Angela
era stata felice di poter rimanere in quel bel castello per qualche
giorno –
dieci, ma lei non lo sapeva, non li aveva contati – e si era
divertita molto
con la signora che chiamava semplicemente “la
contessa”: non era un’adulta, o
almeno non si comportava come tale, perché pensava solo a
giocare assieme a lei
e a divertirla e a farle scoprire tante cose interessanti, come i
luoghi in cui
vivevano gli scoiattoli e i lupacchiotti. Non uscivano mai dal castello
durante
il giorno ma questo non era stato un problema per Angela – o
Neve, come si
faceva chiamare adesso – dato che il castello era talmente
grande da poter
offrire continuamente nuove attività da svolgere, talmente
grande da fare, a
volte, un po’ paura. Nei momenti in cui la bimba sembrava
spaventata, cosa che
accadeva solitamente all’ora di andare a letto, la contessa
la abbracciava
forte, le cantava ninna-nanne o le raccontava fiabe; nel peggiore dei
casi, si
era mostrata persino disposta a farla dormire nel lettone assieme a lei
e al
conte e questo aveva placato l’animo della bimba che, nella
donna, rivedeva un
po’ il suo papà.
Sebbene
la persona più affezionata ad Angela fosse la contessa, non
si poteva dire che
gli altri due inquilini del luogo fossero cattivi: il conte non parlava
molto
con la bambina, ma le sorrideva ed era evidente che fosse felice di
averla come
ospite; in realtà, la felicità
dell’uomo non aveva tanto a che vedere con
l’ospite quanto piuttosto con l’effetto che
l’ospite creava sulla contessa… ma
Angela ignorava certi particolari e quindi seguitava a sentirsi
benaccolta; il
vecchio maggiordomo, di cui la bimba non ricordava o forse neanche
conosceva il
nome, era poi come una specie di nonno, la nutriva, le chiedeva sempre
cosa
volesse mangiare e tentava in ogni modo di accontentarla; inoltre,
qualche
volta, la prendeva in disparte e le chiedeva di giocare assieme a lui
perché,
diceva, era opportuno che la contessa e il conte stessero un pochettino
da
soli, di tanto in tanto.
Cullata
nel benessere, incantata dalla strana dimora in cui si era ritrovata e
convinta
di vivere in una sorta di fiaba, Angela aveva finito per allontanare
dalla
mente il pensiero dei suoi genitori; ovviamente li ricordava, ma come
si
ricorda qualcosa di sbiadito: sapeva che essi vivevano e
l’aspettavano e, tuttavia,
non vedeva la necessità di far ritorno tanto presto da loro.
La contessa, dal
canto suo, sperava che il momento della separazione non dovesse mai
giungere e
finì con l’accordare alla bimba sempre
più autonomia, lasciandola libera di
scorrazzare da una stanza all’altra come meglio credeva: per
qualche strano
motivo, il luogo preferito di Angela era la biblioteca. Ovviamente non
sapeva
leggere, era troppo piccola, ma alcuni libri avevano delle figure e poi
c’erano
tante scale a chiocciola, lì: avrebbe passato ore ed ore a
percorrerle, su e
giù!
Un
giorno, poi, accadde che Angela si stancò di salire e
scendere per quelle scale
e decise di sfogliare qualche libro. Quando la contessa
entrò e si avvicinò
allo schienale della poltrona, trovò il volume macchiato di
lacrime e la bimba
singhiozzante. Angela guardava e rimirava il disegno di una bambina
abbracciata
da un uomo: era il finale di una qualche fiaba illustrata che mostrava
appunto
il ricongiungimento di una creaturina con l’adorato padre.
«Sono
stanca di star qui, voglio tornare a casa. Voglio andare dal mio
papà» balbettò
la piccola, tirando su col naso.
«Neve
cara! Non c’è davvero bisogno di piangere, tu puoi
tornare a casa quando vuoi,
basta dirlo! Ma sei davvero sicura di volermi lasciare? Non stai bene
qui?»
«Non
mi chiamo Neve!» sbottò la bimba, in preda quasi a
una crisi isterica. «Io sono
Angela Virginia Gaetani e voglio tornare a casa mia!»
Era,
quello, il suo modo tipico di comportarsi quando era nervosa: nei
momenti in
cui faceva i capricci per qualcosa o si sentiva oltraggiata, la
baronessina
sbatteva il piedino a terra, ricordava a tutti il suo nome per intero
– simbolo
di autorità, come le aveva sempre detto suo padre
– e ordinava il suo
desiderio, che veniva prontamente esaudito.
La
contessa, però, invece di attivarsi per farla tornare a
casa, la guardava con
gli occhi sbarrati e le labbra tremanti. Se c’era una cosa di
cui era sempre
stata certa, era che i membri della sua famiglia non
stessero a Valle: l’unico che avrebbe avuto modo o
motivo di
stabilirsi lì era il maggiore dei suoi fratelli che,
però, si era sempre
rifiutato categoricamente di farlo, asserendo
di voler vivere nella secolare dimora di famiglia, nella
loro cittadina
natale.
