Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer
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Autore: Holly Rosebane    29/09/2015    0 recensioni
Michael suona per vivere. Si esibisce con la sua chitarra tutti i pomeriggi in piazzola.
Eireen lo ammira in silenzio, e compone poesie su di lui.
Calum ha una passione smisurata per i dolci. E per una cassiera dai capelli blu.
Stacey è un po' isterica e serve in un bar all'angolo, di fronte alla piazzola. Non sopporta il disordine, e ancor meno un insistente giovane dai tratti vagamente orientali. Il quale passa di lì tutti i giorni.
Luke non è bravo con le parole e non riesce a relazionarsi con il prossimo. Preferisce che i suoi disegni parlino per lui.
Sydney è innamorata dell'arte. E della bravura di quello sconosciuto, incontrato casualmente in una caffetteria.
-
«Un po’ come la storia dell’Akai Ito, il “filo rosso del destino”. La leggenda narra che ognuno di noi ha un sottile spago scarlatto legato al dito mignolo. L’altra estremità, stretta al medesimo dito, appartiene alla nostra anima gemella».
«Ma potremmo non incontrarla mai», ribatté Sydney. Luke sorrise, scuotendo la testa.
«Impossibile. Siamo destinati a trovarci».
Genere: Comico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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IV.
Fili

 
 
«Fiori di pruno
è un'estasi
la mia primavera
»

(Kobayashi Issa - Haiku)


 
{Alcune ore prima}
 
 
«Nooooooo!»
L’urlo dirompente si diffuse per tutto l’appartamento, facendo sobbalzare anche la giovane che stava scrivendo una complessa tesina per il suo esame universitario. Lo scatto le fece produrre uno sbaffo d’inchiostro sul quaderno d’appunti, cancellando alcune parti di frasi abbastanza utili. Gettò la biro sul tavolo, alzandosi in piedi.
«Eireen, che accidenti è questo baccano?!» Esclamò, scansando la sedia e dirigendosi verso la stanza dalla quale era giunto lo strillo insofferente. Vide un’interminabile sequela di abiti sparsi per la camera, come se vi fosse appena passato un uragano distruttivo.
C’erano magliette lanciate sul computer e scarpe rivolte sul letto, per non parlare dei pantaloni e le poche gonne appese sugli scaffali più improbabili. In mezzo a quel ciclone di nero e grigio stinto lavato con ammorbidente, c’era la sua coinquilina. Seduta sul pavimento a gambe incrociate, con il volto sprofondato nelle mani e la schiena talmente ricurva da rischiare un principio di scoliosi. Proprio lei, che teneva in maniera quasi imbarazzante all’ordine e alla pulizia, tanto da voler introdurre lo “stiraggio della t-shirt con logo di bands” come disciplina olimpionica.
«Cosa è scoppiato, qui dentro?» Si chiese, agguantando un paio di magliette dei My Chemical Romance dal lucido parquet e spostandole sul letto, permettendole di avvicinarsi.
«La fine del mondo, Taylor! L’Armageddon, la punizione divina!» Vaneggiò Eireen, sempre con le piccole dita premute sul viso.
«Sì, come no, gli alieni e i cerchi nel grano. Allora?» E si sedette accanto alla compagna, spostandole gentilmente i polsi, lasciandole libera la faccia.
«Ho perso il mio quaderno, quello con le poesie!» Mugolò, la sofferenza dipinta in quei suoi grandi occhioni da bimba. Sembrava che le avessero distrutto l’orsetto con cui andava a dormire.
Taylor cercò di trattenere una grossa e grassa risata che già le si stava allargando in gola, soffocandola con un colpo di tosse.
«Tutto qui?» Domandò. Ma l’occhiata della sua coinquilina le fece rimpiangere tanta spavalda leggerezza.
«Come sarebbe a dire “tutto qui”?! Quelle erano le mie poesie, cose private, parti di vita! Ieri c’erano e stamattina, magicamente, non più!» Sproloquiò, in un attacco isterico che avrebbe fatto invidia alla cassiera del bar in piazzola. Taylor si mordicchiò a disagio l’unghia del pollice, non curandosi dello strato di smalto color arancia che ne rivestiva per intero la lunga superficie.
«Vuoi che controlli nella mia stanza, per sicurezza? Magari te le eri portate dietro mentre pulivi…»
«No, ho già controllato».
«Sicura che qui non ci siano?»
«Ho rivoltato tutto come un calzino! Nessuna traccia della Moleskine» piagnucolò, sprofondando nuovamente il volto nelle manine. Come avrebbe fatto, quel pomeriggio? Proprio adesso che anche la sua musa avrebbe voluto leggere i suoi componimenti…

