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Autore: Ailisea    24/09/2015    4 recensioni
Sono passati cinque anni dalla conclusione del viaggio alla ricerca delle Luci. Ellie è cresciuta e si è ambientata nella sua nuova città, seppur con difficoltà. Il destino, però, ha in serbo qualcosa di speciale per lei, anche se solo per una notte.
[Ellie/Riley][Riferimenti a Left Behind][Seconda classificata al contest “L’amore è l’incontro tra due fiori delicati” indetto da zenzero91]
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Ellie, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seconda classificata al contest “L’amore è l’incontro tra due fiori delicati” indetto da zenzero91 sul forum di EFP.
Autore (sul Forum e su EFP): -Tsunade- / Ailisea
Titolo: “Che bell’inganno sei, anima mia.”
Fandom: The Last of Us
Nome fiore: Ciclamino (saluti, rassegnazione e addio)
Prompt usati: Candela, Sangue, Pioggia
Extra: Immagine 23


 

Che bell'inganno sei,
anima mia.

“There is love in your body but you can't get it out
It gets stuck in your head, won't come out of your mouth
Sticks to your tongue and shows on your face
That the sweetest of words have the bitterest taste”

Ellie odiava rimanere sola.
Era una paura atavica, insolita per una ragazza all’apparenza così forte e determinata come lei. Durante tutta la sua vita non aveva fatto altro che combattere contro il suo destino, come un lupo perso in una tempesta di neve che lotta per ritrovare il suo branco, invano.
Al termine del loro viaggio, Joel le aveva detto che le Luci non erano più in cerca di una cura, che di persone immuni all’infezione come lei ce n’erano a bizzeffe, ma Ellie non gli aveva mai creduto. Se c’era una cosa che aveva imparato a fare bene durante tutti quegli anni spesi a sopravvivere come meglio poteva, era capire le persone.
Quel lungo pellegrinaggio alla ricerca delle Luci era stata l’esperienza più disastrosa della sua vita, ma anche la più bella sotto diversi aspetti. Solo pochi anni prima sarebbe voluta fuggire dalla Zona di Quarantena di Boston ad ogni costo, incurante dei pericoli che si celavano al di là delle mura di contenimento, che erano state create con l’intento di tenere il resto del mondo lontano da quelle poche migliaia di umani rimasti, ma alla fine si erano tramutate in prigioni utilizzate dai militari per tenere a bada la popolazione, che si era ritrovata a dover scegliere fra vivere in miseria in un posto relativamente sicuro, oppure tentare la fortuna in un mondo pieno di insidie che quasi sicuramente li avrebbe uccisi. O peggio.

Ellie le aveva conosciute tutte, quelle insidie: infetti, cacciatori, aveva addirittura imparato quanto le persone potessero diventare sempre più simili a bestie, una volta che la loro umanità era messa alla prova dalla mancanza di cibo. Ancora adesso, dopo tutto quel tempo, sentiva sulla gola la stretta delle mani di David che le spezzavano il respiro e la vista che si oscurava lentamente. Aveva impiegato molto tempo a riprendersi da quell’esperienza, ma la prima cosa che aveva fatto una volta tornata a Jacksonville era stato unirsi al gruppo di addestramento che si occupava di formare i ricognitori del futuro, quelle persone incaricate di sorvegliare il perimetro della città e di uscire dai suoi confini per cercare provviste e altri beni utili alla sopravvivenza di quel posto.
Nonostante Jacksonville fosse prettamente autosufficiente, c’erano dei lunghi periodi – soprattutto d’inverno – in cui i rifornimenti erano insufficienti per sfamare tutti gli abitanti di quella piccola città apparentemente profusa della sempre più rara e agognata tranquillità, in mezzo a caos e rovina.
Jacksonville non era neanche il vero nome di quel posto. Le decine di anni di infezione che il mondo aveva sperimentato, avevano finito col cancellare quasi tutti le opere umane, che si erano inevitabilmente tramutate in polvere e calcinacci assieme ai sogni delle persone. Qualcuno però ricordava ancora che quella zona, tanto tempo prima, si chiamava Jackson County, quindi qualche persona molto fantasiosa era riuscita a collegare due neuroni per battezzare la città, per l’appunto, Jacksonville. Che fantasia, aveva sempre pensato Ellie.

