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Autore: GiuliaStark    08/10/2015    0 recensioni
Axel ed i suoi genitori si sono da poco trasferiti a Los Angeles in quella che chiamano tutti la Casa degli Omicidi. Nell'ultimo anno lei e la sua famiglia ne hanno passate tante ed ora è tempo di cercare di riaggiustare tutto ciò che si è spezzato. Axel però è una ragazza difficile, ne ha passate tante ma nonostante tutto nel profondo, sotto la dura scorza, è ancora una ragazza che sogna e spera. La casa però ha un oscuro passato. Succedono cose strane ed Axel anche se spaventata ne è inspiegabilmente incuriosita. Cosa accade lì che loro non sanno? Nel bel mezzo delle lotte che intraprende contro la sua famiglia e se stessa fa la conoscenza di Tate Langdon, un ragazzo che la incuriosisce dal primo istante. Ma chi è Tate in realtà? E perchè ogni volta che è in sua presenza si sente così strana? Axel sa che Tate le nasconde qualcosa ma nonostante tutto non riesce ad allontanarlo, dopotutto anche lei ha i suoi demoni. I due hanno un rapporto speciale, ma cosa rappresentano l'uno per l'altra? La salvezza o la distruzione?
Genere: Horror, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Tate Langdon, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Beep… Beep… Beep…
Sentivo incessantemente questo rumore assordante da tempo. Tutto sembrava riecheggiare nel perenne vuoto in cui galleggiavo, ciò che vedevo o percepivo era costituito solo da buio ed oscurità. Mi sentivo persa, incorporea e paurosamente immobile, non sapevo cosa mi fosse successo… l’ultimo ricordo che avevo era la sensazione di annegamento, poi più niente. Il buio totale. Ero morta? Stavo per morire? Beh, se era così sperai che il Tristo Mietitore sarebbe giunto presto, almeno mi avrebbe strappato di dosso questa sensazione. Non sapevo spiegarla appieno, era più come un disagio: non riuscivo a percepire il mio corpo, né vederlo, era come se fossi diventata un tutt’uno con l’aria, come se non esistessi più; perfino la concezione di tempo mi era totalmente sconosciuta, qui, in questa specie di dimensione fuori dal mondo non c’era niente che potesse confermarmi che il mondo esterno esistesse davvero e se io ne facevo parte. Non so quanto trascorsi a crogiolarmi nel pensiero di quello che mi era accaduto, fatto sta che ad un tratto dei lampi illuminarono il buio e delle immagini apparvero a sprazzi mostrando un quadretto davvero poco rassicurante: non era molto preciso, anzi, i contorni erano quasi sfocati, come se lo stessi guardando attraverso un vetro appannato; cercai di concentrarmi sulla scena e focalizzare il tutto ma all’improvviso cambiò. Tutto iniziò a roteare vorticosamente mentre i colori si facevano più vivaci e si sentirono delle urla, urla di una voce che conoscevo bene: la mia; poi tutto si rivelò… sangue, sangue ovunque… io distesa a terra agonizzante. Sentivo il dolore, il mio dolore scorrermi addosso; una sensazione molto simile al panico mi invase completamente e cercai di scrollarmela via senza ottenere risultati. Altre voci si unirono alla confusione che già c’era e cominciai lentamente a sentirmi meno incorporea, meno persa; ci fu un forte scossone poi una grande luce si sostituì al buio ed alle immagini raccapriccianti che mi erano apparse poco fa. Bianco, un immenso e luminoso bianco puro. Sentii di nuovo il mio corpo mentre ne riprendevo possesso ed il dolore che continuava a scorrermi dentro risvegliando ogni terminazione nervosa, sentivo il mondo di nuovo girarmi attorno dicendomi che facevo parte della vita anche io, sentivo delle voci, voci sconosciute che mi gettarono addosso una nuova ondata di panico. Il bianco accecante cominciò a sfumare e temetti che presto sarebbe tornato il buio, ma invece vennero i colori ed attorno a me prese forma quella che doveva essere una stanza; mi guardai intorno e mi accorsi che di familiare non aveva proprio nulla: le pareti erano di un azzurro sfocato, quasi sicuramente sbiadito dal tempo, sul lato sinistro c’era una finestra sotto la quale prendeva posto una piccola cassapanca e per finire l’arredamento terminava con un comodino accanto al letto ed un armadio nella parete di fronte. Dov’ero? Che cos’era questa stanza? Perché non mi trovavo a casa mia? Davanti a me apparvero due figure interamente vestite di bianco che mi fissavano quasi studiandomi, poi si scambiarono qualche sussurro ed alla fine l’uomo parlò:
- Salve, sono il Dottor Jensen ti trovi in ospedale a seguito di un’aggressione, come ti senti? –
Fissai quell’uomo con una certa riluttanza non registrando appieno le parole che mi aveva rivolto; socchiusi le labbra per parlare ma non vi uscì alcun suono, sentivo la gola in fiamme e mentre cercavo di sforzarmi per parlare fu come se una lama mi trafiggesse il collo da parte a parte tirandomi fuori un suono strozzato ed alquanto inquietante. L’uomo si voltò rivolgendosi all’infermiera:
- Chiama i parenti e portale un bicchiere d’acqua – la donna annuì ed uscì senza dir nulla.
