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Autore: Shichan    27/09/2015    1 recensioni
Lo riconoscerebbe, se lo guardasse; assocerebbe immediatamente il suo volto all’incontro di due settimane prima, se lo vedesse. Ma poco importa quanto il suo sguardo abbia inquadrato entrambi i giovani, perché qualcosa dentro di lui stringe, stringe così forte che per un momento lunghissimo Oswald non riesce a respirare come vorrebbe, non riesce a muovere un passo e soprattutto non riesce a nascondere in alcun modo quel che gli si agita dentro – e dire che non lo sa nemmeno lui, perché in confronto alla bizzarra stretta allo stomaco in presenza di Gilbert questo sia molto più violento, molto più difficile e molto, molto più doloroso.
[what if? post finale del manga; OsJack]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gilbert Nightray, Jack Vessalius, Oswald Baskerville
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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I personaggi sono copyright di Mochizuki Jun.
Ipotesi su un post-finale del manga: c’è stato un momento in cui ho pensato di recuperare appunti vari sul discorso del ciclo di reincarnazione, poi mi sono detta che tanto non volevo scendere nello specifico, perciò ciccia (?).
Niente. Quasi quattro anni di stacco dal fandom in termini di scrittura si fanno sentire tutti, ma l’amore per la coppia e per l’opera ha vinto lo stesso e spero che il prodotto finale sia godibile.
La frase in corsivo verso la fine è una citazione diretta dal manga (edizione italiana).

 

 

 

 

Quando Oswald incontra Gilbert Baskerville per la prima volta, quasi non si accorge della sensazione di fastidio alla testa e di stretta allo stomaco e il poco che coglie lo ignora: è un pomeriggio di metà gennaio, il cielo di un grigio che porterà presto con sé la neve e l’aria fredda a cogliere di sorpresa chi ha rinunciato al calore di un camino per addentrarsi nelle strade della città. Lui è tra questi, il cappotto in doppiopetto a fare da unica barriera; accanto a lui camminano due compagni di dormitorio, anche loro liberi dalla costrizione della divisa scolastica che vige per tutta la settimana: Oswald li considera i più vicini al concetto di amici, per quanto lui sia stato – e sia ancora – spesso etichettato come un’anima solitaria e ha imparato ad apprezzare il vociare che anima il loro piccolo gruppo, per quanto sia quello che interviene meno e ascolta di più. L’incontro con Gilbert Baskerville è il risultato di un momento di distrazione, in verità: Roland, al suo fianco, gli dà una pacca energica sulla schiena mentre Alfred, dall’altro lato dello stesso Roland, sta disquisendo su quando sia carina una loro compagna di corso: c’è così tanta normalità nei loro discorsi che Oswald da tempo vi associa una sensazione di benessere leggero altrimenti impossibile da spiegare, per lui. La giovane in questione è graziosa, ma Oswald non l’ha mai guardata con quelle intenzioni e questo per Roland non è socialmente accettabile perché, parole sue, “le giovani fanciulle sono come fiori che abbelliscono una stanza triste” e “non ammirarle è da stupidi”.
Perciò Oswald si ritrova sbilanciato e ha bisogno di un paio di passi per recuperare l’equilibrio; quei pochi bastano a fargli urtare un passante che in condizioni normali non avrebbe nemmeno sfiorato, e quando alza lo sguardo per pronunciare le proprie scuse, c’è un momento di stasi in cui vede negli occhi dello sconosciuto una sorpresa mista a incredulità. Oswald è sicuro di quello che vede, perché il pregio di chi ascolta in silenzio è anche avere il tempo di osservare e apprendere molte cose già solo dal linguaggio del corpo altrui. Per questo motivo è sicuro che l’estraneo verso cui pronuncia poche parole accompagnate da un lieve inchino del capo veda in lui qualcosa che Oswald non può afferrare. E per lui, d’altronde, c’è troppo poco tempo per curarsi di una sensazione strana quanto fugace all’altezza dello stomaco; prosegue per la sua strada con Roland e Alfred, e lo sconosciuto è già dimenticato.
La notte di quell’incontro, Oswald fa uno strano sogno che al mattino non sa se classificare come incubo o meno: si trova in un giardino ampio quasi quanto quello della scuola che frequenta, e davanti a sé c’è l’entrata di un labirinto fatto di siepi. Dall’interno sente arrivare le risate di bambini che probabilmente giocano a rincorrersi e qualcosa dentro di lui sembra spingerlo, nel sogno, a raggiungerli – nonostante Oswald sappia di non essere molto bravo con i più piccoli. Per tutta la durata di quell’illusione onirica, una di quelle voci acute chiama ripetutamente il proprio padrone.
Quando si sveglia non sa spiegarsi il respiro accelerato di chi ha corso per ore con il cuore in gola, pregando di raggiungere qualcuno o qualcosa prima che sia troppo tardi.
Oswald ha sedici anni.