Ellie detestava rimanere sola.
Durante il suo addestramento aveva cercato di aggregarsi ad almeno uno dei gruppetti di ragazzi che si erano inevitabilmente formati all’interno delle classi e, per la prima volta dopo tanto tempo, era riuscita a fare amicizia con qualche persona. Per una come lei, sempre scontrosa e senza peli sulla lingua, era una grande conquista. Allison, Liam, Zachary e Brianna erano persone molto diverse fra loro, ma non si poteva dire che non fossero degli ottimi amici.
Quando Ellie aveva riscontrato qualche “problema” nell’adattarsi alla disciplina che si domanda ai membri di un’organizzazione pseudo-militare, Zachary si era subito prodigato in sua difesa; persino quella volta in cui la ragazza aveva volutamente tirato un sasso contro la finestra di uno degli istruttori, che durante l’addestramento di quel giorno le aveva sequestrato il walkman a cui teneva tanto. Zachary si era addossato la colpa di quel gesto senza poi chiedere nulla in cambio e, nonostante l’istruttore inizialmente non fosse molto convinto, alla fine non poté che lasciarsi abbindolare dalle sue parole e quindi restituì il maltolto alla ragazzina inquieta che non mancò di apostrofarlo con una serie di gestacci e insulti silenziosi, appena quello si voltò per allontanarsi.
Era fatto così, Zachary. Aveva un carisma che andava al di là della sua età, quasi come fosse una star di qualche tempo remoto, una di quelle che Ellie aveva adocchiato in un libro rovinato che parlava di un posto chiamato Hollywood, il giorno in cui lei e Joel erano arrivati alla libreria abbandonata nella città di Pittsburgh, qualche anno prima.

Allison e Liam, invece, erano fratelli gemelli. Lui le ricordava molto Winston, il soldato conosciuto all’interno di un centro commerciale abbandonato della ZQ di Boston, una vita prima. La sua noncuranza del pericolo e l’abilità con le armi facevano di lui un perfetto militare a metà: gli istruttori non facevano che ripetergli di essere più cauto, ma lui non prestava mai attenzione alle loro parole. Nonostante tutto, però, riusciva sempre ad ottenere il massimo del punteggio in ogni simulazione e ormai era quasi pronto a far parte del corpo effettivo dei ricognitori.
La sorella, invece, era l’esatto opposto: non aveva alcuna affinità con le armi da fuoco ed il rinculo del fucile da caccia le provocava sempre un livido bluastro all’altezza della spalla, ma le sue doti erano altre. Compensava questa mancanza di tempra e forza fisica con un cervello davvero invidiabile, studiava giorno e notte le mappe topografiche dei dintorni, quelle su cui i ricognitori segnavano ogni volta le zone da evitare per la presenza di infetti – i cosiddetti “nidi” – e quelle che invece erano potenzialmente utili per la raccolta di beni di ogni tipo.
I giorni in cui i ragazzi effettuavano le simulazioni nelle vicinanze della città, in un posto relativamente tranquillo scelto appositamente dagli istruttori, lei era sempre la prima ad individuare quali fossero i percorsi migliori per portare a termine la sessione di addestramento nel minor tempo possibile e, allo stesso tempo, riuscire ad accumulare il maggior numero di risorse.

Brianna, l’ultimo acquisto del piccolo gruppo, era una ragazzina arrivata un giorno di Gennaio alle porte di Jacksonville assieme ad altre cinque o sei persone, tutte successivamente inserite con successo nella comunità. Come più o meno tutti i ragazzini di quel mondo, anche lei aveva perso i genitori ma, nonostante non avesse più di quattordici anni e la sua forza fisica fosse quindi ancora molto limitata, la sua determinazione non vacillava mai e l’idea di poter contribuire alla sicurezza della sua nuova città la faceva svegliare ogni giorno con il desiderio di impegnarsi sempre di più nei compiti che le venivano assegnati dagli istruttori. Ellie non l’aveva mai vista eccessivamente triste né particolarmente felice, sembrava sempre rilassata e conscia di ciò che doveva fare, anche se non esternava molte emozioni e non si poteva mai dire cosa stesse pensando. In un certo senso, le ricordava la se stessa di tempo addietro, quella del periodo precedente all’incontro con lei.

Ellie non sopportava l’idea di rimanere sola.
I suoi amici ormai la conoscevano piuttosto bene
ma sapevano anche che, per un giorno solo all’anno,
Ellie aveva bisogno di rimanere sola.