«Andrai
a casa, mia cara» assicurò la donna, tentando di
darsi con contegno; la voce
però tremava e gli occhi avevano assunto una strana
espressione che un po’
spaventava la bambina. «Tu vivi a Valle, non è
così? Dove vuoi che ti riportino
i lupi?»
«Io
non vivo a Valle» precisò la bimba, leggermente
rassicurata «ma i lupi possono
accompagnarmi a casa della mia nonna. Eravamo da loro, in
vacanza… la mamma e
il papà mi aspettano lì, io lo so!»
La
contessa deglutì. Ora la somiglianza tra lei e quella bimba
le appariva netta e
assoluta. Non aveva sospettato di poter chiamare a lei una sua parente,
perché
era certa di non averne, a Valle…e invece… era
logico che l’ipnosi agganciasse
proprio lei, sangue del suo sangue. Se almeno fosse stata figlia di
Leonardo, o
di Quirino… dopotutto, che poteva saperne, lei? Da quando si
era sposata,
chissà quante cose potevano esser accadute! Forse anche gli
altri due fratelli
si erano accasati a Valle… tuttavia, se la bambina si
chiamava Angela…
«Molto
bene, mia cara. Dimmi solo come si chiamano la tua mamma e il tuo
papà, così dirò
ai lupi di cercarli.»
«La
mia mamma si chiama Emma. Il mio papà Elio»
Saperlo
con certezza fu come ricevere un colpo al cuore. Un brivido scosse
tutto il
corpo della donna, cosa strana, dato che da anni non provava
più sensazioni
così “umane”.
«Tu
sei la figlia di Elio?» domandò con un filo di
voce, sperando assurdamente che
la bimba dicesse di no.
La
bimba, al contrario, si sentì esplodere in cuore la gioia.
«Conosci il mio
papà? Allora mi porterai presto da lui? Mi manca tanto, io
voglio rivederlo subito,
non ce la faccio più a stare senza di lui! Lui è
il papà più bravo del mondo
e…»
«E
tu cosa fai qui?»
Angela,
seduta sul gradino più alto di quella lunga scalinata, si
voltò verso il conte
rivelandogli gli occhietti rossi. Tra i singhiozzi spiegò
l’accaduto, dicendo
che aveva espresso il desiderio di andarsene e che la contessa,
all’inizio,
aveva detto di sì: poi però forse lei aveva detto
qualcosa di male e la
contessa si era arrabbiata e lei aveva urlato di uscire fuori da
lì e adesso lei
si sentiva tanto male e voleva davvero rivedere il suo
papà…
Non
fu certo come stare col proprio papà, ma per la piccola fu
confortevole essere
sollevata dalle braccia del conte ed esser messa a letto da lui con la
promessa
di poter presto tornare a casa; egli la salutò con un
leggero bacio sulla
fronte e, quando la vide addormentata, si recò in
biblioteca. Sua moglie era in
lacrime.
«La
figlia di Elio!» urlò lei, vedendolo comparire.
«Suvvia,
mia cara. Che se ne torni da dov’è venuta, cosa ci
importa? Ne chiamerai un
altro…»
«Non
capisci!»
La
donna si avvicinò al marito che poté scorgere un
fuoco nei suoi occhi; il conte
sapeva esattamente cosa sua moglie avesse in mente, ma non condivideva
tale
progetto.
Come
ella rivelò a cuore aperto, la questione era semplice: le si
era presentata, a
sorpresa, l’occasione di vendicarsi. Privando Elio
dell’essere che più amava,
la contessa si sarebbe sentita ripagata per tutti i torti subiti e
avrebbe reso
giustizia a Silvia, dopo tanto tempo. Sarebbe stato sufficiente recarsi
ora
nella stanza della piccola… e poi il corpo
l’avrebbero restituito e lei avrebbe
lasciato anche un biglietto addosso al cadavere, così
avrebbe saputo, Elio, che
alla fine lei aveva vinto e l’aveva punito, ergendosi allo
stato di una giusta
potenza divina. Tuttavia, se il piano accendeva lo sguardo di lei di
una
sinistra enfasi, era pur vero che gli occhi continuavano a lacrimare:
non ci
sarebbe stata alcuna vendetta perché lei non ne aveva il
cuore e piangeva, di
rabbia e di sofferenza.
«Cosa
devo fare?» domandò supplicante, aggrappandosi al
marito. Questi le accarezzò
il viso con delicatezza, tentando di calmarla.