La stanza cadde nel silenzio più totale, mi guardavo attorno cercando di far mio quello che vedevo ma con scarso successo; puntai lo sguardo fuori la finestra ed ammirai il cielo azzurro e privo di nuvole che si intravedeva da essa, doveva essere sicuramente mattina inoltrata a giudicare dai raggi del sole che scaldavano la stanza. Mi voltai verso il dottore, che reggeva in mano una cartella scrivendoci sopra qualcosa, e lo fissai di sottecchi seguendo ogni sua mossa ma fui distratta dal cigolio della porta che si apriva. Nella stanza entrò nuovamente l’infermiera con in mano una caraffa d’acqua ed un bicchiere che mi porse fingendo un sorriso che non ricambiai. Bevvi a grandi sorsi beandomi della sensazione di fresco che si irradiò giù per la gola portandola a reidratarsi un po’; la porta, lasciata socchiusa, cigolò ancora aprendosi del tutto ed attirando il mio sguardo: da essa entrò mia madre con il volto a metà tra il sollevato e lo sconvolto, aveva i capelli legati in una coda scomposta e gli occhi ancora umidi, segno che aveva pianto. Subito dietro di lei c’era mio padre con il suo solito sguardo indecifrabile e la sua espressione severa che non mi sorprese affatto, dopotutto chi mi assicurava che per lui essere qui non era una scocciatura? Entrambi si avvicinarono, mia madre con passo incerto ma con un piccolo sorriso sul volto:
- Axel, tesoro, come stai? – mi chiese sedendosi sul letto facendolo cigolare.
- Sta bene signora, non si preoccupi – rispose il dottore al mio posto – È ancora un po’ scossa e frastornata, ma è normale visto l’accaduto –
- Quando potrà tornare a casa? –
- È difficile dirlo, è stata un’operazione complicata ed ha avuto perfino un collasso, quindi sarebbe meglio vedere come si evolve la situazione prima di prendere qualsiasi decisione –
- Va bene – mia madre annuì, poi spostò nuovamente lo sguardo su di me con lo stesso sorriso di prima – Non preoccuparti, starai presto bene –
- Cosa è successo? – parlai per la prima volta dopo svariato tempo e sentire nuovamente la mia voce mi apparve come qualcosa di strano e al quale dovevo fare nuovamente l’abitudine.
Il viso di mia madre cambiò di colpo espressione rabbuiandosi e spostando lo sguardo verso il dottore come per chiedere un aiuto silenzioso, mio padre invece indurì ancora di più l’espressione fissando la parete di fianco a lui:
- Non ricordi nulla? – mi chiese mia madre tornata a guardarmi.
- Non molto – socchiusi gli occhi e scossi lentamente la testa – È tutto confuso –
- Non allarmatevi signori Knight, in seguito ad un trauma del genere il cervello tende a rimuovere i fatti che hanno creato questo blocco, presto ricorderà tutto – mi guardò di sfuggita – Vi lascio soli – ed uscì assieme all’infermiera.
Aveva detto che avrei ricordato, ma io non volevo. Per niente al mondo avrei voluto rivivere quell’agonia e tornare a vedere quelle immagini; preferivo dimenticare, come se non fosse mai successo ma sapevo che con me il Fato non sarebbe stato buono neanche stavolta e che presto avrei ricordato tutto. Ogni singolo minuto che mi aveva avvicinata sempre di più alla morte. Non mi ero accorta di essermi estraniata per qualche secondo, così quando rialzai lo sguardo ed incrociai quello preoccupato di mia madre sospirai cercando di avere pazienza con lei, dopotutto era stata un’esperienza traumatica per entrambe:
- Sto bene mamma – annuii facendole un sorriso forzato che lei ricambiò asciugandosi gli occhi – Tu come stai? –
- Bene, tesoro… ancora un po’ scossa ma passerà presto –
Nel frattempo mio padre si era avvicinato ancora di più posizionandosi accanto a mia madre e da quella distanza notai che aveva leggermente addolcito lo sguardo e smussato la durezza del volto ora che eravamo rimasti soli; si protese verso di me e poggiò la sua mano grande e calda sulle mie e con un sorriso, che voleva essere rassicurante ma che a me parse invece molto nervoso, si decise a rivolgermi la parola:
- Sono contento che state bene entrambe – guardò anche mia madre che sospirò – Non sarei dovuto partire –
- Non potevi sapere cosa sarebbe successo – sussurrò mia madre con lo sguardo basso.
- Non sarei dovuto partire comunque –
Aveva uno sguardo strano, quasi colpevole. Che stesse nascondendo qualcosa? Cos’era successo mentre era via? Che le cose tra i miei fossero cambiate o addirittura peggiorate? In quel momento, attanagliata dai dubbi, desiderai tornare nel perenne buio in cui ero intrappolata prima.
- Da quanto tempo sono qui? –
- Quasi due settimane – disse mia madre con cautela.
Sgranai gli occhi. Due settimane. Avevo quasi speso due intere settimane in preda a quel Limbo oscuro e bloccata in un letto d’ospedale. Era impressionante per quanto tempo non ero stata padrona del mio corpo ed in quel momento mi chiesi se questa traumatica esperienza mi avrebbe in qualche modo cambiata, sperai di no perché ero sicura che non avrei retto alla nascita di un’altra nuova me, non stavolta. Sospirai e rivolsi nuovamente lo sguardo verso i miei genitori che mi osservavano con cautela indecisi se dire o fare qualcosa, così per toglierli dall’imbarazzo parlai io, avevo bisogno di risposte:
- E così ho avuto un collasso durante l’operazione…? – domandai spostando lo sguardo tra i due.