“Prenditi il tuo tempo, noi saremo qui in zona.”
Zachary le diede una pacca sulla spalla e poi si allontanò, seguito dagli altri ragazzi della combriccola. Lentamente, Ellie li vide allontanarsi quanto bastava per rispettare la sua privacy ma abbastanza vicino da non perderla d’occhio.
La ragazza inspirò a fondo e si sedette su un grande masso, poggiandosi con la schiena al tronco dell’unico albero in quella radura. Tutto sembrava estremamente tranquillo, quella sera.
Altre volte i ragazzi erano riusciti a sgattaiolare fuori da Jacksonville attraverso un passaggio sotterraneo che avevano trovato una volta, tempo prima, quando stavano giocando a rincorrersi per le strade della città. Brianna si era nascosta in una casupola adiacente alle mura dell’accampamento, quando ad un certo punto l’occhio le era caduto su una botola seminascosta da un pesante barile di metallo. Assieme agli altri ragazzi erano riusciti a spostarlo quanto bastava per introdursi nella fessura e, nonostante le lamentele di Allison, avevano deciso di percorrerlo tutto per vedere dove portava. Per fortuna non avevano trovato segni di infetti, solo sporcizia, oscurità ed un opprimente silenzio. Una volta arrivati dalla parte opposta si erano resi conto che il canale sbucava direttamente all’interno del bosco: doveva trattarsi di un vecchio condotto fognario, più o meno come quello che Ellie e Joel avevano attraversato assieme a Sam e ad Henry, durante il loro lungo viaggio.
Da allora, almeno una volta al mese uscivano dalla città per godersi un po’ di quella libertà che non avevano mai sperimentato appieno. Nessuno era a conoscenza di questa loro trasgressione, neanche Joel. Era un momento privato, che serviva soprattutto ad Ellie per rimettere i propri pensieri a posto negli scaffali della memoria e per lasciarli lì, sospesi fra una realtà passata ed un futuro incerto che la spaventava più di quanto desiderava ammettere a se stessa.

Prese il suo vecchio zaino fra le mani e lo osservò attentamente. Nonostante il suo compito fosse ormai quello di antica reminiscenza chiusa all’interno di un armadio, per un solo giorno all’anno Ellie se ne serviva come una sorta di catalizzatore per ciò che doveva fare. Guardandolo, mille ricordi le tornarono alla mente, ma la ragazza non aveva tempo – e, a dirla tutta, neanche voglia – di dargli spazio, quindi aprì la cerniera di scatto e cominciò il suo rituale, quello che da anni ormai era fissato a quel giorno, quello che le permetteva di non perdere mai il conto di tutto ciò che aveva perso nella sua vita.
Lentamente, quasi stesse frugando fra degli oggetti sacri, Ellie svuotò lo zaino di tutto il suo contenuto, prendendosi del tempo per esaminare ogni oggetto al suo interno, un’espressione di velata tristezza dipinta sul volto.

Il coltello a serramanico che tante volte l’aveva tirata fuori dai guai ormai aveva più l’aspetto di un pezzo di ferro arrugginito: la lama era smussata e mangiata dalla ruggine in alcuni punti, il legno scheggiato. “Grazie per avermi portata fin qui”, disse mentre lo riponeva con cura all’interno dello zaino. Il pensiero corse automaticamente a quel terribile momento in cui David l’aveva braccata come il pazzo che era, all’interno del ristorante di quella città sperduta tra le montagne, l’inverno di cinque anni prima. “Spero che tu stia bruciando all’inferno, brutto stronzo” sibilò fra i denti prima di passare all’oggetto successivo.

Il robot di Sam aveva perso la vivacità dei colori e persino il bianco dei suoi componenti era diventato sporco e opaco, ma Ellie ricordava alla perfezione il momento in cui l’aveva raccolto da terra perché Henry, il fratello maggiore del ragazzino, aveva impedito a Sam di portarlo con sé. Era solo un bambino e lei non era certamente molto più grande di lui, ma già sapeva che in quel mondo non c’era spazio per quelli come loro. L’umanità era divisa in gruppi che si facevano la guerra nonostante fossero tutti minacciati dagli infetti che continuavano ad aumentare e non si stancavano mai, eppure non riuscivano mai ad aiutarsi a vicenda. Ellie, da piccola, non riusciva a spiegarsi perché. Adesso, col senno di poi e con anni di esperienza alle spalle, capiva che l’essere umano era fondamentalmente malvagio. Quando si trovava in pericolo di vita non ci pensava due volte a prevaricare il più debole. Questo non sarebbe mai cambiato, nel mondo in cui viveva.
Sam l’aveva imparato a proprie spese quando si era trasformato per colpa del morso di un runner mentre stavano fuggendo dai cacciatori di Pittsburgh, che li inseguivano come animali. Ancora adesso Ellie rivedeva il suo volto distorto dall’infezione mentre l’atterrava, tentando di morderla. Rivedeva anche il sangue che usciva copioso dalla testa di Henry, quando si era ucciso con un colpo di pistola dopo aver sparato a suo fratello. “Mi spiace davvero di non essere riuscita a salvarti, Sam” la voce le si incrinò ma fu svelta a schiarire la gola per impedirsi di piangere.

Prese fra le mani il foglio ormai mezzo stracciato e chiazzato di sangue che sua madre le aveva lasciato in punto di morte, la lettera che la spronava a battersi per sopravvivere ed a non deluderla. Ellie aveva sempre tirato avanti, in un modo o nell’altro, grazie al pensiero che sua madre le aveva voluto bene, a volte però era difficile non fermarsi a pensare che lei non c’era più e che, forse, il paradiso non esisteva. Sam, anni prima, le aveva chiesto se secondo lei le anime degli infetti avessero già lasciato il loro corpo per ricongiungersi ai propri cari, ma lei aveva risposto che non credeva fosse possibile, anche se avrebbe voluto. Chi poteva darle conferma che sua madre la stesse realmente guardando dall’aldilà? C’era davvero un posto oltre la vita in cui non esistevano solitudine e sofferenza?