 
 
♦♦♦
 
 
Stacey sbuffò sonoramente al telefono, mentre richiudeva l’ennesima sacca dove riponeva i trucchi.
«Ti annoi?» Chiese l’altra voce bassa e profonda all’altro lato del filo invisibile. Ella scosse la testa, ma poi si ricordò che Calum non poteva vederla.
«No, sono solo seccata. Molto seccata, a dirti la verità» rispose, arrendendosi e crollando a sedere sul letto. Quella mattina si era svegliata, aveva fatto la doccia e poi colazione, come sempre.
Prima di pranzo, sarebbe dovuta andare al supermercato, per fare la spesa. Allora aveva cercato il suo inseparabile eyeliner, senza il quale non avrebbe mai messo piede fuori dalla porta. Ma, sorpresa delle sorprese… non l’aveva trovato. Nemmeno l’ombra. Pur rivoltando le trousse, i cassetti e le tasche dei pantaloni skinny, non c’era stato verso di tirarlo fuori.
«Perché?»
«Non trovo il mio eyeliner», pronunciò con acredine, stendendosi sul fresco materasso che cigolò leggermente, rimbalzando poco.
«E quindi? Starai senza. Problema risolto».
«Spero scherzi?!» Esclamò Stacey, scattando a sedere. «Quello stupido cosmetico è una parte fondamentale di me, della mia immagine! Non posso stare senza! Puoi dire una cretinata del genere e credere ancora che non ti appenda il telefono in faccia?»
«Non fare l’isterica», disse Calum, trattenendo una risata. Si divertiva da morire a sentirla sfuriare per una qualsiasi sciocchezza, e poi tentare di scusarsi nelle maniere più strambe. Specie dal giorno prima, che avevano trascorso tutta la scorsa serata insieme, di ritorno dall’ospedale.
«Non faccio l’isterica! Sono irritata e ho bisogno del mio eyeliner!» Concluse, mettendo il broncio. Calum rise, dall’altra parte del telefono. Stacey iniziò a tranquillizzarsi un pochino. Il suono della sua risata era utile quasi quanto un calmante, e se n’era accorta relativamente tardi. Tutta la presenza di quel ragazzo lo era, a dir la verità.
«Secondo me, sei più bella senza», osservò, con disinteresse. La giovane avvertì un tuffo al cuore.
«Parli così solo perché non mi hai mai vista al naturale», commentò.
«Al naturale? Mica sei un salmone!» Esclamò, piuttosto convinto. La manata sulla fronte che Stacey si stampò immediatamente fu inevitabile.
Chiuse gli occhi scuotendo leggermente la testa, raggruppando qualche brandello di pazienza e un paio di pensieri utili che non fossero insulti.
«Lo vedi che sei idiota? Si dice così anche quando intendi “privo di trucco”, tonto» spiegò. Calum rimase in silenzio per qualche istante.
«È uguale. Penso che tu sia più bella struccata come un salmone al naturale».

