I personaggi sono copyright di Mochizuki
Jun.
Ipotesi su un post-finale del manga: c’è stato un momento in cui ho pensato di
recuperare appunti vari sul discorso del ciclo di reincarnazione, poi mi sono
detta che tanto non volevo scendere nello specifico, perciò ciccia (?).
Niente. Quasi quattro anni di stacco dal fandom in termini di scrittura si
fanno sentire tutti, ma l’amore per la coppia e per l’opera ha vinto lo stesso
e spero che il prodotto finale sia godibile.
La frase in corsivo verso la fine è una citazione diretta dal manga (edizione
italiana).
Quando
Oswald incontra Gilbert Baskerville per la prima volta, quasi non si accorge
della sensazione di fastidio alla testa e di stretta allo stomaco e il poco che
coglie lo ignora: è un pomeriggio di metà gennaio, il cielo di un grigio che
porterà presto con sé la neve e l’aria fredda a cogliere di sorpresa chi ha
rinunciato al calore di un camino per addentrarsi nelle strade della città. Lui
è tra questi, il cappotto in doppiopetto a fare da unica barriera; accanto a
lui camminano due compagni di dormitorio, anche loro liberi dalla costrizione
della divisa scolastica che vige per tutta la settimana: Oswald li considera i
più vicini al concetto di amici, per quanto lui sia stato – e sia ancora –
spesso etichettato come un’anima solitaria e ha imparato ad apprezzare il
vociare che anima il loro piccolo gruppo, per quanto sia quello che interviene
meno e ascolta di più. L’incontro con Gilbert Baskerville è il risultato di un
momento di distrazione, in verità: Roland, al suo fianco, gli dà una pacca
energica sulla schiena mentre Alfred, dall’altro lato dello stesso Roland, sta
disquisendo su quando sia carina una loro compagna di corso: c’è così tanta
normalità nei loro discorsi che Oswald da tempo vi associa una sensazione di
benessere leggero altrimenti impossibile da spiegare, per lui. La giovane in
questione è graziosa, ma Oswald non l’ha mai guardata con quelle intenzioni e
questo per Roland non è socialmente accettabile perché, parole sue, “le giovani fanciulle sono come fiori che
abbelliscono una stanza triste” e “non
ammirarle è da stupidi”.
Perciò Oswald si ritrova sbilanciato e ha bisogno di un paio di passi per
recuperare l’equilibrio; quei pochi bastano a fargli urtare un passante che in
condizioni normali non avrebbe nemmeno sfiorato, e quando alza lo sguardo per
pronunciare le proprie scuse, c’è un momento di stasi in cui vede negli occhi
dello sconosciuto una sorpresa mista a incredulità. Oswald è sicuro di quello
che vede, perché il pregio di chi ascolta in silenzio è anche avere il tempo di
osservare e apprendere molte cose già solo dal linguaggio del corpo altrui. Per
questo motivo è sicuro che l’estraneo verso cui pronuncia poche parole
accompagnate da un lieve inchino del capo veda in lui qualcosa che Oswald non
può afferrare. E per lui, d’altronde, c’è troppo poco tempo per curarsi di una
sensazione strana quanto fugace all’altezza dello stomaco; prosegue per la sua
strada con Roland e Alfred, e lo sconosciuto è già dimenticato.
La notte di quell’incontro, Oswald fa uno strano sogno che al mattino non sa se
classificare come incubo o meno: si trova in un giardino ampio quasi quanto
quello della scuola che frequenta, e davanti a sé c’è l’entrata di un labirinto
fatto di siepi. Dall’interno sente arrivare le risate di bambini che
probabilmente giocano a rincorrersi e qualcosa dentro di lui sembra spingerlo,
nel sogno, a raggiungerli – nonostante Oswald sappia di non essere molto bravo
con i più piccoli. Per tutta la durata di quell’illusione onirica, una di
quelle voci acute chiama ripetutamente il proprio padrone.
Quando si sveglia non sa spiegarsi il respiro accelerato di chi ha corso per
ore con il cuore in gola, pregando di raggiungere qualcuno o qualcosa prima che
sia troppo tardi.
Oswald ha sedici anni.