Dopo aver riposto anche il vecchio walkman ormai rotto e i due libri di barzellette di Will Livingston riletti fino a consumarne la carta, Ellie arrivò all’oggetto che più amava. Quello che le ricordava costantemente di come avesse fallito nel salvare la persona che le stava più a cuore. Le ricordava del suo turno, che mai sarebbe arrivato.
Il pendente delle Luci era ormai ossidato ed il disegno inciso su di esso sbiadito da tempo. Sul retro, però, il numero di matricola ed il nome, Riley, erano ancora ben visibili. Era tutto ciò che le importava. “Riley, io...”
Non fece in tempo a finire la frase che il suono di voci urlanti invase la radura, echeggiando da una parte all’altra del bosco con una risonanza sinistra. Le grida erano ancora abbastanza lontane, ma Ellie tirò su la testa di scatto per cercare con lo sguardo i suoi amici.

“Runner!”
Allison e Liam urlarono all’unisono, mentre Zachary faceva segno ad Ellie di correre verso di lui e Brianna slegava velocemente il fucile dal legaccio dello zaino per imbracciarlo come il migliore dei cecchini, nonostante la sua mole. Ellie raccolse lo zaino come un lampo e corse incontro ai suoi amici, mentre quelli si nascondevano dietro agli alberi. Alle sue spalle, le ombre dei runner cominciavano ad avvicinarsi veloci arrivando dall’altra parte della radura. Mi avranno vista?, pensò mentre correva a perdifiato.
“Psst Ellie, di qua” con un filo di voce Brianna l’attirò nella sua direzione, sperando che gli infetti fossero abbastanza lontani da non sentirla né vederla. Ellie si sistemò dietro al grande tronco di una quercia mentre Brianna scivolava silenziosa dietro ad albero poco lontano. Zachary si era nascosto dietro a dei grandi massi ricoperti di muschio e la guardava, un dito sulla bocca come monito di rimanere in silenzio. Ellie non riusciva a scorgere Allison e Liam, ma dato che non sentiva i singhiozzi della ragazza pensò che fossero riusciti a trovare un posto sicuro dove nascondersi assieme. Tutto quello che potevano fare, in quel momento, era attendere.

I suoni sconnessi si fecero sempre più vicini mentre tonfi sordi e ripetitivi segnavano la cadenza del passo veloce degli infetti che correvano attraverso gli alberi come ombre indistinte. Ellie si strinse ancora di più contro il tronco dell’albero e pregò un Dio nel quale non credeva, chiedendo con tutta se stessa di riuscire ad andarsene di lì sana e salva assieme ai suoi amici. Il rumore di un rametto che si spezzava sotto il peso di un corpo la indusse a voltarsi verso la direzione del suono.
Un runner si era avvicinato pericolosamente al rifugio di Zachary ed annusava l’aria, inquieto. Gli occhi vitrei si muovevano rapidamente nelle orbite alla ricerca della sua preda mentre digrignava i denti scheggiati, producendo un suono inquietante e totalmente innaturale che Ellie ricordava bene. Quante volte, nel suo viaggio con Joel, aveva percepito i lamenti degli infetti dormienti provenire dalle bocche e dagli occhi vuoti degli edifici ai lati delle strade che avevano percorso? Troppe per poter dormire tranquilla per tutto il resto della sua vita.
Cazzo, pensò. Doveva fare qualcosa, qualunque cosa. Zachary si era accorto della minaccia incombente e si limitava a fissare il vuoto, cercando di non muoversi e di non produrre il minimo rumore. I runner, a differenza degli altri tipi di infetti, avevano ancora il dono della vista e dell’olfatto, quindi nascondersi non era la migliore delle scelte, ma cos’altro avrebbero potuto fare quattro ragazzi di fronte ad un branco di quei mostri?
Brianna era scivolata all’interno della cavità di un tronco, quindi si trovava relativamente al sicuro. Ellie ancora non riusciva a scorgere Allison e Liam, ma la rinnovata assenza di un qualsiasi urlo o lamento la spingeva a credere che i due fossero ancora in un rifugio sicuro, magari erano addirittura riusciti a scappare per avvisare gli altri a Jacksonville. Joel l’avrebbe uccisa, se prima non l’avessero fatto i runner.