 
 
♦♦♦
 
 
 
Devo avere seri problemi mnemonici. Alzheimer giovanile. Per forza.”
Questo era ciò che Luke pensava con una tazzina di caffè ormai freddo in mano e lo sguardo smarrito. Era tutta la mattina che rovistava nello studiolo, sotto i tappeti, perfino nella cesta della biancheria sporca in bagno. Eppure, pareva che durante la notte, il suo blocco da disegni fosse stato portato via dai lillipuziani.
Dopo aver salutato Sydney, non ricordava più dove l’avesse messo, sicuro com’era di esserselo portato dietro. A quanto pareva, si sbagliava.
Il trillo acuto del citofono lo fece sobbalzare, quasi lanciò la tazzina fuori dalla finestra.  Si diresse all’ingresso con una certa rapidità, i piedi nudi sul pavimento fresco.
«Sì?»
«Daddy Lukey, mi apri?»
«Se non la pianti di chiamarmi così, ti faccio salire a calci nel sedere».
«Hai scelto il batterista sbagliato con cui fare il duro, donnetta».
Luke fece una pernacchia e poi premette il pulsante per aprire il cancello. Ashton Irwin era l’unico amico che avesse, alla scuola d’Arte. E si frequentavano anche fuori dalle lezioni. Si erano conosciuti in un modo un po’ bizzarro. Ashton non padroneggiava molto bene i pennelli, e quando si presentò a lui, disse un paio di spropositi artistici. Convinto di pronunciare tutt’altro.
 Allora Luke, per evitare il peggio, si offrì d’insegnargli i rudimenti fondamentali della tecnica pittorica in questione. Si videro per alcuni pomeriggi, lavorando molto. Alla fine, uno seppe dipingere discretamente e in modo apprezzabile, mentre l’altro imparò almeno cinque improperi diversi di cui ignorava completamente l’esistenza, oltre che le tecniche base per suonare un bongo. Ed entrambi guadagnarono un amico.
«Che visione paradisiaca, i tuoi boxer con i supereroi» commentò Ashton, entrando nell’appartamento dell’artista.
Luke non sopportava il caldo ed essendo Agosto, non si faceva poi tanti problemi a girare per casa in mutande. Tanto più quando abitava da solo.
«Me li stai invidiando da almeno due mesi», rispose, salutando l’amico con una particolare stretta di mano.
«Sicuramente», disse il biondo, facendosi strada verso la cucina. Passando davanti allo studiolo, gli sfuggì un fischio.
«Per la miseria. Va bene che gli artisti sono casinari… ma qui dentro c’è stato uno tsunami d’arte con rigurgito di tele!» Esclamò, entrando nella stanzetta a soqquadro. Luke lo seguì, passandosi una mano fra i capelli biondo grano.
«Ho perso il blocco e non riesco a trovarlo da nessuna parte», si giustificò, mentre Ashton iniziava a raccogliere i tubetti di pittura ad olio e ad ammucchiarli sulla scrivania.
«Non è che tu l’abbia prestato a qualcuno, per caso?» Chiese, prendendo poi una tela con un dipinto cubista e rigirandola per capire la giusta angolazione. Ci rinunciò e la ripose sul cavalletto.
«No, negativo. È sempre stato qui», rifletté, sistemando il quadro dal lato giusto e mettendosi le mani sui fianchi.
«Allora è scappato con le sue gambe. Non c’è altra spiegazione», concluse Ashton, uscendo dalla stanza e tornando in cucina. Luke ridacchiò, alle sue spalle.
«Non c’è niente da bere in questa topaia? Ho quasi voglia di una birra».

 
 
