloni,” dichiara, la voce talmente roca che quasi non si riconosce.
 
“Ah.”
 
Ah? Ah?! – vorrebbe urlargli, di fronte a quella che non è una risposta, non è nemmeno una parola… di fronte a quel sospiro che alza nuvole di vapore nell’aria e a quell’espressione così dannatamente piatta ed imperscrutabile.
 
Ah?! Non c’è nient’altro che mi devi dire? Qualcosa che io non so?” domanda infine, facendo leva su tutto il suo self control per evitare di alzare la voce, ma non potendo evitare la nota accusatoria che risuona chiaramente nel silenzio del cortile.
 
“Credo di averti già detto tutto, di averti sempre detto anche più di tutto, Camilla. Tu, piuttosto: non c’è niente che mi devi dire? Qualcosa che io non so?” chiede di rimando Gaetano dopo un attimo di esitazione, guardandola negli occhi come a volere studiare ogni sua espressione, un tono neutro e stanco che non gli aveva mai sentito usare prima e che non avrebbe saputo definire ma che suonava così asciutto e… e freddo rispetto al calore, alla dolcezza a cui l’aveva ormai abituata.
 
Un tono che la fa imbestialire.
 
“Io?! Non sono io quella con il salotto che sembra un magazzino! Forse mentre mi dicevi tutto e più di tutto, questo piccolo particolare te lo sarai scordato!” sibila, sarcastica, non riuscendo a trattenersi oltre e sorprendendosi da sola nel sentirsi apostrofare Gaetano con un tono che finora aveva riservato solo per il fedifrago.
 
E non è la sola ad essere sorpresa – e turbata – a giudicare dal modo in cui gli occhi di Gaetano si spalancano per qualche istante prima di tornare a quella maledetta espressione inintelligibile.
 
“Che significano quegli scatoloni, Gaetano?” chiede con un tono più tranquillo dopo altri interminabili istanti di silenzio passati a studiarsi a vicenda, cedendo ed esplicitando quella domanda di cui ha una paura folle di conoscere la risposta.
 
Ma deve sapere, ha bisogno di sapere.
 
“Cosa vuoi che significhino, Camilla? Viste le tue incredibili capacità deduttive, immagino che tu l’abbia già intuito, no?” le fa eco, il tono altrettanto calmo, scuotendo leggermente il capo e continuando a fissarla con quegli occhi azzurri che sembrano brillare sotto la luce artificiale che illumina il cortile, senza scomporsi.
 
“Stai… stai traslocando?” esala, capitolando di nuovo, la voce che le si spezza a tradimento sull’ultima parola.
 
“Sì.”
 
Due lettere, una sillaba, una coltellata al cuore assestata con un semplice cenno del capo, con una tranquillità, una pacatezza da perfetto serial killer.
 
“Ti… ti hanno trasferito?” riesce infine ad enunciare deglutendo la palla di ovatta che le si era incastrata in gola, il fischio nelle orecchie talmente intenso da causarle un principio di vertigini, le formichine che cominciano a zampettarle sulle dita.
 
Ma come puoi essere così calmo? Come puoi dirmelo così?! Come hai potuto non dirmelo prima, fare finta di niente!? – una voce le ruggisce e le rimbomba nella scatola cranica mentre a bocca cucita aspetta il verdetto del boia e la sua mente visualizza mete sempre più lontane ed irraggiungibili: Milano, Firenze, ancora Roma, Napoli, Bari, Catania, Praga – maledetta Praga! –, Barcellona – ironia della sorte –, Tokyo, Honolulu.
 
Non ora, non ora! Non posso perderti, non ce la faccio! – continua a ripetere come un mantra, le formiche che le risalgono le spalle accompagnate da fitte calde e pulsanti, non potendo credere all’ennesima beffa di quel grandissimo stronzo che di nome fa Fato o Destino e, allo stesso tempo, sapendo che in fondo avrebbe dovuto aspettarselo.
 
Perché Gaetano è un vicequestore, un funzionario di polizia, e i funzionari di polizia non rimangono mai per troppi anni nello stesso posto. E lui era già da molto tempo che stava qui a Torino.
 