“Ehi stronzo, da questa parte!”
Ellie lanciò un sasso nella direzione dell’infetto, che rispose voltandosi di scatto verso di lei e lanciando un urlo agghiacciante che attirò l’attenzione del resto del branco.
“Oh cazzo” Il runner si precipitò verso di lei a grande velocità, mentre la ragazza sentiva gli altri infetti avvicinarsi da ogni direzione. Quando realizzò l’immensa stupidità del gesto che aveva appena compiuto, cominciò a correre anche lei nella direzione opposta rispetto alla posizione in cui si trovavano Zachary e Brianna. Schivò un runner che tentò di afferrarla per il collo e lo fece cadere a terra con uno spintone laterale, riprendendo poi immediatamente a correre, veloce come il vento.

Mentre si addentrava sempre più all’interno della foresta provò di nuovo una sensazione di terrore puro per la prima volta dopo tanti anni. Non sapeva dove stava andando e neanche le importava, quello di cui aveva bisogno era seminare al più presto gli infetti e cercare di trovare un modo per tornare indietro, ma più andava avanti, più si accorgeva di non conoscere affatto quella parte del bosco. Nelle simulazioni fatte assieme agli istruttori, si erano limitati a rimanere nel raggio di poche centinaia di metri da Jacksonville, invece Ellie stava ormai correndo da parecchio tempo e la distanza percorsa le sembrava infinita. Mentre saltava una radice scoperta calcolò che doveva aver corso perlomeno qualche chilometro, anche perché ormai il sole era calato e l’aria si era fatta più fredda, complice la pioggia simile a spilli che era cominciata a cadere e che la rallentava, inzuppandole i vestiti. Si girò per un attimo, continuando a correre, e contò almeno una decina di runner che le erano quasi arrivati alle calcagna. Loro potevano correre per ore, lei ormai era quasi esausta.
All’improvviso, come guidata da una volontà ultraterrena, girò la testa verso destra. Non seppe mai perché l’avesse fatto, ma quel piccolo gesto le salvò la vita: poco lontano da dove stava correndo, intravedeva il corso di un fiume piuttosto ampio che si snodava attraverso gli alberi. Colta da un moto di speranza, virò bruscamente dal suo percorso e fece un ultimo scatto fra i rami bassi che le graffiarono il viso e le braccia. Arrivata allo strapiombo, si buttò in acqua senza pensarci due volte.

L’acqua era gelida, la sensazione che provò fu la stessa di quando cadde nel fiume sotterraneo di quel maledetto sottopassaggio verso l’ospedale delle Luci, per tentare di salvare Joel, a Salt Lake City. Da allora, però, una cosa era cambiata: aveva imparato a nuotare.
Diede una spinta poderosa con le gambe ed allungò le braccia per risalire in superficie, riuscendo con molta fatica a domare il flusso della corrente quel tanto da restare a galla ed arrivare sana e salva alla riva. Strisciando sul terreno fangoso e concedendosi un momento per riprendere fiato, Ellie guardò dall’altra parte del fiume. Gli infetti correvano lungo il ciglio del precipizio, ma non osavano saltare. Da quel che ricordava delle lezioni alla scuola preparatoria, il Cordyceps agisce in modo che il suo ospite sopravviva il più a lungo possibile e buttarsi alla cieca nell’acqua probabilmente non era la migliore delle scelte che un fungo parassita potesse fare. La ragazza non aveva comunque intenzione di restare lì ad osservare i movimenti dei runner, quindi corse via alla svelta per cercare un rifugio sicuro, se mai poteva esistere in un luogo del genere.

***


Dopo aver girovagato senza meta, trovò una sorta di piccola caverna riparata dalla pioggia e abbastanza elevata rispetto al resto della foresta, posizione che le permetteva di osservare i movimenti nei dintorni e di farsi notare nel caso in cui fosse arrivato qualcuno a prenderla.
“Con la fortuna che ho, mi troveranno quando sarò morta di fame” la ragazza sbuffò e coprì l’entrata della minuscola grotta come meglio poté, servendosi di rami e sterpaglie raccolti nelle vicinanze. Ormai era notte e, nonostante fosse primavera, Ellie sentiva freddo. Si rannicchiò contro il fondo della grotta e contemplò l’idea di raccogliere qualche legnetto per accendere un fuoco, ma poi si ricordò che aveva piovuto e quindi avrebbe finito solamente per alzare una colonna di fumo, e fra le altre cose non poteva comunque permettersi di farsi notare da nessuno, quindi doveva rimanere al buio. Fu difficile non lasciarsi prendere dalla suggestione, quando la ragazza cominciò ad intravedere ombre che strisciavano fra gli alberi.
“Sono solo animali notturni, non fare la fifona” cercò di rassicurarsi, ma servì a poco. I brividi cominciarono a scuoterla e lei non poté far altro se non rannicchiarsi ancora di più sul fondo della grotta, sperando che nessuno la notasse fino al sorgere del sole.