Lo incontra una seconda volta, due finesettimana dopo, in un negozio in cui
entra per cercare un regalo per sua madre in vista del compleanno di
quest’ultima a cui non potrà presenziare; conosce bene la sua passione per i
vecchi libri e per gli oggetti antichi, ed è questo a spingerlo a entrare nel
negozio di antiquariato in fondo alla via principale. Il tintinnio di un
campanello sulla porta preannuncia la sua entrata all’uomo che se ne occupa e
con il quale Oswald ha avuto modo di parlare qualche volta: il luogo sa di
antico, ma è tutto tenuto in ordine e ben pulito; non ha mai trovato un solo dito
di polvere tra gli oggetti o sui mobili in legno scuro, né si respira al suo
interno l’aria di chiuso che gli si potrebbe attribuire vedendolo da fuori.
Attorno a lui si alternano oggetti in argento, vecchi giocattoli perfettamente
funzionanti, e scaffali di libri che altrove è difficile trovare – qua e là c’è
persino qualche quadro di cui Oswald non è in grado di distinguere bene il
valore, ma che risulta comunque apprezzabile pur senza essere degli esperti.
Si prende il suo tempo per girovagare senza un’area specifica a cui dedicarsi,
dal momento che ha escluso l’idea di un libro come regalo, non riuscendo a
ricordare tutti i titoli che la libreria di sua madre ospita a casa.
Non saprebbe dire se ad attirare la sua attenzione sia la somiglianza tra il
nome pronunciato e il proprio o la voce ancora estranea ma non del tutto
sconosciuta che gli arriva all’orecchio – “curioso”,
pensa quando il nome “Oz” risuona oltre l’espositore che divide il piccolo corridoio
in cui si trova lui da quello adiacente. “Oz” è un nome che non ha mai sentito,
che non riesce a collegare a nessuna conoscenza fatto nell’arco della sua breve
vita; se proprio, somiglia all’inizio del suo nome, ma non c’è altro. Ne è
sicuro finché la coda dell’occhio non cattura un movimento alla propria
sinistra e lui, mosso solo dall’istinto, si volta perché l’intera figura che
sta passando rientri nel proprio campo visivo.
Di fronte a lui ci sono capelli biondi e occhi verdi e per quanto belli e di
una sfumatura diversa da altri occhi simili che ha visto – quelli di Roland,
per esempio, del medesimo colore anche se un poco più scuri – non c’è niente di
strano in loro, di per sé. Sono vivi, questo sì, Oswald lo riconosce: vivi di
quella luce che non dipende da un gioco naturale dell’illuminazione diurna,
vispi come quelli di un bambino e al tempo stesso con qualcosa che molto spesso
non ha nome ma finisce con l’essere comune in chi la vita l’ha vista in tante
sfaccettature e, per questo, la ama più di chiunque altro. Quegli occhi non lo
guardano (non ancora), ma sono rivolti a una figura ancora nascosta
dall’espositore in legno; quando anche questa avanza si mostra per Gilbert
Baskerville che, nella mente di Oswald, ancora non ha nome.
Lo riconoscerebbe, se lo guardasse; assocerebbe immediatamente il suo volto
all’incontro di due settimane prima, se lo vedesse.
Ma poco importa quanto il suo sguardo abbia inquadrato entrambi i giovani,
perché qualcosa dentro di lui stringe, stringe così forte che per un momento
lunghissimo Oswald non riesce a respirare come vorrebbe, non riesce a muovere
un passo e soprattutto non riesce a nascondere in alcun modo quel che gli si
agita dentro – e dire che non lo sa nemmeno lui, perché in confronto alla
bizzarra stretta allo stomaco in presenza di Gilbert questo sia molto più
violento, molto più difficile e molto, molto più doloroso.
Gli occhi verdi si posano su di lui e sente un brivido lungo la schiena; se non
fosse così sconvolto, Oswald forse noterebbe quel dettaglio che in condizioni
normali non gli sfuggirebbe mai: il giovane chiamato Oz ha l’espressione di chi
conosce bene l’identità della persona che ha davanti.
Tuttavia l’unica cosa di cui si accorge molte ore dopo, quand’è di nuovo nella
propria stanza in dormitorio, è come l’atteggiamento di Gilbert Baskerville –
l’aria spiazzata, il nervosismo, la fretta ingiustificata nel cenno di saluto
prima di allontanarsi con Oz – avrebbe dovuto suggerirgli qualcosa prima che
entrambi fossero ormai troppo lontani per essere raggiunti.