Lo incontra una seconda volta, due finesettimana dopo, in un negozio in cui entra per cercare un regalo per sua madre in vista del compleanno di quest’ultima a cui non potrà presenziare; conosce bene la sua passione per i vecchi libri e per gli oggetti antichi, ed è questo a spingerlo a entrare nel negozio di antiquariato in fondo alla via principale. Il tintinnio di un campanello sulla porta preannuncia la sua entrata all’uomo che se ne occupa e con il quale Oswald ha avuto modo di parlare qualche volta: il luogo sa di antico, ma è tutto tenuto in ordine e ben pulito; non ha mai trovato un solo dito di polvere tra gli oggetti o sui mobili in legno scuro, né si respira al suo interno l’aria di chiuso che gli si potrebbe attribuire vedendolo da fuori. Attorno a lui si alternano oggetti in argento, vecchi giocattoli perfettamente funzionanti, e scaffali di libri che altrove è difficile trovare – qua e là c’è persino qualche quadro di cui Oswald non è in grado di distinguere bene il valore, ma che risulta comunque apprezzabile pur senza essere degli esperti.
Si prende il suo tempo per girovagare senza un’area specifica a cui dedicarsi, dal momento che ha escluso l’idea di un libro come regalo, non riuscendo a ricordare tutti i titoli che la libreria di sua madre ospita a casa.
Non saprebbe dire se ad attirare la sua attenzione sia la somiglianza tra il nome pronunciato e il proprio o la voce ancora estranea ma non del tutto sconosciuta che gli arriva all’orecchio – “curioso”, pensa quando il nome “Oz” risuona oltre l’espositore che divide il piccolo corridoio in cui si trova lui da quello adiacente. “Oz” è un nome che non ha mai sentito, che non riesce a collegare a nessuna conoscenza fatto nell’arco della sua breve vita; se proprio, somiglia all’inizio del suo nome, ma non c’è altro. Ne è sicuro finché la coda dell’occhio non cattura un movimento alla propria sinistra e lui, mosso solo dall’istinto, si volta perché l’intera figura che sta passando rientri nel proprio campo visivo.
Di fronte a lui ci sono capelli biondi e occhi verdi e per quanto belli e di una sfumatura diversa da altri occhi simili che ha visto – quelli di Roland, per esempio, del medesimo colore anche se un poco più scuri – non c’è niente di strano in loro, di per sé. Sono vivi, questo sì, Oswald lo riconosce: vivi di quella luce che non dipende da un gioco naturale dell’illuminazione diurna, vispi come quelli di un bambino e al tempo stesso con qualcosa che molto spesso non ha nome ma finisce con l’essere comune in chi la vita l’ha vista in tante sfaccettature e, per questo, la ama più di chiunque altro. Quegli occhi non lo guardano (non ancora), ma sono rivolti a una figura ancora nascosta dall’espositore in legno; quando anche questa avanza si mostra per Gilbert Baskerville che, nella mente di Oswald, ancora non ha nome.
Lo riconoscerebbe, se lo guardasse; assocerebbe immediatamente il suo volto all’incontro di due settimane prima, se lo vedesse. Ma poco importa quanto il suo sguardo abbia inquadrato entrambi i giovani, perché qualcosa dentro di lui stringe, stringe così forte che per un momento lunghissimo Oswald non riesce a respirare come vorrebbe, non riesce a muovere un passo e soprattutto non riesce a nascondere in alcun modo quel che gli si agita dentro – e dire che non lo sa nemmeno lui, perché in confronto alla bizzarra stretta allo stomaco in presenza di Gilbert questo sia molto più violento, molto più difficile e molto, molto più doloroso.
Gli occhi verdi si posano su di lui e sente un brivido lungo la schiena; se non fosse così sconvolto, Oswald forse noterebbe quel dettaglio che in condizioni normali non gli sfuggirebbe mai: il giovane chiamato Oz ha l’espressione di chi conosce bene l’identità della persona che ha davanti.
Tuttavia l’unica cosa di cui si accorge molte ore dopo, quand’è di nuovo nella propria stanza in dormitorio, è come l’atteggiamento di Gilbert Baskerville – l’aria spiazzata, il nervosismo, la fretta ingiustificata nel cenno di saluto prima di allontanarsi con Oz – avrebbe dovuto suggerirgli qualcosa prima che entrambi fossero ormai troppo lontani per essere raggiunti.