Mia madre sembrò rabbrividire, mentre mio padre socchiuse gli occhi e serrò la mandibola, se non lo conoscessi abbastanza avrei potuto pensare che di li a poco sarebbe scoppiato a piangere:
- Si… - rispose mia madre con la voce che tremava – Hanno dovuto rianimarti due volte nel corso dell’operazione –
La sua mano si poggiò sulla mia e la strinse leggermente come se tutta la forza che aveva le fosse scivolata via; le sue parole erano forti da sentire e recepire ma era fondamentale che lo facessi, che sapessi cosa mi era successo quella sera. Quel pensiero non faceva altro che risuonarmi in mente: ero morta. Per qualche secondo il mio cuore aveva smesso di battere, si era arreso al Destino e poi tutto ad un tratto era tornato a battere pompando la vita dentro di me. Ora che era realmente accaduto, anche se non riuscivo a capacitarmene appieno, mi chiesi se dopotutto rimanere in quello stato di perenne riposo mi avrebbe reso libera e se ne sarei stata soddisfatta. Beh, c’era da dire che una volta morti non credo che si abbia il modo di rendersene conto e ragionarci su, accade e basta e non si sa cosa viene dopo, sempre se c’era, se tu potevi vedere i tuoi cari trasformandoti in una specie di quegli spiriti di quei film horror che vedevo spesso. Dovevo ammettere che mi sarebbe piaciuto scoprirlo. Ok, si, era un pensiero molto distorto per chi come me aveva appena subito un’esperienza del genere, ma che potevo farci? Il fascino dell’Ignoto e dell’Oscurità avevano sempre avuto un certo effetto su di me:
- Quanto è durata l’operazione? – chiesi.
- Quasi sei ore, è stata complicata… la ferita era profonda –
- Mi dispiace… - sussurrai.
- Per cosa, tesoro? –
- Per averti fatta preoccupare così – ero sincera. Si forse i rapporti con mia madre non erano sempre dei migliori, ma ci tenevo molto a lei.
- Non è affatto colpa tua, ok? Sono quei pazzi che ti hanno fatto questo a doversi scusare – disse con un tono di voce più severo.
- Li hanno trovati? – domandai alzando un sopracciglio.
- Non ancora – scosse la testa.
Questa notizia la presi in modo strano… sapere che chi ci aveva fatto questo era ancora là fuori a piede libero mi metteva una certa ansia e preoccupazione. Cosa sarebbe successo se fossero tornati? O se li avessi incontrati per caso per strada mentre facevo una passeggiata? Poteva accadere di tutto ed in qualsiasi momento. Il terrore che avevo avuto in quei momenti, mentre quell’uomo mi faceva del male, era qualcosa di indicibile e talmente forte che solo a pensarci lo sentivo nuovamente scorrermi addosso e prendere il controllo. Giurai di poter ancora percepire le mani sudice e violente di quel mostro su di me. La mente andava a mille, elaborando tutto quello che fino al mio risveglio non avevo potuto fare ed il peso degli eventi e della paura che potessi rivivere una situazione del genere mi crollò improvvisamente sulle spalle provocandomi un’orribile sensazione che non sapevo, o non volevo, spiegare. Sentivo però che la testa cercava di mandarmi un messaggio attraverso i sentimenti cominciando dal farmi provare il presentimento che avevo dimenticato qualcosa, qualcosa di molto importante. C’era come un senso di mancanza e vuoto in me e il non capire appieno mi provocava un’enorme frustrazione, soprattutto perché poteva trattarsi di qualcosa di importante. Non sapevo se avevo tralasciato un dettaglio nel processo per ricordare, ma era certo che qualcosa mi sfuggiva. Stava tutto nel capire cosa:
- Axel, ascolta – iniziò mio padre interrompendo la linea dei miei pensieri – So che forse è presto per parlarne, ma… -
- No, John, ne abbiamo già discusso, non è il momento! – lo interruppe mia madre voltandosi a guardarlo. Non riuscivo a vedere la sua espressione, ma di certo potevo immaginare che non era affatto rassicurante e pacifica come al solito, visto il tono di voce aggressivo con cui gli si era rivolta.
- Anne, è una questione importante! – alzò la voce – Se quei mostri sono riusciti a scappare potete essere ancora in pericolo! -
- Non ora! – sottolineò mia madre a denti stretti.
Ne avevo abbastanza. Anche davanti a me in un letto d’ospedale reduce di un’esperienza traumatica non riuscivano ad evitare di urlarsi l’uno contro l’altro. Presi un lungo sospiro e nel mentre sentii un’acuta fitta di dolore dove c’era la ferita ma la ignorai e parlai comunque:
- Adesso basta! – dissi alzando la voce con molta fatica attirando la loro attenzione – Non potete fare a meno di discutere anche in un ospedale… – scossi la testa amareggiata.
- Scusaci, hai ragione – rispose mia madre abbassando lo sguardo.
- Cosa dovete dirmi? – presi un profondo respiro cercando ancora una volta di evitare il dolore crescente.
- Abbiamo parlato con la polizia – iniziò mio padre – Vorrebbero parlare con te riguardo l’aggressione, sapere i dettagli e magari riuscire ad avere un identikit di quelle persone –
- Va bene – annuii – Ma non ancora, vorrei aspettare un paio di giorni per… riprendermi – sussurrai evitando il suo sguardo.
