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Autore: Ilarya Kiki    29/09/2015    3 recensioni
Itachi è un mostro della sottile arte ninja della dissimulazione, si sa: nessuno l’ha mai visto vacillare di fronte ai crimini che si è preso la responsabilità di commettere, nessuno avrebbe mai potuto sospettare il suo doppiogioco dietro a quello sguardo duro. Nessuno forse, tranne Kisame, quella volta che l’ha portato a bere in una taverna di sua conoscenza, poco dopo una brutta notizia. Nessuno shinobi può pretendere di rimanere freddo come la pietra, dopo aver conosciuto la tragedia, anche se magari lo vorrebbe. Perché anche un mostro come Itachi, sotto sotto, è un essere umano, e le cose che si vorrebbero cancellare dalla memoria, a volte, ritornano.
- Questa storia partecipa al contest 'La gara dei prompt' indetto da Mokochan sul forum di EFP. -
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Itachi, Kisame Hoshigaki, Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Ciao ragazzi! Questa breve storia è arrivata prima in pari- merito alla "Gara dei Prompt" di Mokochan, che mi ha dato l'occasione di scrivere di un personaggio che mi affascina molto, ma sul quale purtroppo non ero ancora riuscita a stendere una riga: Itachi Uchiha. Spero che il brano vi piaccia - è estremamente consigliato se avete voglia di un po' di sano angst - e sentitevi liberi di lasciarmi un pensiero, se vi va! Mi farebbe molto piacere.

Questi sono i prompt che ho scelto:

"He's haunted by the memory of a lost paradise|In his youth or a dream, he can't be precise|He's chained forever to a world ~
that 's departed|
It's not enough, it's not enough"
Sorrow dei Pink Floid

Ossimoro ~

Liquore ~

Ps.
Consiglio caldamente di leggere il brano con la canzone del prompt in sottofondo, atmosfera a palate.
Buona lettura!



Hisako

Il liquore scese giù velocemente, andandosi a mischiare a quel groppo pesante e anestetizzato che aveva nel petto. Lasciò una scia bruciante lungo l’esofago, ma per il momento i sintomi molesti del sakè parvero ridursi a quello soltanto.
Itachi Uchiha non era mai stato un bevitore, nei suoi diciassette anni scarsi di vita.
Non si riprometteva di diventarlo, in ogni caso – l’alcool era uno dei vizi peggiori in cui poteva impantanarsi uno shinobi – ma aveva deciso di concedersi un’eccezione. Kisame aveva insistito così tanto.
“Se non ti porto a bere qualcosa proprio adesso – aveva detto quel pomeriggio il suo compagno di squadra – finirai per morire senza aver mai provato l’ebbrezza di una bella sbronza. Vedrai, ti tirerà un po’ su il morale.”
Itachi non era stato particolarmente convinto da quella affermazione, ma nel suo intimo aveva deciso che un piccolo strappo alle regole poteva anche concederselo, al punto estremo in cui era arrivato della sua vita.
La testa iniziò a girargli leggermente, mentre un calore diffuso gli risaliva per le membra. Probabilmente non era il massimo assumere sostanze alcoliche poco dopo il palliativo per la cura del dolore, ma in quel momento gliene importava ben poco. Dopotutto poteva anche essere considerato piacevole, in un certo modo.
Kisame aveva garantito che un po’ di alcool donava qualche ora d’oblio, e Itachi aveva tutta l’intenzione di goderselo fino in fondo.

La ragazza gli sorrise alla luce della luna che entrava dalla finestra.
“Che ci fai qui, a quest’ora?” chiese.

Gli ultimi tre giorni erano stati insopportabili.
Erano ormai settimane che Itachi non aveva più voglia di mangiare, ma in quei tre giorni aveva perso le forze per farlo del tutto: il dolore al petto e la tosse erano diventati così forti e insistenti che era stato costretto a giacere sulla sua branda piegato in due per ore, e infine era stato costretto a confessare a Kisame il suo malessere. Prima aveva cercato di ignorarlo in ogni modo: no, non era possibile che si fosse preso qualche malanno, il lavoro da fare per Akatsuki era troppo urgente, e poi sicuramente doveva trattarsi di un disagio passeggero. Un disagio passeggero che non aveva fatto altro che aggravarsi, fino a fargli sputare sangue.

Carcinoma.” Aveva sentenziato il medico di periferia che lo aveva esaminato quella mattina, dopo le prime analisi. Aveva una faccia inacidita da topo, dietro le lenti spesse degli occhiali.
“Non so ancora fino a che punto, ma temo che sia a uno stadio parecchio avanzato, ragazzo.”
Non importava, rispose Itachi, bastava che gli desse qualcosa che calmasse il dolore per permettergli di lavorare, dato che aveva faccende parecchio importanti da sbrigare.
“Temo che tu non abbia capito. – aveva risposto il dottore, con la dolcezza di un limone spremuto negli occhi – Se sei molto fortunato vivrai ancora per un anno, con l’operazione e le terapie. E sicuramente devi smettere subito di lavorare per chiunque sia quel farabutto che ti paga, se non vuoi morire nei prossimi due mesi.”
Ovviamente quel medico apparteneva al giro della malavita e sapeva di trovarsi davanti un nukenin, era piuttosto abituato a reazioni del genere: fu quindi l’inizio di una lunga discussione. No, non era assolutamente contemplabile per Itachi ritirarsi dalla vita da shinobi e no, non era disposto a sottoporsi a un’operazione che aveva il quaranta per cento di probabilità di ucciderlo sotto ai ferri. Sì, aveva un’aspettativa di vita di sei mesi. In qualche modo si sarebbe arrangiato. Era un genio lui, se la cavava sempre e l’avrebbe fatto anche stavolta.