E se invece si fosse fatto trasferire? Per colpa sua… per colpa del suo rifiuto come… come tanti anni prima a Roma quando era partito per Praga. E anche allora non le aveva detto niente se non all’ultimo minuto e-
 
“No.”
 
Altre due lettere, una sillaba, un altro cenno del capo, questa volta in negazione, pronunciato semplicemente, sempre con quel tono tranquillo, prima di chiarire, “rimango a Torino, Camilla: cambio solo appartamento.”
 
Per qualche istante il tappo d’ovatta si scioglie in gola, le formiche si bloccano nella loro corsa, il fischio nelle orecchie si attutisce e il reggiseno torna ad essere di una taglia umana e non più stretto del corsetto di Rossella O’Hara.
 
Fino a quando il suo cervello, a tradimento, fa il collegamento successivo e non può evitare di chiedersi-
 
“Perché?” la parola sfugge dalle sue labbra prima che possa trattenerla, temendo questa sentenza quasi più della precedente, visto che non può nemmeno dare la colpa ad ordini superiori, no, è evidente che Gaetano ha scelto così e c’è solo una possibile spiegazione, “è per quello che… è per quello che è successo due settimane fa?”
 
“No,” scuote il capo, l’espressione del viso che sembra addolcirsi leggermente, per poi aggiungere, sempre con quel tono così pacato, “cioè forse in parte sì ma… diciamo che mi si è presentata un’occasione irripetibile che non potevo non cogliere al volo e… e poi forse avevo bisogno di cambiare un po’ e magari mi porterà fortuna. Com’è che si dice? Casa nuova, vita nuova?”
 
Camilla trattiene a stento una risata sarcastica, chiedendosi per la milionesima volta da quando conosce Gaetano se lui abbia il potere di leggerle nel pensiero ma anche, forse per la prima volta da quando lo conosce, se la stia prendendo per il culo, per usare un francesismo.
 
Qualche secondo ed il dubbio la colpisce come una doccia gelida. Un’occasione? Vita nuova? Non è che…
 
“C’è di mezzo un’a- una donna non è vero?” pronuncia in quella che più che una domanda è una certezza, bloccandosi appena in tempo prima di sibilare un’altra.
 
Gaetano spalanca gli occhi per un secondo, sembrando sorpreso, prima di ammettere, sempre con quello stramaledetto tono indefinibile, “sì, in effetti sì.”
 
Altro che doccia gelida, è come se tutta l’acqua delle cascate del Niagara le fosse precipitata addosso tutta insieme, schiaffeggiandola in pieno viso.
 
E mo chi è questa squinzia?! – è il primo pensiero che la sua mente enuncia in perfetto romanesco.
 
Come hai potuto?! – è il secondo, mentre un senso di tradimento la invade fin nelle viscere, mentre una rabbia cieca le monta in gola.
 
“Ah, beh, certo! E magari ti trasferisci nell’appartamento di fronte al suo, dall’altra parte del cortile, no? Così vi potete guardare tutti i giorni dalla finestra!” sibila sardonica e acida quanto il liquido che le ribolle nello stomaco mentre un ghigno tirato che è praticamente un rictus le si dipinge in viso.
 
“In realtà no… stesso pianerottolo, appartamento a fianco… sai, è molto più comodo, se uno avesse… bisogno di qualcosa, soprattutto dopo una certa ora…. Niente cortili da attraversare, niente scale, niente ascensori,” ribatte serafico, le labbra che si schiudono in un sorrisetto che la colpisce peggio di uno schiaffo, peggio perfino di quel mezzo sorriso del fedifrago quando gli era toccato confermare che il suo nuovo erede era IL MASCHIO.
 
Si artiglia i palmi delle mani per trattenersi dal tirarglielo uno schiaffo, uno vero, una cinquina di quelle che ti lasciano il segno rosso a giorni di distanza.
 