 
{►►Pomeriggio}
 
 
Quando Eireen Simms arrivò in piazzola, più sconsolata che mai, rimase di stucco. Vide Michael seduto sulle scalinate, dove in genere si metteva lei per scrivere. Era chino su un quadernino dalla copertina logora e scura. Indossava dei jeans aderenti e una camicia a quadri, niente a che vedere con il suo solito abbigliamento da musica. Eireen si avvicinò a lui, tormentandosi le mani per l’imbarazzo.
«Non ti hanno mai detto che questo posto è sempre occupato?»
Appena sentì la sua voce, Michael alzò il capo di scatto. La poetessa rifletté che non si sarebbe mai abituata a tanta perfezione a distanza ravvicinata. Allo strabiliante lavoro che la natura aveva, molto generosamente, compiuto sul volto di quel ragazzo. Fine armonia dei tratti somatici, poesia estetica.
Un sorrisetto diabolico passò per le labbra del giovane che le stava dinanzi, il quale posò il quadernino e chiuse gli occhi.
«Leggiadra grazia con la quale/egli m’incanta sino a far male», recitò. Eireen si sentì venir meno. Quelli erano due versi di una delle poesie più struggenti che avesse mai scritto. Sentì il sangue affluirle al volto e la testa farsi leggera.
«Quei versi… tu…»
«Ho letto tutte le tue poesie, già», rivelò Michael, sventolandole la Moleskine sotto il naso. Così era lui ad averla. Ecco perché non c’era stato verso di trovarla in casa.
Eireen rimase pietrificata da quell’affermazione, fatta come se nulla fosse. Stava già rischiando lo svenimento, a breve sarebbe direttamente collassata al suolo.
«Perché?» Domandò solamente, con un filo di voce. Michael si strinse nelle spalle, sorridendo.
«Erano mesi che ti vedevo qui seduta, con la testa fra le pagine del tuo quaderno. Sempre a scrivere. Sempre a pensare. Non parlavi mai con nessuno, stavi sola. Ogni giorno», descrisse il musicista, alzandosi in piedi. «E più ti guardavo, più mi assaliva la curiosità di sapere cosa mai ci fosse in queste maledette pagine. Stanco di aspettare, chiedevo di te alla cassiera del bar. La conosco perché è stata nella mia stessa classe, al liceo. Mi diceva che scrivevi cose fantastiche… poesie», spiegò.
«Beh, immagino che allora tu ti sia fatto una bella risata, a leggerle tutte» Esclamò Eireen, strappandogli il quaderno dalle mani e voltandosi, andando a sbattere contro una slargata maglietta con la faccia di Kurt Cobain e due spalle robuste.
«Cazzo, Eireen. Dove stavi andando?» Chiese Calum, fermandosi davanti all’amica che aveva inavvertitamente investito. La poetessa scosse la testa e lo superò, evitando di aprire bocca. Sarebbe scoppiata in lacrime, altrimenti.
Michael, nel vederla in quel modo, le corse dietro. Non fece nemmeno caso all’occhiataccia del moro. Fece appena in tempo ad afferrare la sua mano, costringendola a fermarsi e voltarsi verso di lui.
«Maledizione», esclamò. «Vuoi darmi il tempo di finire?» Chiese, cercando di non sentirsi in colpa per le lacrime che minacciavano di inondare le guance di Eireen, già divenute color pomodoro maturo per l’imbarazzo.
«Non c’è null’altro da dire. Felice di averti intrattenuto per un’oretta almeno», disse lei, fissando il marciapiede e mordendosi il labbro inferiore. Michael le alzò delicatamente il mento con l’indice, facendo in modo che i suoi grandi occhi scuri incontrassero i suoi.
«Sono bellissime. Nessuno ha mai usato parole tanto delicate per parlare di me», disse. «Voglio conoscerti meglio, quelle sole righe in rima non mi bastano. Dopo tutto, te lo meriti».
«Lo stai dicendo per consolarmi?» Chiese la giovane ancora incerta, tirando sonoramente su con il naso. Il musicista scosse la testa e sorrise. Come solo lui sapeva fare.
«Hai impegni per stasera, piccola poetessa?»