Da quel
secondo incontro passa quasi un mese fatto di sogni agitati che a volte sono
veri e propri incubi. Oswald prova persino a combatterli tentando di rimanere
sveglio tutta la notte a leggere nella sala comune del dormitorio, con come unica
compagnia il caminetto dove il fuoco scoppietta pigramente. All’inizio non
sogna altro che occhi verdi che lo cercano, a volte ridenti e altre volte pieni
di genuina curiosità; sogna di risate e di momenti buffi che al risveglio non
sempre ricorda ma che nel sonno gli scaldano il cuore, di stanze silenziose che
si riempiono di una voce cara, di carillon e pianoforti e spartiti, della
sensazione di aspettativa e di lancette che indicano uno scorrere del tempo
troppo lento, un’attesa esasperante a volte.
Durano poco: presto si trasformano in grida disperate e spaventate, in occhi
rossi che lo guardano ricordandogli
una colpa sconosciuta da cui forse lo assolvono o forse no, in sangue e della
musica, delle risate non rimane niente; ci sono solo occhi verdi che lo
guardano e chiedono perché, come si è arrivati a tutto questo, non potevano
evitarlo? Non si può essere felici – non c’è felicità nei suoi incubi, non c’è
nemmeno la speranza di poterla un giorno raggiungere di nuovo. C’è solo la
disperazione di un destino ineluttabile e Oswald a volte si sveglia convinto di
sentire il sapore del sangue nella propria bocca, convinto di sentire mani che
si stringono attorno al suo collo.
Le voci non spariscono mai quando apre gli occhi. Rimangono lì, sconosciute e
disgustose a volte, e fra di esse non riconosce nessuna parola e al tempo
stesso sa che tutte dicono le stesse cose.
Come hai potuto non accorgertene.
Uccidilo. Uccidilo. Perdonalo. Uccidilo. Salvalo.
Glen.
Agli inizi di marzo si sveglia dall’incubo peggiore di tutti, urlando un nome
che scivola sulla lingua e scappa fuori dalle labbra con una naturalezza
spaventosa; le sue mani stringono le lenzuola, gli occhi sbarrati cercando
febbrili una presenza che sembra esistere solo nella sua testa e il grido “Jack”
gli raschia la gola mentre butta fuori tutta l’aria che ha nei polmoni,
sperando possa essere d’aiuto a cacciare via quel nodo che minaccia di
sciogliersi in un pianto.
Pronuncia un nome che riesce ad associare solo a una persona inesistente nella
realtà e che, nonostante questo, gli fa desiderare di potersi nascondere agli
occhi del mondo fino a dimenticare persino se stesso.
Non sa chi sia Jack, eppure nei primi attimi del risveglio annienterebbe se
stesso pur di poterci parlare almeno una volta.
Oswald ha quasi diciassette anni.
L’occasione in cui finalmente decide di rivolgere la parola a Gilbert
Baskerville, apprendendone così anche l’identità, è il giorno del suo
compleanno. Oswald riconosce a Roland e Alfred diverse qualità ma, tra queste,
non c’è mai stata la capacità di fingere bene; così ha capito dall’insistenza
di entrambi nell’esortarlo a fare una passeggiata e a godersi la bella giornata
il loro volerlo tenere lontano dal dormitorio, probabilmente per preparare
qualcosa il cui gusto lascerà a desiderare ma che sarà comunque un regalo
gradito.
È un pomeriggio soleggiato e sta passeggiando per la via principale della città
quando lo intravede. Non lo avvicina subito, perché a bloccarlo è il tuffo al
cuore causato non solo dalla stessa persona che ha già visto con lui nel
negozio di antiquariato qualche tempo prima – capelli biondi e occhi verdi che
ha sognato troppe volte, per avere ancora qualche dubbio –, ma anche da una
terza figura in loro compagnia: Oswald ricorda poche cose dei suoi incubi,
perché poche sono quelle dai contorni così vividi da rimanere impresse, eppure
la giovane che si trova con loro ha lineamenti familiari e occhi troppo simili
a quelli carmini che lo accusano ogni notte, per non stupirsene. Quasi si
aspetta di essere visto, additato, incolpato, ma è solo Gilbert a notarlo.
Stavolta Oswald è abbastanza distante e in sé da riconoscere negli occhi dell’altro
giovane qualcosa che non si aspetta e che la prima volta ha scambiato per
altro: quella, gli suggerisce una voce nella sua testa, è preoccupazione. E
anche se non ha idea del perché uno sconosciuto dovrebbe avere l’espressione di
chi cerca di proteggerti come può dai mali del mondo, Oswald sente le proprie
labbra incurvarsi in un sorriso così leggero che se non sentisse i propri
muscoli distendersi non se ne accorgerebbe nemmeno; è sicuro che agli occhi di
Gilbert quello nemmeno sembri un vero sorriso, ma più una smorfia
incomprensibile.