Da quel secondo incontro passa quasi un mese fatto di sogni agitati che a volte sono veri e propri incubi. Oswald prova persino a combatterli tentando di rimanere sveglio tutta la notte a leggere nella sala comune del dormitorio, con come unica compagnia il caminetto dove il fuoco scoppietta pigramente. All’inizio non sogna altro che occhi verdi che lo cercano, a volte ridenti e altre volte pieni di genuina curiosità; sogna di risate e di momenti buffi che al risveglio non sempre ricorda ma che nel sonno gli scaldano il cuore, di stanze silenziose che si riempiono di una voce cara, di carillon e pianoforti e spartiti, della sensazione di aspettativa e di lancette che indicano uno scorrere del tempo troppo lento, un’attesa esasperante a volte.
Durano poco: presto si trasformano in grida disperate e spaventate, in occhi rossi che lo guardano  ricordandogli una colpa sconosciuta da cui forse lo assolvono o forse no, in sangue e della musica, delle risate non rimane niente; ci sono solo occhi verdi che lo guardano e chiedono perché, come si è arrivati a tutto questo, non potevano evitarlo? Non si può essere felici – non c’è felicità nei suoi incubi, non c’è nemmeno la speranza di poterla un giorno raggiungere di nuovo. C’è solo la disperazione di un destino ineluttabile e Oswald a volte si sveglia convinto di sentire il sapore del sangue nella propria bocca, convinto di sentire mani che si stringono attorno al suo collo.
Le voci non spariscono mai quando apre gli occhi. Rimangono lì, sconosciute e disgustose a volte, e fra di esse non riconosce nessuna parola e al tempo stesso sa che tutte dicono le stesse cose.
Come hai potuto non accorgertene.
Uccidilo. Uccidilo. Perdonalo. Uccidilo. Salvalo.
Glen
.
Agli inizi di marzo si sveglia dall’incubo peggiore di tutti, urlando un nome che scivola sulla lingua e scappa fuori dalle labbra con una naturalezza spaventosa; le sue mani stringono le lenzuola, gli occhi sbarrati cercando febbrili una presenza che sembra esistere solo nella sua testa e il grido “Jack” gli raschia la gola mentre butta fuori tutta l’aria che ha nei polmoni, sperando possa essere d’aiuto a cacciare via quel nodo che minaccia di sciogliersi in un pianto.
Pronuncia un nome che riesce ad associare solo a una persona inesistente nella realtà e che, nonostante questo, gli fa desiderare di potersi nascondere agli occhi del mondo fino a dimenticare persino se stesso.
Non sa chi sia Jack, eppure nei primi attimi del risveglio annienterebbe se stesso pur di poterci parlare almeno una volta.
Oswald ha quasi diciassette anni.