«Nulla
ti impedisce di ucciderla, se può farti piacere, ma temo che
la cosa ti
danneggerebbe senza portarti soddisfazione alcuna. La bambina
è entrata nel
bosco perché chiamata da te, altrimenti non
l’avrebbe fatto; avevamo stabilito
di lasciare andare le persone chiamate da noi. Certo, è una
legge creata da noi
e abbiamo ogni diritto di non rispettarla, nessuno ci
giudicherà; tuttavia
continuo a credere che, data la tua natura, finiresti col pentirtene.
«Anima
mia» proseguì, avvicinando il viso tanto da
riuscire a notare anche le
lacrimucce che erano state imprigionate dalle ciglia «tu non
sei come tuo
fratello; perché pretendere di emularlo compiendo
un’azione simile?»
In
casi di tragedie, non esistono vie di mezzo: o le coppie coinvolte
prendono ad
odiarsi o, cercando rifugio l’uno nell’altra,
stringono un legame ancor più
forte. Emma ed Elio non si erano accusati a vicenda, consci del fatto
che,
proprio com’era accaduto anni prima, c’era di mezzo
qualcosa di estraneo al
loro mondo; restava da chiedersi come e perché Angela si
fosse allontanata ma a
questo nessuno pensava, troppo occupati a pregare – lei
– e a minacciare le autorità.
Elio aveva pensato più e più volte di recarsi
personalmente su quella maledetta
montagna, ma Emma l’aveva fermato dicendo che non avrebbe
ritrovato la piccola,
perdendo comunque la vita nella ricerca.
Non
sapeva perché, Emma, ma aveva sentito il bisogno di vedere
un ritratto della
defunta cognata: da un’ovale polveroso, ora Virginia la
guardava con aria
pacata ma assolutamente triste, ascoltando le preghiere di quella
povera mamma.
Come sua nonna, Emma credeva al soprannaturale e sperava che lo spirito
di
Virginia, se ancora vagava nel bosco assieme alle altre anime che
lì avevano
trovato la morte, avesse protetto la nipotina mai conosciuta.
Ogni
sera, fino a mezzanotte, Emma ed Elio rimanevano alzati, vagando da una
finestra all’altra; ad ogni ombra insolita scorta nel
giardino, aprivano le
vetrate e chiamavano il nome della figlia, invano; a ogni lieve rumore
tendevano l’orecchio, sapendo già di farlo
inutilmente. Non trovavano riposo
neanche se andavano a coricarsi ed erano certi che non avrebbero mai
più chiuso
occhio.
Erano
le undici e trenta quando Elio suggerì a sua moglie di
chiudere le imposte dato
che, come sempre, aspettare oltre non sarebbe stato fruttuoso; Emma lo
sapeva e
per questo non protestò. Avvicinatasi però
all’ultima finestra rimasta aperta,
la donna temporeggiò: si sporse e, strizzando gli occhi,
riconobbe la sagoma di
un lupo. «Ci manca solo che invadano anche il
paese» si disse.
Elio
stava guardando il ritratto della sorella poggiato sul tavolino e
avrebbe
chiesto alla moglie perché lo aveva preso, se solo non
avesse sentito
canticchiare. Era la canzoncina che Angela canticchiava quando era buio
e aveva
paura; la cantava per farsi coraggio, come le aveva insegnato sua
madre. Marito
e moglie si guardarono negli occhi ed Elio corse alla porta.
Se
non fosse stata tanto felice di aver ritrovato i suoi genitori, Angela
avrebbe
avuto paura della violenza con cui suo padre e sua madre le si
fiondarono
addosso per abbracciarla, baciarla e bagnarla con le loro lacrime. Fu
meraviglioso dormire assieme a loro e ricevere tante coccole e, sebbene
parlare
con la polizia non fosse piacevole, Angela sopportò la cosa
e, nei giorni
successivi al suo ritorno, ripeté dettagliatamente
– per quanto lo ricordava – l’accaduto:
un lupo l’aveva portata nel bosco ed erano giunti a un grande
castello, dove
vivevano il conte e la contessa di Valle assieme a un vecchio
maggiordomo. La
contessa era la donna di cui Emma possedeva un ritratto.
Per
un mesetto circa, dall’alba al tramonto, vari gruppi di
persone salirono a
ispezionare monte Janara, ma del castello non c’era traccia.
FINE
Angolo
dell’autrice.
Saaalve.
Ebbene mi rendo conto che non è un gran finale, ma per ora
si conclude così.
Ringrazio tantissimo chi ha seguito questa storia e ancor di
più le persone che
mi hanno aiutato comunicandomi i propri pareri.
Faccio
anche una furbata. A titolo informativo (so che non ci
credete… e fate bene)
comunico che la storia “Un medico”, appena
iniziata, è in qualche modo
parallela a questa.
Ho
sempre detto che Virginea nasce come prequel di un’altra
storia che per ora non
mi sento di scrivere… ecco, per Un medico vale la stessa
cosa. Ovviamente i
legami verranno a tessersi man mano… lo dico per evitare di
essere linciata. XD
Grazie
ancora a tutti… è stato bello sentire che
Virginia è stata amata.