Contro ogni sua aspettativa, Gilbert allontana gli altri due che sono in sua
compagnia; Oswald sospetta che il ragazzo con gli occhi verdi sappia qualcosa,
o la immagini – perché quando fa per andarsene con la ragazza e lo vede, anche
lui sorride e ha l’aria di chi sa, di
chi non si aspetta niente di diverso da ciò che sta accadendo proprio davanti
ai suoi occhi.
È strano il modo in cui Gilbert lo avvicina e, con gentilezza, gli posa una
mano sulla spalla indicandogli una sala da tè poco distante; è quasi buffo come
lo faccia con l’intento di guidarlo e, al tempo stesso, con l’impaccio di chi
non vorrebbe imporsi e nonostante Oswald sia abbastanza sicuro di non stare in
alcun modo dando l’idea di sentirsi costretto, l’altro sembra sulle spine
comunque, poco avvezzo forse a situazioni come quella. È difficile parlargli,
all’inizio: Gilbert gli dà la sensazione di sedere al tavolo con un amico di
vecchia data e, allo stesso tempo, di stare cercando di confidarsi in maniera
innaturale con uno sconosciuto. Eppure quel “Gilbert Baskerville” che l’altro pronuncia per presentarsi gli
solletica le orecchie con fare quasi giocoso, riportandogli alla mente – chissà
perché poi – le voci di bambini del sogno fatto quando lo ha incontrato per la
prima volta e qualcosa, in lui, gli fa provare nostalgia.
Oswald non sa parlare di sé. Da che ricorda non è mai stata una delle sue
migliori qualità, sapersi aprire alle persone lasciando trasparire i lati di
lui che potrebbero renderlo più affabile o che potrebbero aiutare gli altri a
capirlo con maggiore facilità; non lo ha mai considerato davvero un problema,
non per intransigenza nei confronti delle altre persone, ma per una questione
di distanza. Ha provato, ha sempre
provato a sentirsi parte di un gruppo e pur riuscendovi – per quanto il gruppo
in questione potesse essere piccolo, come nel caso di quello formato da lui,
Roland e Alfred –, qualcosa ha sempre stonato. Oswald ha imparato con il tempo che
ascoltare gli si addice più del parlare, che l’osservare è per lui più semplice
del porre domande su domande per conoscere quelle piccole cose di una persona
che gli permettono di sentirsi o meno a proprio agio. Per questo motivo, quando
dopo interminabili minuti di silenzio parla, non si aspetta di sentire la
propria voce nascondere in un tremolio leggero tanta urgenza, né le parole che
vanno formandosi prima che lui possa decidere razionalmente quali tenere per sé
e quali no.
«Ho bisogno di Jack.»
Lo sguardo di Gilbert – occhi dorati sgranati, sorpresa e un pizzico di timore,
ma anche una profonda comprensione – è in parte lo specchio del proprio, anche
se Oswald non può vedersi riflesso da nessuna parte; lo stupore si fa strada in
lui piano, quasi pigramente, mentre la consapevolezza di ciò che ha detto cozza
contro la realtà di ciò che invece avrebbe voluto dire. In quel momento, quando
nello sguardo della persona di fronte a sé non scorge né confusione per un nome
sconosciuto né un giudizio negativo di alcun tipo per il suo comportamento, è
come se Gilbert gli avesse detto “lo so”.
E quello gli basta.
«Non so chi sia Jack.» ricomincia, anche se il tono con cui parla non riesce a
essere calmo come suo solito e sa che quanto confessa di lì a poco potrebbe non
avere senso e farlo sembrare niente più di un folle. Chi mai parlerebbe a una
persona cui ci si è appena presentati di un giovane dagli occhi verdi che
appare solo in sogno? Oswald sa che nessuno lo farebbe, che fino a poco tempo
fa lui non lo avrebbe mai fatto e
dentro di sé sa che se non fosse con l’altro
probabilmente non lo farebbe nemmeno ora.