L’occasione in cui finalmente decide di rivolgere la parola a Gilbert Baskerville, apprendendone così anche l’identità, è il giorno del suo compleanno. Oswald riconosce a Roland e Alfred diverse qualità ma, tra queste, non c’è mai stata la capacità di fingere bene; così ha capito dall’insistenza di entrambi nell’esortarlo a fare una passeggiata e a godersi la bella giornata il loro volerlo tenere lontano dal dormitorio, probabilmente per preparare qualcosa il cui gusto lascerà a desiderare ma che sarà comunque un regalo gradito.
È un pomeriggio soleggiato e sta passeggiando per la via principale della città quando lo intravede. Non lo avvicina subito, perché a bloccarlo è il tuffo al cuore causato non solo dalla stessa persona che ha già visto con lui nel negozio di antiquariato qualche tempo prima – capelli biondi e occhi verdi che ha sognato troppe volte, per avere ancora qualche dubbio –, ma anche da una terza figura in loro compagnia: Oswald ricorda poche cose dei suoi incubi, perché poche sono quelle dai contorni così vividi da rimanere impresse, eppure la giovane che si trova con loro ha lineamenti familiari e occhi troppo simili a quelli carmini che lo accusano ogni notte, per non stupirsene. Quasi si aspetta di essere visto, additato, incolpato, ma è solo Gilbert a notarlo.
Stavolta Oswald è abbastanza distante e in sé da riconoscere negli occhi dell’altro giovane qualcosa che non si aspetta e che la prima volta ha scambiato per altro: quella, gli suggerisce una voce nella sua testa, è preoccupazione. E anche se non ha idea del perché uno sconosciuto dovrebbe avere l’espressione di chi cerca di proteggerti come può dai mali del mondo, Oswald sente le proprie labbra incurvarsi in un sorriso così leggero che se non sentisse i propri muscoli distendersi non se ne accorgerebbe nemmeno; è sicuro che agli occhi di Gilbert quello nemmeno sembri un vero sorriso, ma più una smorfia incomprensibile.
Contro ogni sua aspettativa, Gilbert allontana gli altri due che sono in sua compagnia; Oswald sospetta che il ragazzo con gli occhi verdi sappia qualcosa, o la immagini – perché quando fa per andarsene con la ragazza e lo vede, anche lui sorride e ha l’aria di chi sa, di chi non si aspetta niente di diverso da ciò che sta accadendo proprio davanti ai suoi occhi.
È strano il modo in cui Gilbert lo avvicina e, con gentilezza, gli posa una mano sulla spalla indicandogli una sala da tè poco distante; è quasi buffo come lo faccia con l’intento di guidarlo e, al tempo stesso, con l’impaccio di chi non vorrebbe imporsi e nonostante Oswald sia abbastanza sicuro di non stare in alcun modo dando l’idea di sentirsi costretto, l’altro sembra sulle spine comunque, poco avvezzo forse a situazioni come quella. È difficile parlargli, all’inizio: Gilbert gli dà la sensazione di sedere al tavolo con un amico di vecchia data e, allo stesso tempo, di stare cercando di confidarsi in maniera innaturale con uno sconosciuto. Eppure quel “Gilbert Baskerville” che l’altro pronuncia per presentarsi gli solletica le orecchie con fare quasi giocoso, riportandogli alla mente – chissà perché poi – le voci di bambini del sogno fatto quando lo ha incontrato per la prima volta e qualcosa, in lui, gli fa provare nostalgia.
Oswald non sa parlare di sé. Da che ricorda non è mai stata una delle sue migliori qualità, sapersi aprire alle persone lasciando trasparire i lati di lui che potrebbero renderlo più affabile o che potrebbero aiutare gli altri a capirlo con maggiore facilità; non lo ha mai considerato davvero un problema, non per intransigenza nei confronti delle altre persone, ma per una questione di distanza. Ha provato, ha sempre provato a sentirsi parte di un gruppo e pur riuscendovi – per quanto il gruppo in questione potesse essere piccolo, come nel caso di quello formato da lui, Roland e Alfred –, qualcosa ha sempre stonato. Oswald ha imparato con il tempo che ascoltare gli si addice più del parlare, che l’osservare è per lui più semplice del porre domande su domande per conoscere quelle piccole cose di una persona che gli permettono di sentirsi o meno a proprio agio. Per questo motivo, quando dopo interminabili minuti di silenzio parla, non si aspetta di sentire la propria voce nascondere in un tremolio leggero tanta urgenza, né le parole che vanno formandosi prima che lui possa decidere razionalmente quali tenere per sé e quali no.
«Ho bisogno di Jack.»
Lo sguardo di Gilbert – occhi dorati sgranati, sorpresa e un pizzico di timore, ma anche una profonda comprensione – è in parte lo specchio del proprio, anche se Oswald non può vedersi riflesso da nessuna parte; lo stupore si fa strada in lui piano, quasi pigramente, mentre la consapevolezza di ciò che ha detto cozza contro la realtà di ciò che invece avrebbe voluto dire. In quel momento, quando nello sguardo della persona di fronte a sé non scorge né confusione per un nome sconosciuto né un giudizio negativo di alcun tipo per il suo comportamento, è come se Gilbert gli avesse detto “lo so”.
E quello gli basta.
«Non so chi sia Jack.» ricomincia, anche se il tono con cui parla non riesce a essere calmo come suo solito e sa che quanto confessa di lì a poco potrebbe non avere senso e farlo sembrare niente più di un folle. Chi mai parlerebbe a una persona cui ci si è appena presentati di un giovane dagli occhi verdi che appare solo in sogno? Oswald sa che nessuno lo farebbe, che fino a poco tempo fa lui non lo avrebbe mai fatto e dentro di sé sa che se non fosse con l’altro probabilmente non lo farebbe nemmeno ora.
Gilbert Baskerville lo ascolta e non una sola volta lo guarda con pietà o con sospetto – non quando Oswald parla di un senso di colpa inspiegabile, non quando accenna alla melodia di un pianoforte che sente così sua da fargli tremare le mani dal desiderio di suonarla, non quando parla di occhi rossi che lo accusano e perdonano al tempo stesso; Gilbert non lo interrompe nemmeno quando Oswald parla di come si svegli urlando un nome che fino a poco tempo prima non aveva alcun significato e di come ora pronunciarlo a voce o nella propria testa gli faccia pensare di stare perdendo qualcuno ogni giorno di più, di come sia doloroso, di come non abbia senso. Oswald non crede alle proprie orecchie quando gli confida tutto quello, e non crede più nemmeno a se stesso mentre nella sua testa si agitano stralci di sogni e incubi che durante il giorno cerca di lasciare in un angolo della propria mente.
Mi sono sempre chiesto… come mai fosse così ripugnante?
«Vorrei… scusarmi, credo.» pronuncia a un certo punto, le mani strette in due pugni accanto alla tazzina di tè nemmeno sfiorata «Ho la sensazione di avergli rivolto parole crudeli, ma…»
Ma dove potrebbe mai cercare una persona che forse non esiste nemmeno?
Sarebbe come cercare di catturare l’acqua a mani nude.
Qualche tempo dopo – forse un’ora, forse addirittura due, non saprebbe dirlo – Gilbert Baskerville si accommiata da lui con parole gentili di cui Oswald non riesce a comprendere del tutto il significato. Continua a non sapere dove troverà “Jack”, se lo troverà mai, e più si allontanano l’uno dall’altro diretti ognuno per la propria strada, più Oswald sente montare dentro di sé la vergogna di quanto detto e del comportamento mostrato.
Rimpiange persino di non aver potuto fare nulla per quel giovane che potrebbe anche non incontrare mai più, ma di cui non crede potrà dimenticare le parole.
«Jack è da qualche parte. A questo puoi credere, e puoi sperare. Lo troverai.»
Avrebbe voluto almeno ringraziarlo, anche se forse l’altro non sa quanto importanti suonino per lui quelle parole; non sa nemmeno se sia riuscito a farglielo capire.
Non ha mai saputo parlare di sé.