 
 
♦♦♦
 
 
 
Calum, dopo essersi scontrato con Eireen e aver visto il musicista della piazzola inseguirla, aveva scosso la testa e soffocato uno sbadiglio. Si era diretto come al solito al bar all’angolo, ma qualcosa l’aveva sorpreso. Aveva trovato Stacey con le spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate. Fuori dal locale.
«Perché non sei dietro la cassa a sbuffare per il caldo?»
«Forse oggi è il mio turno libero, testone?»
Il giovane sorrise, scuotendo leggermente la testa. Poi, notò un piccolo ma fondamentale particolare.
Gli occhi di Stacey non erano cerchiati da quel sottile filo nero di make-up. Il suo volto aveva un’aria più semplice e tranquilla, quasi… gentile e indifesa. Da brava ragazza. Ben lungi dalla giovane isterica dallo sguardo duro, che batteva meccanicamente le cifre sulla cassa del bar e tagliava i dolci con consumata sicurezza.
«Alla fine l’hai fatto, allora».
«Che cosa?»
«Uscire senza trucco», disse Calum. Notò le guance della sua interlocutrice imporporarsi lievemente e il suo sguardo fissarsi violentemente sul marciapiede.
«Ovvio. Non sono riuscita a trovare l’eyeliner da nessuna parte, te l’ho detto», si giustificò, sistemandosi una ciocca di capelli blu dietro l’orecchio forato da numerosi piercings.
«E allora perché sei qui?»
Stacey alzò gli occhi, incontrando quelli di Calum. Aveva appena detto di essere nel suo giorno libero. Eppure, fatto strano, si era ritrovata proprio davanti al bar ad attenderlo come sempre. Stranamente sicura che sarebbe venuto lo stesso. A ragione, in effetti.
«Non mi andava di restare casa», tergiversò. Ma sapevano entrambi che si trattava di una bugia.
«Solo…?» Incalzò il moro. Attimi di silenzio.
«Sapevo che saresti passato di qui. Lo fai tutti i giorni. Non vivi senza dolci».
«E tu non vivi senza questo…?»
Calum tirò fuori dalla tasca un sottile pennarellino scuro, la cui forma ricordava un TrattoPen. Il tappetto era abbastanza usato e nel complesso aveva una certa aria vissuta. Un’estremità era scheggiata, come segno distintivo inequivocabile. Stacey sgranò gli occhi e spalancò la bocca.
«Il mio eyeliner!» Urlò, strappandolo dalle mani di Calum e rigirandoselo fra le dita.
«Come fai ad averlo tu?» Chiese, ispezionando il cosmetico per sincerarsi che fosse ancora come l’aveva lasciato. Il moro si strinse nelle spalle.
«Ti era caduto ieri pomeriggio, mentre estraevi il cellulare nella tasca. E non te ne sei nemmeno accorta» disse. «Avrei dovuto ridartelo, ma poi mi son dimenticato. Quando mi hai chiamato, stamattina, e hai avuto un attacco isterico perché non lo trovavi…» s’interruppe, ridacchiando. «Non ho saputo resistere». Stacey lo guardò male per un momento, e intascò l’eyeliner. Poi gli diede un pizzicotto sul braccio, ignorando le esclamazioni di dolore del giovane.
«È giusto che tu soffra almeno la metà di quello che ho passato io stamattina!» Decretò, senza pietà. Era tornata nelle vesti della ragazza isterica.
«Ma se dovresti ringraziarmi!» Rispose Calum, accarezzandosi la zona dolorante con una smorfia.
«E di cosa? Avermelo nascosto perché ti divertivi?»
«No. Averti fatto capire che puoi vivere anche senza», rispose assumendo l’espressione quanto più vicina alla serietà di cui disponesse. Stacey non poté replicare a tono, realizzando che lui le avesse detto la verità. Sospirò sonoramente.
«Okay, andiamo» decretò, prendendo il braccio di Calum, facendo scivolare il proprio sopra di esso.
«Dove, scusa?» Chiese lui, lievemente disorientato. La ragazza sbuffò con impazienza.
«A prenderci un gelato, Calum. Hai bisogno della tua dose di zucchero quotidiana e io della mia di silenzio», spiegò, cominciando a spostarsi.
«Ben pensandoci, potresti anche bastarmi solo tu…» disse il giovane, con un sorriso smagliante e l’aria maliziosa. Ricevette un’occhiataccia assassina e un sorriso mal represso.
«Sta’ zitto e cammina».