- Ok, avviserò io gli agenti – annuii - Quella casa non fa che attirare pazzi decerebrati -
Le sue parole attirarono la mia attenzione. Sentivo che sotto di esse c’era qualcosa che premeva per essere detto, poi iniziai a far lavorare la testa, anche se stanca, elaborando tutto ciò che ricordavo e fu in quel momento che capii la sensazione di mancanza che avevo provato prima: Tate. Era come se tutto il mio corpo urlasse il suo nome ma io non ero riuscita a sentirlo. Mio padre si stava riferendo a lui e non solo ai maniaci che erano entrati in casa nostra ed ancora una volta odiai il modo in cui continuava a giudicarlo. Altri flash mi passarono davanti agli occhi, ricordi che tornavano a bussare alla porta della mia memoria e tra tutti ci fu un’immagine più nitida delle altre che ritraeva Tate che veniva in mio soccorso e subito dopo rannicchiato al mio fianco a pregarmi di resistere e di non andarmene. Provai una strana sensazione alla bocca dello stomaco che da piacevole divenne una tortura quando mi resi conto che non aveva mie notizie da quasi due settimane; alzai di colpo lo sguardo verso mio padre e parlai con decisione:
- In queste due settimane hai visto Tate? –
Alzò lo sguardo verso di me e dentro ci lessi talmente tanto disapprovo che potevo quasi sentire la sua rabbia che cresceva per riversarsi contro di me:
- In questo momento quel ragazzo dovrebbe essere l’ultimo dei tuoi pensieri – cercò di calibrare la voce ma capivo benissimo che si stava trattenendo.
- Rispondimi, ti prego! – insistetti sporgendomi in avanti nonostante le proteste di mia madre.
- No! Finché potrò ti terrò lontana da quel pazzo! –
- Quello che tu chiami pazzo mi ha salvato la vita!! – adesso ad urlare fui io – Se non fosse intervenuto sarei morta! –
- Axel, ti prego, calmati – disse mia madre poggiando la sua mano sulla mia, ma la ignorai completamente.
- E non ti domandi per quale motivo fosse lì?! Quel ragazzo ti gira troppo intorno, forse è lui che vuole farti del male! –
- Questa è bella! Se avesse voluto farmi del male non mi avrebbe salvata! –
Mi tirai completamente in avanti e realizzai solo in quel momento di aver osato troppo: sentii un dolore più acuto degli altri percorrermi interamente l’addome per poi propagarsi in tutto il corpo provocandomi uno spasmo ed un rantolo di puro dolore; mia madre si sporse velocemente per aiutarmi a distendermi nuovamente facendo molta attenzione. Nel frattempo continuavo ad avere lo sguardo puntato verso mio padre che in quel momento non sapeva come reagire:
- La stai facendo agitare, smettila! – lo rimproverò mia madre.
- Sto bene, sto bene… - dissi con la voce ridotta ad un sospiro.
- Axel, è meglio se riposi ora –
- Non finché non mi promettete che potrò vedere Tate –
- No! – tuonò mio padre.
Mia madre tornò a guardarlo con astio, poi si voltò ancora incontrando il mio sguardo addolcendo il suo e cercando di sorridermi:
- Ascolta tesoro… - la interruppi subito.
- No mamma, ascolta tu – mi schiarii la voce mentre poggiai una mano sull’addome nel vano tentativo di contenere il dolore crescente – Capisco la vostra preoccupazione – sottolineai quella parola più del necessario guardando verso mio padre – Ma, Tate mi ha salvato dal mio aggressore, anzi, ci ha salvate entrambe e vorrei vederlo per fargli sapere che è grazie a lui che sono ancora viva -
Mia madre sospirò chinando la testa e fissando il lenzuolo azzurro che mi copriva parzialmente, poi quando tornò a guardarmi mi sorrise leggermente ed in quel momento sperai con tutta me stessa che avesse potuto accontentare la mia richiesta:
- Ne parleremo, va bene? –
Annuii e distolsi lo sguardo puntandolo verso la finestra, sapevo che quello era il massimo che potevo ottenere al momento ma era sempre meglio di un no definitivo, ma in compenso non riuscivo a non sentire la rabbia scorrermi nelle vene e ribollire come acqua sul fuoco:
- Ha chiesto di me? – sussurrai tornando a guardarli entrambi.
- È venuto a casa un paio di volte… – ammise mia madre con uno sguardo che mi fece capire che c’era molto di più sotto.
- E cosa è successo che non volete dirmi? – aggrottai la fronte iniziando a preoccuparmi.
- È successo che il tuo amico si è rivelato per il pazzo che è – rispose mio padre duramente ma cercai di ignorarlo aspettando che mia madre continuasse.
- Ha dato un po’ di matto perché voleva sapere come stavi visto che non poteva venire in ospedale, ma tuo padre lo cacciava via –
- Dato un po’ di matto è una riduzione! Ha avuto una vera e propria crisi – scosse la testa – È assurdo che ancora vada in giro libero, dovrebbe essere rinchiuso in qualche struttura apposita – disse con una freddezza glaciale e senza la minima forma di umanità o pietà nei confronti di Tate.
- Ti farebbe piacere, non è vero? - sussurrai con lo sguardo puntato verso il basso mentre emettevo una risata sarcastica.
- Non lo nego, sarei più tranquillo di non vederlo più girare attorno a te –
- Mi ha salvato la vita, dannazione! Cos’altro serve per convincerti!? – urlai con le lacrime agli occhi.