Gilbert Baskerville lo ascolta e non una sola volta lo guarda con pietà o con
sospetto – non quando Oswald parla di un senso di colpa inspiegabile, non
quando accenna alla melodia di un pianoforte che sente così sua da fargli
tremare le mani dal desiderio di suonarla, non quando parla di occhi rossi che
lo accusano e perdonano al tempo stesso; Gilbert non lo interrompe nemmeno
quando Oswald parla di come si svegli urlando un nome che fino a poco tempo
prima non aveva alcun significato e di come ora pronunciarlo a voce o nella
propria testa gli faccia pensare di stare perdendo qualcuno ogni giorno di più,
di come sia doloroso, di come non abbia senso. Oswald non crede alle proprie
orecchie quando gli confida tutto quello, e non crede più nemmeno a se stesso
mentre nella sua testa si agitano stralci di sogni e incubi che durante il
giorno cerca di lasciare in un angolo della propria mente.
Mi sono sempre chiesto…
come mai fosse così ripugnante?
«Vorrei… scusarmi, credo.» pronuncia a un certo
punto, le mani strette in due pugni accanto alla tazzina di tè nemmeno sfiorata
«Ho la sensazione di avergli rivolto parole crudeli, ma…»
Ma dove potrebbe mai cercare una persona che forse non esiste nemmeno?
Sarebbe come cercare di catturare l’acqua a mani nude.
Qualche tempo dopo – forse un’ora, forse addirittura due, non saprebbe dirlo – Gilbert
Baskerville si accommiata da lui con parole gentili di cui Oswald non riesce a
comprendere del tutto il significato. Continua a non sapere dove troverà “Jack”,
se lo troverà mai, e più si allontanano l’uno dall’altro diretti ognuno per la
propria strada, più Oswald sente montare dentro di sé la vergogna di quanto detto
e del comportamento mostrato.
Rimpiange persino di non aver potuto fare nulla per quel giovane che potrebbe
anche non incontrare mai più, ma di cui non crede potrà dimenticare le parole.
«Jack è da qualche parte. A questo puoi
credere, e puoi sperare. Lo troverai.»
Avrebbe voluto almeno ringraziarlo, anche se forse l’altro non sa quanto
importanti suonino per lui quelle parole; non sa nemmeno se sia riuscito a
farglielo capire.
Non ha mai saputo parlare di sé.
«Roland non sono sicuro che questa roba dovesse…
afflosciarsi così.» è il commento critico che pronuncia Alfred, un’occhiata
veloce a quello che dovrebbe essere un dolce. Farne uno anziché comprarlo era
sembrata una buona idea.
Roland occhieggia il suo operato e dopo pochi istanti uno scappellotto si
abbatte implacabile contro la nuca del compagno insieme a qualche osservazione
molto da dormitorio e poco da gentiluomo, quel che dovrebbero essere tutti loro;
ma non importa, sua madre non saprà mai quali epiteti sono usciti dalla sua
bocca dunque non ne soffrirà.
«Non ha l’aria molto appetitosa.» è il commento divertito di una terza voce che
fa voltare entrambi – se non conoscessero bene l’inflessione divertita che
assume il tono del loro amico sarebbero certi di aver appena mandato all’aria
anche l’effetto sorpresa, oltre che il dolce per Oswald –, permettendogli di
individuare una chioma bionda lunga abbastanza da essere sistemata in ordinato
codino e occhi verdi che sembrano non aver mai visto nulla di più esilarante al
mondo.
«Credevo fosse Oswald.» borbotta Alfred con un accenno di broncio e un sospiro
di sollievo insieme; è abbastanza da catturare l’attenzione del nuovo venuto, a
giudicare dal modo in cui il gomito si posa sul bancone che dà verso la parte
interna della cucina di cui stanno usufruendo e dal poggiare il mento contro la
mano; il ragazzo che hanno di fronte sembra così interessato da essere
dimentico del bagaglio che sosta al suo fianco.
«Offro una mano con il dolce in cambio di un racconto divertente su questo
Oswald.» propone, sparendo qualche attimo necessario solo a coprire la distanza
tra sé e la soglia della cucina, varcandola e porgendo una mano prontamente
verso entrambi. C’è un sorriso che a Roland, non sa perché, fa pensare l’altro
sappia già chi sia Oswald; forse è solo un’impressione si dice mentre stringe la
mano altrui: «Affare fatto. Io sono Roland, lui è Alfred.»
«Io sono Jack.»
Avevo in mente questa conclusione, ma la volevo più
d’impatto, invece mi sembra moscissima; volevo anche
rendere tanta giustizia agli occhi di Jack, ma so di non esserci riuscita. Al
tempo stesso sono cosciente che qualsiasi cosa scriverò
su PH non potrà mai soddisfarmi completamente perciò diciamo che scendo a patti
con il tutto e, piano piano, magari ce la farò. *ride*