Alla fine erano giunti a un compromesso e il medico gli aveva prescritto una lista infinita di farmaci da prendere: ormoni per arrestare lo sviluppo delle metastasi, regolatori, cinque o sei anti-dolorifici differenti.
Gli effetti delle medicine gli avevano già acquietato le martellate costanti che sentiva sui polmoni, ma quell’altra angoscia gli era rimasta impressa nella mente come un nuovo sintomo inaspettato della malattia: sei mesi di vita - Sasuke era ancora un bambino, ancora non aveva speranze di vendicare il clan… non in sei mesi, solo sei mesi… -.
Aveva accolto la notizia come aveva sempre fatto di fronte alle pessime notizie - deglutendola in silenzio senza esternare la minima preoccupazione - ma il suo autocontrollo perfetto aveva vacillato; lavorare per Danzo aveva significato inghiottire bocconi amari, ma almeno poteva digerirli pensando che era per la sicurezza e il benessere di Konoha. Ora invece non c’era nessun lato positivo, nessun bene superiore per il quale soffrire. Solo dolore e una morte troppo vicina. Solo sei mesi.
Se ne sarebbe fatto una ragione, ma non quella sera.
Quella sera voleva solo dimenticare.
Buttò giù un altro sorso di sakè bollente.

Le mani della ragazza stavano accarezzando, lentamente, i lunghi capelli neri appoggiati sulle spalle.
“Certo che non me lo aspettavo…non ancora…”

Oblio? Poteva Itachi Uchiha conoscere l’oblio, anche con l’aiuto dell'alcool?
Quella sì che era una questione interessante, da approfondire: la Radice – muri claustrofobici, luce elettrica – addestrava i bambini a sopprimere le emozioni, e persino gli esterni che entravano nel corpo Anbu – come Itachi, Itachi era stato un bambino esterno entrato nel gruppo Anbu – apprendevano come liberarsi dei tumulti del cuore umano. Aveva imparato a isolare dalla sua coscienza, per poter essere d’aiuto al suo paese, le esperienze dolorose - che poi erano finite nei polmoni, gettate fuori dalla testa si erano annidate nei polmoni, formando quella cosa che lo faceva stare male -.
In quel momento i volti del suo migliore amico, di suo zio, di suo fratello, di suo padre, di sua madre, le loro facce eteree erano tornate davanti ai suoi occhi come spettri: non li aveva mai visti così vicini e presenti, così vivi e dolorosi nella memoria, mai così terribili come ora, che le sue barriere mentali erano state infrante da quell’ebbrezza nauseante…
Una mano grossa e mascolina gli si abbatté sulla schiena, era Kisame. La sua faccia azzurra appariva sfocata nella penombra di lampade a olio del locale.
“Su – disse lo squalo – non lasciarti intimidire. I primi due giri ti stordiscono, ma c’è un unico modo per far passare la nausea: i terzo lo devi buttare giù tutto insieme! Vedrai come ti si schiariscono le idee.”
E portò alla bocca il suo bicchiere, dando esempio di quello di cui stava parlando; poi riempì anche quello di Itachi, che subito lo imitò. Il liquido bruciò come acido.

Il sangue rosso sporcava il suo viso bianco come la neve.
Un sorriso macchiato di scarlatto, immobilizzato nell’ossimoro eterno dell’amore e della morte.
“…Itachi…”

Ma chi era quella ragazza che chiamava il suo nome?
Aveva qualcosa di familiare, come un profumo a lungo dimenticato che riconduce alla via di casa, sepolto sotto le macerie della memoria. Erano anni che non ripensava a quel volto.
Ora, oltre a suo padre e a sua madre, oltre al suo migliore amico suicidatosi di fronte ai suoi occhi e oltre a tutta quella vita che si era caricato sulle spalle – una famiglia da sterminare, un ordine disobbedito, un fratello per mantenere l’onore perduto – oltre a quella vita pesantissima, era apparsa lei. La testa continuava a girare, e quella fanciulla era come tornata a galla dal vortice di ricordi dimenticati: da un po’ di tempo ormai la sua voce gli sussurrava nella mente, sottovoce, ma solo si era effettivamente reso conto della sua presenza. Concentrandosi poteva provare a inseguirla.

Più lontano, in un tempo perduto;
erano bambini e correvano sotto i ciliegi in fiore.
L’unica cosa importante era godersi il giorno di festa.