Ellie era sola.
Sentiva gli occhi che bruciavano e la gola che si seccava sempre più. Nello zaino aveva solamente una piccola borraccia con dell’acqua e decise di farsela bastare per tutta la notte. Di cibo, invece, neanche l’ombra. I tremori aumentarono ancora di più e, tastandosi la fronte col dorso della mano, la ragazza si accorse di avere la febbre. Ora che l’adrenalina era scemata, fra l'altro, cominciava ad accorgersi delle ferite che si era inferta correndo fra i rami bassi nella foresta ed inciampando nelle radici esposte e sui sassi scivolosi per colpa del fango. Non sentiva più alcune dita del piede destro e quella non era assolutamente una buona notizia. Posò lo sguardo sulla scarpa e la trovo bucata all’altezza del quarto dito: lentamente la sfilò, cercando di ignorare il dolore, e tolse anche il calzino. Aveva almeno tre dita rotte, di cui una con una frattura esposta. Ellie volse lo sguardo altrove.
Il sangue non era mai stato fonte di problemi per lei, ma la consapevolezza di avere una ferita grave e potenzialmente infettabile la scosse parecchio, soprattutto perché non avrebbe potuto correre via di lì, il giorno seguente.
Cercò di inzuppare il calzino nel minuscolo rigagnolo d’acqua che scendeva lungo una parete della grotta e lo tamponò sulla ferita, scatenando una fitta di dolore che dovette reprimere mordendosi le labbra per non urlare. La febbre, nel frattempo, stava salendo sempre di più.
Sentiva la testa pesante, il respiro farsi affannoso ed il cuore aritmico a causa della perdita di sangue e della probabile infezione che aveva contratto. Guardò di nuovo il piede e notò che i bordi della ferita stavano assumendo un orribile colore scuro: non era un buon segno. Si stese su un fianco, appoggiando la testa allo zaino ma non prima di aver estratto la pistola dalla fondina. La impugnò e lottò per rimanere sveglia, ma si ripromise di usarla solamente in casi estremi, poiché il rumore dello sparo avrebbe sicuramente finito per attirare attenzioni indesiderate. Cercò di rimanere sveglia il più a lungo possibile, poiché aveva paura di non svegliarsi mai più, ma la stanchezza e la febbre ebbero la meglio su di lei e la ragazza si addormentò dopo pochi minuti.
Nell’altra mano stringeva il pendente di Riley.

Era sola, di nuovo.
Si trovava ai piedi di un enorme grattacielo che sovrastava la città con la sua sagoma scura e sentiva l’urgenza di entrare nell’edificio, ma l’eco vegliante della ragione le diceva, con voce lontana e sussurrante, di non farlo. Spinta da una forza proiettata dalle sue spalle, cominciò a correre verso il portone d’entrata. Una volta dentro vide qualcosa che mai si sarebbe aspettata di trovare. Riley era lì, bella come il giorno in cui l’aveva conosciuta, e le sorrideva. Ellie voleva raggiungerla, ma si sentiva pesantissima ed i piedi non rispondevano bene agli impulsi del cervello. In lontananza, dietro l’angolo di qualche corridoio, i lamenti degli infetti ed il passo pesante di un bloater si facevano sempre più vicini. Quando la ragazza volse di nuovo lo sguardo verso il punto in cui si trovava Riley, lei non c’era più.
Cominciò a correre con fatica scegliendo una direzione casuale ed aprì tutte le porte sul suo cammino, sperando di ritrovarla. Purtroppo però, ciò che trovò furono solamente silenzio e assenza. Alle sue spalle ormai intravedeva gli infetti e poteva addirittura scorgerne i volti: fra tutti loro riconobbe Tess, Henry, Sam, Marlene e persino Joel. Tutte le persone che aveva amato la stavano inseguendo per ucciderla, tutte tranne una. Quando arrivò alla fine del corridoio e aprì la porta che dava sulle scale antincendio, dall’altra parte trovò solamente un baratro immenso. Si voltò verso gli infetti consapevole che non sarebbe potuta scappare da nessun’altra parte, chiuse gli occhi e saltò.

Stava correndo in un corridoio illuminato dalle lampade al neon che emanavano una luce intermittente dall’aria sinistra. Accanto a lei un’altra figura fuggiva dai mostri che la inseguivano, il respiro sempre più affannoso ed il sudore che le imperlava il viso. Riley, pensò.
“Muoviti Ellie, dobbiamo seminarli!” la voce della ragazza era spezzata dalla fatica.
“Cazzo, non so dove andare!”
“Da questa parte!” Riley imboccò una porta sulla destra ed Ellie la seguì. Fecero appena in tempo, perché con la coda dell’occhio riuscì ad intravedere un altro gruppo di infetti che sbucava proprio dalla fine del corridoio che stavano percorrendo in precedenza.
“Riley dove andiamo?!”
“Su per quell’impalcatura!”
No. No, no, no, no. Ellie fissò con terrore l’impalcatura appoggiata precariamente ad una delle grandi finestre della stanza. Cercò di aprire bocca per lamentarsi ma la voce non le uscì. Si arrampicò per raggiungere Riley ma l’impalcatura, arrugginita ed instabile, crollò all’indietro, facendola cadere per terra e lasciandola alla mercé degli infetti. Poi, il buio.