 
 
♦♦♦
 
 
 
«Sai cosa sarebbe veramente bello? Un mio ritratto su qualche muro della città».
Luke lasciò andare l’erogatore della bomboletta e alzò lo sguardo. Il volto sorridente di Sydney gettava un’ombra sul grosso pezzo di cartone che stava graffitando. Aveva tirato la frangia color grano indietro, fermandola con delle forcine, lasciando i lunghi boccoli biondi ricadere ai lati del suo viso. Sembrava più grande, con quell’acconciatura.
Al posto della divisa da tennis, quel pomeriggio indossava una t-shirt azzurra a mezze maniche e un paio di shorts di jeans. Casual. Le si addiceva. L’unica cosa fuori posto, in tutto l’insieme, era il grosso blocco schizzi dall’aria familiare che stringeva sottobraccio.
«Sydney, ma quello…»
«Sì, è il tuo blocco. Me l’avevi dato per cercare le chiavi, ma poi te ne sei completamente scordato. Ieri pomeriggio sei scappato subito via dopo… beh…» e s’interruppe, lasciando vagare lo sguardo, imbarazzata. Luke sorrise, osservando il volto da bimba di Sydney alla luce pomeridiana. Il modo in cui socchiudeva le palpebre per schermarle dal sole, la curva dolce delle sue labbra, il modo in cui gli zigomi seguivano quella breve parentesi di paradiso, l’ombra fine e ben definita del suo naso. Sì, un suo ritratto non sarebbe stata una cattiva idea, dopo tutto.
«Tu che ne pensi?» Chiese l’artista a bruciapelo, posando la bomboletta con un secco tintinnio. Sydney lo guardò, con la stessa espressione di un bambino beccato a nascondere i cocci del vaso rotto sotto il tappeto.
«Di… di ieri?» Balbettò, e Luke annuì. Sospirò, sedendosi a gambe incrociate sul marciapiede, di fronte a lui.
«Non mi era mai successa una cosa del genere prima», confessò. Il giovane dall’altro lato non parlò, aspettando che la bionda continuasse da sola. Dopo alcuni minuti di riflessione.
«Il “problema” è che tu mi piaci, Luke», disse, mimando delle virgolette con le dita.
«Allora non vedo nessun problema», intervenne l’artista, fissandola intensamente in volto. Sydney sospirò affranta.
«Sono fidanzata».
Quelle due parole bastarono a scoccargli una stilettata in pieno cuore. Lo sentì vibrare come se il suo corpo fosse una cassa di risonanza, rendendolo sordo al mondo per il tempo di due battiti di ciglia. Trattenne il respiro.
«Credo che sia arrivato il momento di dirti perché ieri ho deciso di portarti con me».
Dopo tale preambolo, la bionda si lanciò in una descrizione dettagliata su quanto lo avesse visto “solo” in quella caffetteria l’altro pomeriggio.
Era stato più forte di lei, come se qualcosa nel suo corpo l’attirasse verso Luke e non potesse esserci via di fuga. Sentiva di conoscerlo da sempre, ma in realtà non si erano mai incontrati. Le loro vite avevano percorso binari paralleli e per un fortuito caso del destino erano arrivate a collidere. L’unica cosa che Sydney era riuscita a pensare per tutto quel pomeriggio, era stata il non lasciarsi sfuggire Luke.
 Proprio lui, con l’aria maledetta e al di sopra del mondo, i capelli indisciplinati e i vestiti logori, il piercing al labbro e le dita sporche di grafite. Si era perfino dimenticata di avere un ragazzo, una vita e un modo a parte diverso da lui. Le era sembrato così naturale prenderlo per mano, intrecciare la propria esistenza alla sua e dividere del tempo insieme.
Detto ciò, Sydney tacque, sfiorandosi le labbra con la mano, come se si fosse lasciata scappare delle parole di troppo. Luke rimase in silenzio per qualche attimo, metabolizzando il discorso.
«Conosci la parola “en”?» Domandò, di punto in bianco, rigirando il cartone che stava riempiendo di figure astratte con le bombolette e agguantando il primo carboncino libero. La bionda scosse la testa, osservando l’artista cominciare a disegnare di getto, in maniera rapida e sicura. Curva, linea, spigolo, ovale.
«È giapponese. Vuol dire “legame”», scandì, senza guardarla. «Significa che due persone sono unite nel karma, a livello spirituale. Magari in esistenze precedenti saranno stati amanti, o comunque avranno condiviso esperienze importanti. Sono destinate a trovarsi, prima o poi, e a riconoscersi immediatamente».
Sydney ascoltava rapita, iniziando ad osservare il disegno che pian piano prendeva vita sotto i suoi occhi. Erano un ragazzo e una ragazza, l’uno di spalle all’altra.
«Non importa quanto ci vorrà o come avverrà l’incontro. Sono fatte l’uno per l’altra, combaceranno in eterno. È come quando lasci un’impronta nel pongo. A meno che non venga rimodellato, essa rimarrà lì per sempre». Luke definì meglio le figure e poi prese un carboncino rosso.
«Un po’ come la storia dell’Akai Ito, il “filo rosso del destino”. La leggenda narra che ognuno di noi ha un sottile spago scarlatto legato al dito mignolo. L’altra estremità, stretta al medesimo dito, appartiene alla nostra anima gemella».
«Ma potremmo non incontrarla mai», ribatté Sydney. Luke sorrise, scuotendo la testa.
«Impossibile. Siamo destinati a trovarci».
Il disegno era completo, e quindi voltò il cartoncino verso la bionda. Erano loro due, Luke e Sydney. Non si guardavano negli occhi, poiché erano entrambi voltati da un’altra parte. Però, al mignolo di entrambi, era legato un fine laccio rosso. Uniti dal destino.
«…Mi stai dicendo che un capo del filo è attaccato al mio dito?» Chiese Sydney, sorridendo nel vedere quel rapido ritratto fatto sul momento.
Capì che la spiegazione del giovane era stata più che esauriente, non v’era bisogno di aggiungere nient’altro. I loro sguardi s’incontrarono, allacciandosi come fibre di una rossa matassa invisibile. Luke annuì.
«E l’altra parte, appartiene a me».