«Roland non sono sicuro che questa roba dovesse… afflosciarsi così.» è il commento critico che pronuncia Alfred, un’occhiata veloce a quello che dovrebbe essere un dolce. Farne uno anziché comprarlo era sembrata una buona idea.
Roland occhieggia il suo operato e dopo pochi istanti uno scappellotto si abbatte implacabile contro la nuca del compagno insieme a qualche osservazione molto da dormitorio e poco da gentiluomo, quel che dovrebbero essere tutti loro; ma non importa, sua madre non saprà mai quali epiteti sono usciti dalla sua bocca dunque non ne soffrirà.
«Non ha l’aria molto appetitosa.» è il commento divertito di una terza voce che fa voltare entrambi – se non conoscessero bene l’inflessione divertita che assume il tono del loro amico sarebbero certi di aver appena mandato all’aria anche l’effetto sorpresa, oltre che il dolce per Oswald –, permettendogli di individuare una chioma bionda lunga abbastanza da essere sistemata in ordinato codino e occhi verdi che sembrano non aver mai visto nulla di più esilarante al mondo.
«Credevo fosse Oswald.» borbotta Alfred con un accenno di broncio e un sospiro di sollievo insieme; è abbastanza da catturare l’attenzione del nuovo venuto, a giudicare dal modo in cui il gomito si posa sul bancone che dà verso la parte interna della cucina di cui stanno usufruendo e dal poggiare il mento contro la mano; il ragazzo che hanno di fronte sembra così interessato da essere dimentico del bagaglio che sosta al suo fianco.
«Offro una mano con il dolce in cambio di un racconto divertente su questo Oswald.» propone, sparendo qualche attimo necessario solo a coprire la distanza tra sé e la soglia della cucina, varcandola e porgendo una mano prontamente verso entrambi. C’è un sorriso che a Roland, non sa perché, fa pensare l’altro sappia già chi sia Oswald; forse è solo un’impressione si dice mentre stringe la mano altrui: «Affare fatto. Io sono Roland, lui è Alfred.»
«Io sono Jack.»

 

 

 

 

 

Avevo in mente questa conclusione, ma la volevo più d’impatto, invece mi sembra moscissima; volevo anche rendere tanta giustizia agli occhi di Jack, ma so di non esserci riuscita. Al tempo stesso sono cosciente che qualsiasi cosa scriverò su PH non potrà mai soddisfarmi completamente perciò diciamo che scendo a patti con il tutto e, piano piano, magari ce la farò. *ride*

   
 
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