“Ellie” la voce di Marlene la riscosse dall’oblio.
La ragazza rispose con un grugnito sconnesso, era ancora mezza addormentata.
“Se vuoi vederla, questo potrebbe essere l’unico momento possibile.”
Quando entrò nella camera di quarantena Riley era seduta su un letto, le spalle curve e la testa bassa che ciondolava da una parte all’altra, nascondendo il viso. I polsi erano legati a delle catene molto corte e le lenzuola sporche di sangue.
“Riley?” la voce le tremò e istintivamente portò la mano alla cicatrice del morso sul suo braccio.
“Le abbiamo dato dei sedativi, per questo è così tranquilla” Marlene era dietro di lei.
Ellie prese il coraggio a due mani e si avvicinò al letto, appoggiando una mano sulla spalla dell’altra ragazza. Quella ebbe un leggero tremito ed il suo corpo si protese istintivamente verso Ellie, ma non diede segni di aggressività.
“Riley… sono io, Ellie.”
“Non penso possa riconoscerti.”
“Vuoi lasciarmi in pace per un secondo?!” sbottò girandosi verso Marlene.
Proprio in quel momeno, Riley le afferrò un braccio ed alzò la testa verso di lei. Ellie si sforzò di mantenere un contegno, ma la vista dell’unica persona che le stava a cuore ridotta in quel modo fu troppo anche per lei.
“Porca puttana, avevi detto che avremmo perso la testa insieme e che sarebbe stato poetico! Io sono ancora qui ad aspettare il mio turno!” la rabbia che aveva represso in quei due giorni di attesa dopo che i runner avevano morso entrambe l’avevano logorata psicologicamente. Si aspettava di morire da un momento all’altro, ma la ferita non era mai peggiorata, anzi: si era come cicatrizzata. Perché a lei? Perché Riley? Perché?
Si ritrovò stretta a Riley mentre piangeva ma la ragazza non dava segni di averla riconosciuta.
“Ellie spostati, dannazione” Marlene la stava incalzando, la voce sempre più irata.
Proprio in quel momento, Riley emise un suono ed Ellie alzò la testa, speranzosa.
“Riley?” sorrise la ragazza, allungando una mano verso la guancia dell’altra.

Fu un attimo. Ci volle solamente un istante perché Riley emettesse un secondo suono più acuto e scattasse in avanti, quel tanto che le catene le consentivano, per tentare di azzannare Ellie con tutta la furia di cui era capace un infetto.
Ci volle ugualmente un istante perché Marlene facesse fuoco, il foro del proiettile che spuntava come un fiore rosso sulla fronte dell’unica persona che avesse mai amato. Non ricordava di aver mai pianto tanto in vita sua, aveva scalciato e urlato lungo tutto il tragitto verso l’esterno della base delle Luci mentre i soldati la portavano via, però Marlene non le aveva mai permesso di presenziare alla sepoltura di Riley – se ce n’era davvero stata una – o di vederla ancora per l’ultima volta. Era rimasta sospesa fra il dolore della perdita e l’incredulità di qualcosa che si sperimenta solo a metà. Incompleta, ferita, portatrice di uno sfregio mai del tutto cicatrizzato.

“Ellie” una voce gentile la svegliò di soprassalto ma la ragazza impiegò un po’ per mettere a fuoco lo sguardo. Dapprima vide solamente la luce di una candela, ma nient’altro. Stava per addormentarsi di nuovo, quando una mano le accarezzò il viso. Ellie si ridestò di colpo, impugnò di nuovo la pistola e la puntò dritta davanti a sé, ma questa le cadde di mano mezzo secondo dopo.
“...Riley?”
La ragazza annuì.
“Sto sognando, vero? È un’allucinazione? Sto impazzendo?”
“Chi può dirlo?” Riley la guardò divertita e sorrise arricciando un labbro, tratto che la contraddistingueva e che Ellie ricordava ancora molto bene, dopo tutto quel tempo.

Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Un fiume di pensieri si riversò dalla bocca di Ellie, che poté solo lasciarli affiorare, fra le lacrime.
“Cazzo mi sono sentita in colpa per tutti questi anni, anche adesso mi sento uno schifo perché tu sei morta ed io sono ancora viva. Joel mi ha detto che bisogna sempre trovare qualcosa per cui lottare ma la verità è che da quando non ci sei più mi sento persa. Mi manchi Riley, perderti mi ha spezzato il cuore e sai che non sono tipo da questi merda di sentimentalismi, però ciò che volevo dirti è che.. che... cazzo Ellie, balbetti come una bambina di cinque anni” si asciugò il naso e gli occhi con un braccio, “Riley io...” non riusciva a guardarla senza piangere ma, soprattutto, non riusciva a dire quelle semplici parole che aveva sempre sognato di pronunciare. Si sentiva debole e stupida.
Senza dire nulla, Riley si avvicinò e le posò un bacio gentile sulla labbra, un bacio puro e semplice che racchiudeva tutto ciò che le due ragazze non avevano mai avuto modo di dirsi.
“Riley, ti prego, resta con me” fu tutto ciò che Ellie riuscì a dire, fra le lacrime.
“Sai che non posso” uno sguardo pieno di tristezza si dipinse sul suo volto.
“Dimmi almeno se ciò che sta succedendo è reale!”
“Certo che è lo è. Lo stai vivendo, no?” Riley sorrise e l’abbracciò, mentre l’altra ancora piangeva.
“Guardati, sembri una mocciosa di due anni... vuoi darti un contegno?” disse ridacchiando.
“Sei una stronza...” mormorò l’altra mentre cercava di sistemarsi la faccia, ma sorrideva.

Erano passate ormai diverse ore e Riley se ne stava lì vicino a lei, tenendole una mano.
Ellie era sfinita, lottava contro il sonno perché voleva rimanere vigile ma, in qualche modo, più lottava e più le palpebre si abbassavano. Più cercava di parlare, più un suono inarticolato le usciva dalle labbra per colpa della stanchezza.
“Riley?”
“Sì?”
“Pensi che avremmo potuto sposarci?” lo sguardo perso nel fuoco della candela davanti a loro.
“Forse, in un mondo più gentile” disse Riley, sorridendo amaramente.
“Mi mancherai.”
“Sarò sempre con te, Ellie.”

Al suo risveglio, la mattina seguente, di Riley non c’era traccia.
Era stata solamente un’allucinazione dettata dalla perdita di sangue e dalla febbre? Decise che non le importava. Riley era lì per lei quando ne aveva avuto bisogno. Ellie era riuscita a rassegnarsi ed a dirle addio, in un modo o nell’altro. La sua perdita avrebbe sempre fatto male, non c’era modo che una cicatrice del genere riuscisse a cicatrizzarsi del tutto, ma adesso poteva andare avanti.

Quando Joel fece capolino dall’entrata della grotta e le corse incontro, Ellie non si era mai sentita più felice. Anche i suoi amici erano tornati a prenderla e, finalmente, aveva tutto ciò che le serviva.
Finalmente non era più sola.


“And we come and we go
Like the winter and the spring
Losing everything
just to gain it back again”

***

 

Note dell’autrice:
Ho scritto questa storia praticamente in un giorno e mezzo ma purtroppo ho dovuto tagliuzzarla qua e là perché il limite massimo di parole per il contest a cui partecipo era fissato a 5500 – dannata me ed il mio essere prolissa – e questo è il risultato.
Insomma, spero che non sia una schifezza totale anche se è ben diversa da ciò che avevo in mente. Come al solito la fantasia prende il sopravvento sulla razionalità e finisco per scrivere qualcosa di totalmente diverso rispetto a ciò che avevo immaginato all’inizio. *sospira*
È la mia prima storia in questo fandom, quindi siate clementi. (?)

Insomma, vi state chiedendo se Riley era davvero lì assieme ad Ellie oppure se si è trattata solamente di un'allucinazione? Non lo saprete mai ahah, preferisco che ognuno costruisca l'interpretazione che preferisce. Purtroppo capisco che il finale è molto veloce ma, ripeto, ero davvero in difficoltà per colpa del limite di parole, quindi non ho potuto fare niente di meglio. Forse in futuro lo riscriverò per renderlo al meglio, chissà.

Un ringraziamento speciale va alla mia bae NatMatryoshka, che mi ha sopportata lungo tutte le partite di TLOU che ho iniziato e concluso (specialmente quelle in modalità Realismo) e che mi sprona sempre a scrivere, nonostante io non sia mai soddisfatta delle mie storie. <3

Per quanto riguarda i credits: il titolo della storia è tratto dalla canzone “Anime Salve” di Fabrizio De André, cantautore che adoro e stimo tantissimo, come chi mi segue saprà già. La frase all’inizio della storia, invece, è tratta da “Hardest of Hearts” di Florence + The Machine, mentre quella finale è tratta da “Middle of June” di Noah Gundersen.

Se aveste voglia di lasciarmi un commento tramite recensione, lo apprezzerei veramente molto. ♥

Ailisea

   
 
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