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Autore: MaCk_a    06/10/2015    7 recensioni
Nel 1910, Virginia Gaetani ha diciassette anni. Fanciulla dalla natura vivace e allegra, si ritrova a dover reprimere le proprie esigenze a causa dei genitori, nobili che tengono all'onore e al rispetto più che all'amore.
La storia ha inizio quando a Virginia viene annunciato che un uomo ha chiesto la sua mano.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Angela era stata felice di poter rimanere in quel bel castello per qualche giorno – dieci, ma lei non lo sapeva, non li aveva contati – e si era divertita molto con la signora che chiamava semplicemente “la contessa”: non era un’adulta, o almeno non si comportava come tale, perché pensava solo a giocare assieme a lei e a divertirla e a farle scoprire tante cose interessanti, come i luoghi in cui vivevano gli scoiattoli e i lupacchiotti. Non uscivano mai dal castello durante il giorno ma questo non era stato un problema per Angela – o Neve, come si faceva chiamare adesso – dato che il castello era talmente grande da poter offrire continuamente nuove attività da svolgere, talmente grande da fare, a volte, un po’ paura. Nei momenti in cui la bimba sembrava spaventata, cosa che accadeva solitamente all’ora di andare a letto, la contessa la abbracciava forte, le cantava ninna-nanne o le raccontava fiabe; nel peggiore dei casi, si era mostrata persino disposta a farla dormire nel lettone assieme a lei e al conte e questo aveva placato l’animo della bimba che, nella donna, rivedeva un po’ il suo papà.

Sebbene la persona più affezionata ad Angela fosse la contessa, non si poteva dire che gli altri due inquilini del luogo fossero cattivi: il conte non parlava molto con la bambina, ma le sorrideva ed era evidente che fosse felice di averla come ospite; in realtà, la felicità dell’uomo non aveva tanto a che vedere con l’ospite quanto piuttosto con l’effetto che l’ospite creava sulla contessa… ma Angela ignorava certi particolari e quindi seguitava a sentirsi benaccolta; il vecchio maggiordomo, di cui la bimba non ricordava o forse neanche conosceva il nome, era poi come una specie di nonno, la nutriva, le chiedeva sempre cosa volesse mangiare e tentava in ogni modo di accontentarla; inoltre, qualche volta, la prendeva in disparte e le chiedeva di giocare assieme a lui perché, diceva, era opportuno che la contessa e il conte stessero un pochettino da soli, di tanto in tanto.

Cullata nel benessere, incantata dalla strana dimora in cui si era ritrovata e convinta di vivere in una sorta di fiaba, Angela aveva finito per allontanare dalla mente il pensiero dei suoi genitori; ovviamente li ricordava, ma come si ricorda qualcosa di sbiadito: sapeva che essi vivevano e l’aspettavano e, tuttavia, non vedeva la necessità di far ritorno tanto presto da loro. La contessa, dal canto suo, sperava che il momento della separazione non dovesse mai giungere e finì con l’accordare alla bimba sempre più autonomia, lasciandola libera di scorrazzare da una stanza all’altra come meglio credeva: per qualche strano motivo, il luogo preferito di Angela era la biblioteca. Ovviamente non sapeva leggere, era troppo piccola, ma alcuni libri avevano delle figure e poi c’erano tante scale a chiocciola, lì: avrebbe passato ore ed ore a percorrerle, su e giù!

Un giorno, poi, accadde che Angela si stancò di salire e scendere per quelle scale e decise di sfogliare qualche libro. Quando la contessa entrò e si avvicinò allo schienale della poltrona, trovò il volume macchiato di lacrime e la bimba singhiozzante. Angela guardava e rimirava il disegno di una bambina abbracciata da un uomo: era il finale di una qualche fiaba illustrata che mostrava appunto il ricongiungimento di una creaturina con l’adorato padre.

«Sono stanca di star qui, voglio tornare a casa. Voglio andare dal mio papà» balbettò la piccola, tirando su col naso.

«Neve cara! Non c’è davvero bisogno di piangere, tu puoi tornare a casa quando vuoi, basta dirlo! Ma sei davvero sicura di volermi lasciare? Non stai bene qui?»

«Non mi chiamo Neve!» sbottò la bimba, in preda quasi a una crisi isterica. «Io sono Angela Virginia Gaetani e voglio tornare a casa mia!»

Era, quello, il suo modo tipico di comportarsi quando era nervosa: nei momenti in cui faceva i capricci per qualcosa o si sentiva oltraggiata, la baronessina sbatteva il piedino a terra, ricordava a tutti il suo nome per intero – simbolo di autorità, come le aveva sempre detto suo padre – e ordinava il suo desiderio, che veniva prontamente esaudito.