Entrambi non dissero nulla, probabilmente sorpresi dal tono della mia voce. Dopo quello sforzo il dolore cambiò in un secondo: sentii un paio di fitte lancinanti sulla ferita, come se sentissi nuovamente il coltello conficcarsi nella mia carne più e più volte. Serrai gli occhi con forza e rilasciai un lamento portandomi le mani al ventre; era una sensazione orribile, sembrava che la pelle volesse strapparsi e come se non bastasse bruciava… bruciava da morire. Mi contorsi nel letto, mentre la paura cominciava a crescere in me; mia madre cercava di tenermi ferma e parlarmi, ma tutto quello che potevo percepire in questo momento era dolore, un immenso dolore che rischiava di farmi impazzire. Improvvisamente sentii la porta aprirsi, qualcuno entrò e nella confusione riconobbi la voce del medico:
- Tienila ferma, tu invece portami una siringa di tranquillante, presto! –
Non so quanto durò questa agonia, ma ad un tratto sentii qualcosa di appuntito conficcarsi nel braccio non ferito e nel giro di pochi secondi una sensazione di calma cominciò a scorrermi in tutto il corpo annebbiandomi la mente e la vista e prima che potessi accorgermene ripiombai nell’oscurità.
Quando riaprii gli occhi sentivo che era cambiato qualcosa, mi guardai attorno e voltandomi verso la finestra notai che la luce brillante del mattino si era affievolita mandando un po’ d’ombra all’interno della stanza. Cercai di mettermi su a sedere ma nel momento in cui ci provai sentii come una puntura al braccio sinistro e abbassando lo sguardo notai che avevo una flebo attaccata nell’incavo del braccio, mentre un’altra sul dorso della mano; sospirai e tornai nella posizione di prima iniziando a fissare il soffitto. Sarebbe stata una lunga degenza, me lo sentivo, l’unica cosa che mi piaceva nell’essere qui era che potevo restare il più lontana possibile da mio padre senza il continuo timore di scoppiare in una furiosa lite come era successo poco fa; mi passai la mano tra i capelli facendo attenzione ai tubi vari: fortunatamente la ferita che avevo sull’altro braccio non mi dava molti problemi, solo qualche fitta di tanto in tanto, quella a preoccuparmi però era quella sull’addome. Sarei guarita del tutto? La ferita era molto profonda e sapevo che i punti usati per chiuderla dopo l’operazione erano molti… mi provocava disagio perfino pensarci. La porta si riaprì per l’ennesima volta in quella giornata e la testa di mia madre apparve dalla fessura e notando che ero sveglia sorrise ed entrò:
- Ehi – si sedette nello stesso punto di prima e mi sistemò una ciocca dietro l’orecchio – Da quanto sei sveglia? –
- Qualche minuto credo – risposi con un sussurro.
- Come ti senti? –
- Assonnata… e molto stanca –
- È normale – sorrise annuendo – È il calmante che ti hanno somministrato –
- Quanto ho dormito? – domandai passandomi la mano sul volto.
- Quasi tre ore, hanno dovuto sostituirti un paio di punti –
- Ok… - distolsi lo sguardo.
- Tuo padre è andato a prenderti un po’ di cose a casa – non dissi nulla e lei continuò – Capisco il tuo punto di vista Axel, ma… -
- Non voglio parlarne – la interruppi subito continuando ad evitare il suo sguardo.
- Come vuoi – sospirò – Allora, di cosa vuoi parlare? – disse posando la sua mano sulla mia.
- Di nulla, non ne ho voglia, ok? Vorrei rimanere sola –
- Va bene, ma prima ascolta c’è una cosa importante che devo dirti –
- Cosa? –
- Tuo padre ha chiamato da casa dicendomi che era passato un ragazzo a chiedere di te, un certo Ryan se non sbaglio –
Spalancai gli occhi a quel nome e tornai a fissare mia madre che aveva un piccolo sorriso sul volto mentre scrutava la mia espressione. Non avevo pensato affatto a Ryan e questo mi fece sentire decisamente in colpa:
- Ryan? – sussurrai ancora incredula.
- Si, lo conosci? –
- È un compagno di scuola, beh, più un amico direi –
- Secondo tuo padre era davvero preoccupato per quello che ti era successo –
- Preoccupato? – domandai molto sorpresa.
-  Non faceva altro che chiedere se stessi bene – annuii pensierosa – Dev’essere un bravo ragazzo –
- Si, lo è – sussurrai.
Ryan era veramente eccezionale. Sempre disponibile, allegro, solare e positivo, tutto il contrario della sottoscritta. Si, era decisamente un bravo ragazzo, forse troppo per una come me che non faceva altro che finire nei casini; non li cercavo di proposito ma erano loro a trovare me, come se avessi attorno una strana aurea che li attirava. Per questo all’inizio ero stata reclutante a considerare Ryan come un amico, ma poi tutto venne così facilmente ed in poco tempo mi accorsi che avevo preso la decisione giusta, forse l’unica finora, ma guardandomi adesso dove ero e come c’ero finita mi faceva pensare: non volevo affatto che Ryan finisse immerso nei miei disastri. Sapevo che lui ne aveva già di suoi, anche se non me ne parlava, e trascinarlo nel fondo con me era l’ultima cosa che volevo per lui.
- Cosa c’è tesoro? Ti vedo strana –
- Nulla – scossi la testa – Che altro ti ha detto di Ryan? –
A quelle parole mia madre fece uno strano sorriso come se sapesse qualcosa che a me sfuggiva e questo nello stesso tempo mi rese sospettosa ed un po’ preoccupata:
- È qui, vuoi che lo faccia entrare? –
- Ryan è qui? – domandai sbalordita.