Sei un grandissimo stronzo! – questo avrebbe voluto urlargli, se non fosse stato per Tommy, il portiere, i vicini e il suo benedetto e maledetto orgoglio.
 
Francesca aveva proprio ragione quando diceva che gli uomini sono tutti stronzi, dal primo all’ultimo. Anzi, no, non aveva ragione, visto che le aveva consigliato di gettarsi tra le braccia di Gaetano che, evidentemente, come aveva sempre in fondo-in fondo temuto, era come consigliarle di gettarsi da un aereo senza paracadute.
 
“Complimenti! Certo che ti sei consolato in fretta!” il suo inconscio la tradisce quando si rende conto, in un moto di sgomento, dalla sua bocca che si sta ancora muovendo, di averlo detto ad alta voce.
 
“Come?” domanda Gaetano, spalancando di nuovo leggermente gli occhi, sembrando colto di sorpresa.
 
“Dicevo, complimenti! Però adesso vado di fretta. Potti, andiamo?” esclama, chiamando il cagnolino che arranca verso di lei, affaticato dai giochi con Tommy, non sollevando gli occhi neanche per sbaglio e tenendoli fissi sul cane – manco morta lo ripeto, stronzo!
 
“Camilla, non rimani con noi a cena? È tanto che non stiamo un po’ insieme!” la implora Tommy con due occhioni che sono un’arma impropria e che le ricordano fin troppo quelli del padre quando vuole chiederti un favore o ha qualcosa da farsi perdonare.
 
Solo che questa non basterebbero mille sguardi per perdonargliela.
 
“No, amore, non posso e poi… tu e papà sarete impegnati nei preparativi del trasloco…” risponde, chinandosi per  dargli un bacio di saluto sulla guancia e non resistendo all’impulso di abbracciarselo stretto-stretto al petto un’ultima volta.
 
Perché è praticamente sicura che non ci sarà più un’altra cena, un’altra occasione. Non potrebbe sopportare di vedere Gaetano con un’altra, non adesso, non… non ce la fa, non può farcela.
 
Con uno sforzo sovrumano lascia andare Tommy, afferra di nuovo il guinzaglio di Potti, mentre le formiche ballano la samba sulla sua mano e sfrecciano in autostrada sulle sue braccia, fa per voltarsi ed andarsene quando due dita sul polso destro la bloccano, costringendola a girarsi verso di lui e guardarlo per la prima volta negli occhi.
 
“Camilla, aspetta, ma che hai capito? Guarda che io-”
 
“Guarda che ho capito benissimo!” sussurra, bassa, tagliente e letale, fulminandolo con un’occhiata che incenerirebbe pure l’acqua, prima di strattonare il braccio e liberarsi dalla sua presa, “i dettagli almeno risparmiameli!”
 
Prima che possa bloccarla di nuovo, prende in braccio Potti e si avvia verso le scale al passo più veloce che riesce a produrre senza mettersi a correre – col cavolo che gliela do questa soddisfazione! – ignorando i “Camilla!” che lui le lancia, inforcando il portoncino di ingresso e buttandoselo alle spalle con un boato che risuona per l’intero condominio.
 


 
Nota dell’autrice: e volendo la storia potrebbe anche chiudersi qui e ricollegarsi alla famosa “scena” che abbiamo visto a Porta a Porta, quella in cui si nomina la famosissima “lavatrice galeotta” xD e in cui Gaetano chiarisce l’equivoco. Ma sto scrivendo questa storia con l’intento di dare spazio ad un Gaetano che… come si può dire… coglie il malinteso al balzo per tirare fuori un po’ più d’orgoglio e un pizzico di strategia (molto più di quanto secondo me farà nella puntata di stasera) e capire, e soprattutto far capire ad una certa professoressa, come potrebbe reagire e cosa potrebbe provare di fronte alla prospettiva di perderlo per “un’altra”. E magari vedere Camilla che fa questo benedetto primo passo (che spero faccia anche stasera in puntata). Sto proseguendo a scrivere, quindi il secondo e ultimo capitolo dovrebbe arrivare domani sera o sabato, impegni imprevisti permettendo.
   
 
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