La contessa, però, invece di attivarsi per farla tornare a casa, la guardava con gli occhi sbarrati e le labbra tremanti. Se c’era una cosa di cui era sempre stata certa, era che i membri della sua famiglia non stessero a Valle: l’unico che avrebbe avuto modo o motivo di stabilirsi lì era il maggiore dei suoi fratelli che, però, si era sempre rifiutato categoricamente di farlo, asserendo  di voler vivere nella secolare dimora di famiglia, nella loro cittadina natale.

«Andrai a casa, mia cara» assicurò la donna, tentando di darsi con contegno; la voce però tremava e gli occhi avevano assunto una strana espressione che un po’ spaventava la bambina. «Tu vivi a Valle, non è così? Dove vuoi che ti riportino i lupi?»

«Io non vivo a Valle» precisò la bimba, leggermente rassicurata «ma i lupi possono accompagnarmi a casa della mia nonna. Eravamo da loro, in vacanza… la mamma e il papà mi aspettano lì, io lo so!»

La contessa deglutì. Ora la somiglianza tra lei e quella bimba le appariva netta e assoluta. Non aveva sospettato di poter chiamare a lei una sua parente, perché era certa di non averne, a Valle…e invece… era logico che l’ipnosi agganciasse proprio lei, sangue del suo sangue. Se almeno fosse stata figlia di Leonardo, o di Quirino… dopotutto, che poteva saperne, lei? Da quando si era sposata, chissà quante cose potevano esser accadute! Forse anche gli altri due fratelli si erano accasati a Valle… tuttavia, se la bambina si chiamava Angela…

«Molto bene, mia cara. Dimmi solo come si chiamano la tua mamma e il tuo papà, così dirò ai lupi di cercarli.»

«La mia mamma si chiama Emma. Il mio papà Elio»

Saperlo con certezza fu come ricevere un colpo al cuore. Un brivido scosse tutto il corpo della donna, cosa strana, dato che da anni non provava più sensazioni così “umane”.

«Tu sei la figlia di Elio?» domandò con un filo di voce, sperando assurdamente che la bimba dicesse di no.

La bimba, al contrario, si sentì esplodere in cuore la gioia. «Conosci il mio papà? Allora mi porterai presto da lui? Mi manca tanto, io voglio rivederlo subito, non ce la faccio più a stare senza di lui! Lui è il papà più bravo del mondo e…»

 

 

 

 «E tu cosa fai qui?»

Angela, seduta sul gradino più alto di quella lunga scalinata, si voltò verso il conte rivelandogli gli occhietti rossi. Tra i singhiozzi spiegò l’accaduto, dicendo che aveva espresso il desiderio di andarsene e che la contessa, all’inizio, aveva detto di sì: poi però forse lei aveva detto qualcosa di male e la contessa si era arrabbiata e lei aveva urlato di uscire fuori da lì e adesso lei si sentiva tanto male e voleva davvero rivedere il suo papà…

Non fu certo come stare col proprio papà, ma per la piccola fu confortevole essere sollevata dalle braccia del conte ed esser messa a letto da lui con la promessa di poter presto tornare a casa; egli la salutò con un leggero bacio sulla fronte e, quando la vide addormentata, si recò in biblioteca. Sua moglie era in lacrime.

«La figlia di Elio!» urlò lei, vedendolo comparire.

«Suvvia, mia cara. Che se ne torni da dov’è venuta, cosa ci importa? Ne chiamerai un altro…»

«Non capisci!»

La donna si avvicinò al marito che poté scorgere un fuoco nei suoi occhi; il conte sapeva esattamente cosa sua moglie avesse in mente, ma non condivideva tale progetto.

Come ella rivelò a cuore aperto, la questione era semplice: le si era presentata, a sorpresa, l’occasione di vendicarsi. Privando Elio dell’essere che più amava, la contessa si sarebbe sentita ripagata per tutti i torti subiti e avrebbe reso giustizia a Silvia, dopo tanto tempo. Sarebbe stato sufficiente recarsi ora nella stanza della piccola… e poi il corpo l’avrebbero restituito e lei avrebbe lasciato anche un biglietto addosso al cadavere, così avrebbe saputo, Elio, che alla fine lei aveva vinto e l’aveva punito, ergendosi allo stato di una giusta potenza divina. Tuttavia, se il piano accendeva lo sguardo di lei di una sinistra enfasi, era pur vero che gli occhi continuavano a lacrimare: non ci sarebbe stata alcuna vendetta perché lei non ne aveva il cuore e piangeva, di rabbia e di sofferenza.

«Cosa devo fare?» domandò supplicante, aggrappandosi al marito. Questi le accarezzò il viso con delicatezza, tentando di calmarla.