- Si, allora, vuoi vederlo? –
- Si – sussurrai.
- Lo vado a chiamare –
Mia madre si alzò ed uscì dalla porta; il cuore cominciò a martellare sempre più forte per le domande che mi riempivano la testa. Mi sorprendeva che Ryan si preoccupasse per me, ma mi piaceva. Era una bella sensazione sapere che qualcuno tiene a te fino a questo punto, l’unica cosa a rovinare il mio umore era il fatto che non potevo vedere Tate, ma soprattutto che lui non era mai venuto, neanche di nascosto. A riportarmi alla realtà fu la sensazione di essere osservata, alzai la testa ed incrociai le iridi verdi di Ryan, mi sorrise leggermente ed io ricambiai ma potevo notare, man mano che si avvicinava, che c’era qualcosa di strano in lui, come se qualcosa fosse cambiato. Indossava un paio di jeans neri aderenti e strappati al ginocchio, delle Vans nere ed una canotta dello stesso colore con i Ramones stampati sopra che lasciava in vista i muscoli delle braccia; i capelli castani erano raccolti in un codino scomposto, ma la cosa a preoccuparmi di più era l’espressione esausta che aveva sul volto. Quando fu vicino al letto mi scrutò per qualche istante senza dir nulla, poi si sedette sulla sedia in alluminio lasciando andare un lungo sospiro:
- Ehi – dissi con un piccolo sorriso.
- Ehi… - ripeté ricambiando il sorriso solo per metà – Come ti senti? –
- Potrei stare meglio, ma sono viva, quindi… - feci spallucce.
Annuì e lasciò andare un altro sospiro, c’era qualcosa che non andava, ne ero certa e questo cominciava a preoccuparmi perché non avevo mai visto Ryan così provato, esausto e smarrito:
- Cos’hai? – gli domandai guardandolo fisso negli occhi.
- Ero molto preoccupato per te – sorrise tristemente, poi intrecciò la sua mano con la mia e la strinse forte come per accertarsi che fossi veramente lì – Quando a scuola si è saputa la notizia sono subito uscito e venuto qui in ospedale ma non mi hanno fatto passare. Dicevano che eri in coma e che solo i familiari più stretti potevano vederti –
Rimasi allibita dalle sue parole. Non appena aveva saputo cosa era accaduto si era precipitato qui per vedere se stessi bene, anzi, se fossi viva. Il suo gesto mi fece capire quanto lui tenesse a me ed alla nostra amicizia e questo mi rese molto felice dato che in tutta la mia vita non avevo mai avuto un amico o un’amica al quale importasse di me così tanto:
- Sei uscito da scuola per venire fin qua!? – sbattei le palpebre ancora sorpresa.
- Già, mi sono beccato anche una settimana di sospensione -  sorrise e stavolta notai che era più vero e sincero, più… suo.
- Tu sei fuori di testa – ridacchiai un po’.
- Ma ne è valsa la pena – fece spallucce
- Grazie di essere qui, veramente… -
- È quello che fanno gli amici nel momento del bisogno –
Mi fece l’occhiolino sfiorandomi il dorso della mano con il pollice e notando l’ago che vi era conficcato fece una smorfia al dir poco buffa aggrottando la fronte ed arricciando le labbra in modo particolare, poi ad un tratto tornò l’espressione cupa:
- Ti fa male? –
Mentre parlava continuava a fissare la mia mano ancora nella sua, poi alzò lo sguardo e lo puntò nel mio con decisione: non avevo mai notato quanto fossero belli i suoi occhi fino a quel momento; erano di una sfumatura di verde particolare, non quella del bosco, più una sfumatura simile all’acqua cristallina dell’oceano nel suo punto più vicino alla riva dove si incontrava con la sabbia:
- È sopportabile – lui annuì silenziosamente e chinò la testa volgendo lo sguardo a terra
– Odio quei bastardi che ti hanno ridotto così! – disse a denti stretti mentre serrava l’altra mano in un pugno – Come hanno potuto fare una cosa simile?! – la sua tristezza si stava trasformando man mano in rabbia che rischiava di farlo esplodere da un momento all’altro – Dannazione! – si alzò di scatto dalla sedia facendomi sobbalzare. Si passò una mano sul volto mentre faceva vagare lo sguardo su tutta la stanza in cerca di chissà cosa – Dannazione!! – ripeté con più forza nella voce colpendo il muro con vigore. Quel suo gesto mi spaventò un po’. Non avevo mai visto Ryan così furioso e questo nuovo lato di lui mi fece rimanere interdetta; lo guardavo mentre era fermo ed immobile con ancora il pugno sul muro e lo sguardo perso nel vuoto, come se fosse caduto in una specie di trance oppure semplicemente il peso dei suoi pensieri era troppo da sopportare ed aveva spento il cervello. Vederlo così frustrato mi faceva un certo effetto, ma a dirla tutta non lo reggevo proprio, era più forte di me e il non sapere da dove proveniva tutto ciò mi turbava. Capii perfettamente che la paura che aveva attaccato Ryan per queste due lunghe settimane era dovuta ad un fatto comune: entrambi non avevamo nessun appoggio, né dalla famiglia, né dagli amici, eravamo l’uno l’ancora dell’altro. Forse per me era un po’ diverso perché nella mia vita era presente anche Tate, anche se “presente” è un parolone grosso riferendosi a lui:
 - Ryan – sussurrai – Ti prego, non fare così, ora sto bene… – cercai di rassicurarlo anche se io ero la prima ad essere incerta sulle mie condizioni.