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Nota: e anche questa è finita. Sono stati quattro lunghi capitoli, ma pure Akai Ito è giunta alla sua conclusione! E' sempre un piccolo trauma, per me, premere il pulsantino e mettere la spunta "completa". Sarà perché detesto quando qualsiasi cosa finisca, bene o male che sia. Sono una persona complessa, lo so.
Cosa dire? Che questa storia mi ricorda un momento particolare della mia adolescenza, ha segnato il punto di svolta per la mia crescita stilistica ed è quindi una parte integrante del mio essere, tanto quanto tutte le altre opere che pubblico. Trovarle una casa adeguata e averle conferito la forma che ritenevo più opportuna, mi ha permesso di apprezzarla ancor meglio. Spero che anche a voi sia piaciuta, perché, personalmente, scriverla è stata una bella esperienza.
Ora, penserete che io non abbia più altre cose in serbo per voi, a parte THM. Beh, vi sbagliate!!! La prossima settimana pubblicherò una nuova mini-long, con Calum come protagonista. Quindi stay always tuned! E' anche un modo per farvi leggere vicende un po' più leggere e meno impegnative rispetto alle mie long serie, che hanno molti capitoli (e contenuti più pregnanti).
Grazie come sempre per aver letto/preferito/ricordato/seguito/recensito questa storia, e per essere stati sempre con me, nonostante le tempistiche altalenanti! Vi lascio con un arrivederci, perché è senza dubbio la forma più appropriata da usare in questo frangente! E... alla prossima!



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