«Nulla ti impedisce di ucciderla, se può farti piacere, ma temo che la cosa ti danneggerebbe senza portarti soddisfazione alcuna. La bambina è entrata nel bosco perché chiamata da te, altrimenti non l’avrebbe fatto; avevamo stabilito di lasciare andare le persone chiamate da noi. Certo, è una legge creata da noi e abbiamo ogni diritto di non rispettarla, nessuno ci giudicherà; tuttavia continuo a credere che, data la tua natura, finiresti col pentirtene.

«Anima mia» proseguì, avvicinando il viso tanto da riuscire a notare anche le lacrimucce che erano state imprigionate dalle ciglia «tu non sei come tuo fratello; perché pretendere di emularlo compiendo un’azione simile?»

 

 

In casi di tragedie, non esistono vie di mezzo: o le coppie coinvolte prendono ad odiarsi o, cercando rifugio l’uno nell’altra, stringono un legame ancor più forte. Emma ed Elio non si erano accusati a vicenda, consci del fatto che, proprio com’era accaduto anni prima, c’era di mezzo qualcosa di estraneo al loro mondo; restava da chiedersi come e perché Angela si fosse allontanata ma a questo nessuno pensava, troppo occupati a pregare – lei – e a minacciare le autorità. Elio aveva pensato più e più volte di recarsi personalmente su quella maledetta montagna, ma Emma l’aveva fermato dicendo che non avrebbe ritrovato la piccola, perdendo comunque la vita nella ricerca.

Non sapeva perché, Emma, ma aveva sentito il bisogno di vedere un ritratto della defunta cognata: da un’ovale polveroso, ora Virginia la guardava con aria pacata ma assolutamente triste, ascoltando le preghiere di quella povera mamma. Come sua nonna, Emma credeva al soprannaturale e sperava che lo spirito di Virginia, se ancora vagava nel bosco assieme alle altre anime che lì avevano trovato la morte, avesse protetto la nipotina mai conosciuta.

Ogni sera, fino a mezzanotte, Emma ed Elio rimanevano alzati, vagando da una finestra all’altra; ad ogni ombra insolita scorta nel giardino, aprivano le vetrate e chiamavano il nome della figlia, invano; a ogni lieve rumore tendevano l’orecchio, sapendo già di farlo inutilmente. Non trovavano riposo neanche se andavano a coricarsi ed erano certi che non avrebbero mai più chiuso occhio.

Erano le undici e trenta quando Elio suggerì a sua moglie di chiudere le imposte dato che, come sempre, aspettare oltre non sarebbe stato fruttuoso; Emma lo sapeva e per questo non protestò. Avvicinatasi però all’ultima finestra rimasta aperta, la donna temporeggiò: si sporse e, strizzando gli occhi, riconobbe la sagoma di un lupo. «Ci manca solo che invadano anche il paese» si disse.

Elio stava guardando il ritratto della sorella poggiato sul tavolino e avrebbe chiesto alla moglie perché lo aveva preso, se solo non avesse sentito canticchiare. Era la canzoncina che Angela canticchiava quando era buio e aveva paura; la cantava per farsi coraggio, come le aveva insegnato sua madre. Marito e moglie si guardarono negli occhi ed Elio corse alla porta.

Se non fosse stata tanto felice di aver ritrovato i suoi genitori, Angela avrebbe avuto paura della violenza con cui suo padre e sua madre le si fiondarono addosso per abbracciarla, baciarla e bagnarla con le loro lacrime. Fu meraviglioso dormire assieme a loro e ricevere tante coccole e, sebbene parlare con la polizia non fosse piacevole, Angela sopportò la cosa e, nei giorni successivi al suo ritorno, ripeté dettagliatamente – per quanto lo ricordava – l’accaduto: un lupo l’aveva portata nel bosco ed erano giunti a un grande castello, dove vivevano il conte e la contessa di Valle assieme a un vecchio maggiordomo. La contessa era la donna di cui Emma possedeva un ritratto.

Per un mesetto circa, dall’alba al tramonto, vari gruppi di persone salirono a ispezionare monte Janara, ma del castello non c’era traccia.

FINE

 

 

Angolo dell’autrice.

Saaalve. Ebbene mi rendo conto che non è un gran finale, ma per ora si conclude così. Ringrazio tantissimo chi ha seguito questa storia e ancor di più le persone che mi hanno aiutato comunicandomi i propri pareri.

Faccio anche una furbata. A titolo informativo (so che non ci credete… e fate bene) comunico che la storia “Un medico”, appena iniziata, è in qualche modo parallela a questa.

Ho sempre detto che Virginea nasce come prequel di un’altra storia che per ora non mi sento di scrivere… ecco, per Un medico vale la stessa cosa. Ovviamente i legami verranno a tessersi man mano… lo dico per evitare di essere linciata. XD

Grazie ancora a tutti… è stato bello sentire che Virginia è stata amata.

  
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