Lui si voltò verso di me con gli occhi spalancati con tracce di quella che sembrava paura, dischiuse le labbra ma da esse non uscì alcun suono, poi si schiarì la voce e si avvicinò lentamente a me. Era come se si era momentaneamente estraniato dimenticandosi dov’era e cos’era successo per qualche secondo, poi quando tornò in se annuì leggermente e con uno sguardo da cane bastonato si avvicinò tornando a sedersi sulla sedia a testa bassa:
- Mi dispiace baby, non volevo spaventarti – scosse la testa sempre con lo sguardo altrove.
- Ciò che mi spaventa non sei tu – dissi in un sussurro.
- E cosa? – domandò mentre riprendeva la mia mano nella sua ed aggrottava le sopracciglia.
- È questa situazione surreale, quello che è successo… non so come reagire, non so come prenderla ed ho paura che prima o poi possa crollarmi tutto addosso – dissi socchiudendo gli occhi cercando di non far scappare le lacrime.
Percepivo il suo sguardo addosso e per qualche motivo a me totalmente oscuro sentii il cuore sussultare e perdere un battito. Forse ero dannatamente egoista ma averlo qui, a preoccuparsi per me così tanto era una sensazione impagabile alla quale non avrei mai voluto rinunciare; Ryan mi piaceva ed ora che iniziavo ad esserne più cosciente, forse, non solo come amico. Ma in momenti come questi mi era impossibile non pensare a Tate, cosa dovevo fare? Dopotutto Ryan era qui e lui, la persona che mi aveva salvato la vita, non c’era… era come sparito e non aveva lasciato alcuna traccia di se, solo la petulante richiesta a mio padre di riferirgli le mie condizioni. Allora perché non era venuto personalmente? Per esperienza doveva sapere com’era il carattere di mio padre ma nonostante questo non gli era balenato in mente neanche un secondo di passare a vedere come stavo. Era difficile rimanere lucida in una situazione del genere: da un lato c’era la persistente mancanza di Tate che non mi dava pace, mentre dall’altro c’era Ryan e la sua estrema, e gradita, premura e preoccupazione mei miei confronti che, a modo suo, mi faceva sentire… amata. Riaprii gli occhi sorpresa da quel suo silenzio e mi voltai incrociando le sue iridi verde cristallino; lì dentro, in questi pochi minuti, era decisamente cambiato qualcosa, riuscivo a percepirlo. Lui continuava ad osservarmi senza dir nulla e per di più immobile, l’unico gesto che mi rassicurava che tutto non era frutto della mia immaginazione o di un illusione, era il suo continuo tracciare di spirali nel palmo della mia mano. Abbassai lo sguardo catturando con la vista quel dolce gesto e lo impressi a fuoco nella memoria sperando che non fosse mai fuggito da lì:
- Per questo non devi preoccuparti baby – si aprì in un sorriso rassicurante che faceva a pugni con la serietà dello sguardo – Se crollerai ci sarò io a sorreggerti – mi fece l’occhiolino ed io non potei evitare di sorridere.
- Ti stancherai presto di soccorrermi, vedrai – ridacchiai non riuscendo a nascondere un velo di tristezza.
- Io non credo – era serio, fin troppo, e questo mi fece pensare.
Sentivo che c’era qualcosa di diverso in lui, dal solito Ryan che mi aspettava all’ingresso del cortile della scuola per entrare assieme in classe e superare così quelle ore di tortura l’uno con il supporto dell’altro. La difficoltà era capire la radice di ciò che lo affliggeva così tanto da strappargli il sorriso luminoso che lo caratterizzava, anche se, ad essere sincera, temevo la risposta. E se fosse dipeso da me? Se fossi stata io a ridurlo così? Non me lo sarei mai perdonata, Ryan non si meritava di spegnersi così. C’era qualcosa che non mi stava dicendo e che lo turbava profondamente, così cercai di sistemarmi sul letto in modo tale da poterlo guardare direttamente negli occhi ma nel momento stesso in cui ci provai un forte dolore mi pervase proprio nel punto dove c’era la ferita portandomi ad emettere un lamento abbastanza acuto che portò Ryan ad alzare di scatto la testa.
- Ehi, ehi piano… - mi rimproverò gentilmente ma con il terrore negli occhi – Sei conciata piuttosto male eh? – disse con un sorriso cercando di ravvivare il clima.
- Ma sta zitto Ryan – ridacchiai con ancora una leggera smorfia di dolore mentre finivo di sistemarmi senza successo.
- Ferma, ti aiuto io – si alzò dalla sedia e si avvicinò ancora di più al letto, poi si chinò leggermente – Mettimi un braccio attorno al collo – feci come aveva detto e nel mentre non potevo non accorgermi della delicatezza che si stava impegnando ad usare per cercare di non farmi male. Con un braccio mi reggeva la schiena, mentre l’altro lo posizionò sotto le mie ginocchia sollevandomi dal letto per poi riadagiandomi con cautela in una posizione decisamente più comoda della precedente.
- Grazie –
- Figurati – mi sorrise e si risedette al suo posto.