Sì, ora la ricordava. Era quella bambina che gli sorrideva sempre, seduta sugli scalini di casa, quando lui passava lungo la sua via nel quartiere del Clan Uchiha. Quella ragazzina timida che era riuscita a strapparlo per qualche ora dagli studi dell’accademia per convincerlo a giocare a rincorrersi sotto agli alberi del viale dietro casa. L’aveva completamente dimenticata. Il suo sorriso era stato sepolto dal sangue con cui Itachi si era macchiato le mani, in quell’orribile notte di sterminio, e si era perso come un paradiso perduto, lontano, in un passato che era troppo doloroso per poter essere ricordato.
Un passato che ritornava a perseguitarlo, come un fantasma, dopo tutto quel tempo…
O forse non l’aveva mai conosciuta davvero e quello era stato solo il sogno di una fugace notte estiva: difficile essere precisi con tutto quell’alcool nel suo corpo e quella sensazione di anestetico nel cervello.

La spada la trapassava da parte a parte, penetrata dolcemente nella sua carne. Più velocemente possibile, senza nessun dolore. Era stato un attimo, non aveva avuto il tempo di emettere nemmeno un gemito, solo – gli era parso, a fior di labbra – il suo nome.
“…Itachi…”

Quella ragazza gli aveva rubato un bacio sotto alla tettoia, quando nessuno guardava. Era primavera, e loro avevano dodici anni. Come poteva Itachi essersene dimenticato…?
Sì, ora la ricordava perfettamente, era come se ce l’avesse avuta di fronte che gli tendeva le mani: pelle bianchissima, capelli di seta e due occhi dolci come lamponi maturi. Le aveva voluto bene. Si può parlare di amore, per due bambini che si tengono per mano? No, probabilmente non è appropriato: due bambini si amano a modo loro, in un modo leggero, come due farfalle che si inseguono nel vento. L’ineffabilità di quell’amore lo rendeva ancora più vero, più magico, perché quella ragazzina era stata il suo raggio di sole una volta, tanto intenso da diradare le prime nubi che si affollavano sul suo cammino. Le aveva voluto bene per davvero, prima di perderla nei meandri delle sue tragedie.

Era notte, la notte del destino degli Uchiha. L’uomo mascherato stava massacrando gli uomini e le donne del clan ma Itachi gli aveva chiesto lasciare in vita qualcuno, perché voleva occuparsene personalmente. Non sapeva nemmeno lui bene perché, avrebbe sofferto molto di più; forse, era la sua coscienza che gli imponeva di guardare negli occhi almeno suo padre e sua madre un’ultima volta, nel momento in cui li avrebbe traditi, e non lasciar fare il lavoro ad altri come un codardo.
Poi, voleva vedere anche lei. Lei che era delicata come un fiore, Itachi non avrebbe permesso all’uomo mascherato di toccarla.
Entrò dalla porta d’ingresso della sua casa senza emettere un suono, si diresse deciso verso la camera da letto.
Fece scorrere la porta di legno leggero e la trovò là, adagiata con grazia nel suo futon, immersa in un sonno lieve. La sua figura esile era illuminata dalla luce bianca ed eterea della luna piena che entrava dalla finestra, il volto sembrava perso in un’estasi perfetta. Itachi avanzò e lei udì i suoi passi, destandosi all’improvviso. Si sollevò e la vestaglia bianca scivolò sul suo collo sottile.
Non capì quello che stava succedendo. Sorrise.
Gli chiese cosa ci facesse lì a quell’ora e arrossì. A cosa stava pensando? Itachi lo sapeva, e aveva pensato che sarebbe stato bello, se la loro vita avesse coinciso con i sogni della sua ragazza. Una storia semplice, serena e romantica nella sua normalità.
Ma la vita era così crudele.
Aveva estratto la spada ma lei aveva continuato a sorridere. Forse aveva capito.
Bastò un solo colpo. Nessun dolore.
Una pozza di sangue fra le lenzuola.
“…Itachi…”

“È meglio se ora ce ne torniamo al covo Itachi, non mi pare che tu possa sopportarne di più. Non hai una bella cera. Cosa c’è, ti è entrato qualcosa in un occhio? Ah, maledetto locale polveroso, dovrebbero fare un servizio migliore con tutti i ryo che gli abbiamo lasciato! Forza, appoggiati a me. Andiamo a casa a dormire che ne abbiamo bisogno tutti e due.”

Ormai era troppo tardi, la barriera di oblio era stata infranta. Lei era riemersa, dopo essere stata cancellata con la forza marziale di una pratica per cancellare l’umanità degli assassini, e ora non se ne sarebbe andata mai più. Ma Itachi ne era felice, non poteva negare di doverle come minimo chiedere perdono dopo averla abbandonata così. Sì. Presto sarebbero stati di nuovo insieme, tutti e due, con sua madre e suo padre.
Mai aveva sentito la morte così vicina.
Mai aveva così tanto amato un fantasma, una tragica gioia, un sorridente rammarico.

“…Hisako…”

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*Il significato di Hisako è “bambina dalla lunga vita”. Cattiva, cattiva me XD

  
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