Non so per quanto altro tempo rimase, ma non era decisamente abbastanza; infatti quando alla mia porta bussò l’infermiera dicendo che l’orario di visita era terminato, il sorriso che aleggiava sui nostri volti si affievolì fino a spegnersi del tutto. Ryan annuì verso la donna, poi tornò a voltarsi e dopo avermi rivolto un piccolo sorriso mi salutò con un bacio sulla fronte che durò alcuni secondi, poi andò via. La stanza tornò silenziosa ed improvvisamente mi sembrò incredibilmente triste e lugubre; per tutto il piano non si sentiva neanche un rumore e da fuori udivo ogni tanto il rumore delle macchine che passavano in strada e che illuminavano con i fari il muro accanto alla finestra. Sicuramente erano passate un paio d’ore ma non mi sorprese affatto che in compagnia di Ryan non mi fossi accorta di nulla; puntai lo sguardo verso il vetro della finestra e mi soffermai ad ammirare il limpido cielo blu che con il passare dei minuti si faceva sempre più scuro; di sicuro era passato da poco il tramonto e pensare che tra poco sarebbe giunta la notte mi fece scorrere un brivido lungo la schiena: era la prima notte che passavo da sveglia in questo ospedale ed il pensiero, oltre ad inquietarmi, mi metteva estremamente a disagio. Dopo circa una mezzora entrò nella stanza un’altra infermiera che trascinava, con poca voglia, un carrellino metallico fastidiosamente cigolante sul quale erano poggiati flaconi di medicine e flebo mentre, nella parte bassa, vi erano alcune decorazioni abbastanza particolari che mi fecero aggrottare la fronte perplessa. La ragazza si avvicinò con aria annoiata per cambiare la boccia della flebo e quando finì di sistemare il resto notò l’insistenza con la quale mi ero fissata a guardare i festoni:
- Sono per Halloween – disse facendo schioccare la gomma che aveva in bocca.
- Come scusa? – domandai sbattendo le palpebre come se mi fossi appena svegliata da una trance.
- Le decorazioni che stai fissando – le indicò con un cenno della testa – Sono per Halloween, sai hanno organizzato una piccola festa per i bambini in pediatria –
- Oh… - risposi inarcando le sopracciglia sorpresa – È già Halloween? –
- Si, non lo sapevi? – scossi la testa.
- Ho perso la cognizione del tempo –
- Purtroppo capita spesso negli ospedali, ora perdonami ma ho da fare –
Mi sorrise senza la minima gioia o intenzione ed io ricambiai con lo stesso entusiasmo, poi uscì chiudendosi la porta alle spalle. Era già Halloween… odiavo il modo in cui non riuscivo ad inserirmi nuovamente nel mondo dopo quelle maledette due settimane di coma; era come se tutto improvvisamente si fosse fatto troppo piccolo per coinvolgere anche me, ed ora mi ritrovavo a spingere per avere lo spazio che mi spettava senza il ben che minimo successo. Sospirai e continuai a guardarmi attorno, ed ora? Come pretendevano che avessi potuto trascorrere il tempo qui dentro? Di certo non fissando il soffitto. Mi voltai lentamente, cercando di stare attenta ai punti, e con la mano raggiunsi i cassetti del comodino traballante che avevo accanto al letto, aprii il primo cassetto e fui sorpresa dal trovare al suo interno qualche rivista ed un libro, ma non un libro qualsiasi, bensì il mio preferito. Sorrisi e lo tirai fuori con cura dal cassetto, sapevo che c’era lo zampino di mia madre e questo mi fece sorridere aumentando di qualche punto la fiducia nei suoi confronti, lo osservai per qualche secondo lisciando la copertina con le dita, poi mi rituffai, per l’ennesima volta, nella sua lettura. Probabilmente mi addormentai perché quando riaprii gli occhi la stanza era completamente buia a parte per il lieve fascio di luce che proveniva dal lampione sulla strada, mi guardai attorno leggermente frastornata per la lunga dormita e mentre mi passavo una mano sul volto per togliere gli ultimi residui di sonno, cercai di sistemarmi meglio facendo attenzione alla ferita. Quando mi guardai attorno nel buio percepii un forte disagio: era come tornare all’oscurità dalla quale mi ero svegliata, mi sentivo circondata dalle tenebre, come se fossi precipitata nel loro fondo più oscuro. Dagli angoli della stanza si ergevano lunghe ombre simili a figure che cercavano di protendersi verso di me nell’intento di afferrarmi e portarmi via con loro. Erano i miei demoni che erano usciti fuori dalla mia testa e avevano preso vita; ingenuamente avevo creduto che stando lontano dalla mia famiglia per un po’ avrebbe attenuato tutto, ma invece mi avevano inseguita fin qui per tormentarmi prendendomi ora che ero sola ed immobilizzata ed incapace di fuggire da loro. Iniziai a tremare, non sapevo se per la paura o perché sembrava che la temperatura della stanza si era improvvisamente abbassata, incurante delle fitte lancinanti all’addome; facevo saettare lo sguardo ovunque mentre iniziai a stringere i pugni e serrare gli occhi nella speranza di chiudere fuori qualsiasi cosa ci fosse lì dentro che mi provocasse questa sensazione. Un fruscio. Un leggero e quadi inudibile fruscio mi arrivò alle orecchie, tanto flebile che se non fosse per il silenzio assoluto nella stanza non lo avrei mai sentito. All’inizio lo attribuii all’ennesima pazzia della mia mente contorta, ma quando lo sentii nuovamente, e più forte, mi decisi che, almeno stavolta, non ero fuori di testa. Affilai lo sguardo e cercai qualcosa nel buio, qualcosa che avesse potuto creare quel rumore ma una volta che mi convinsi del fatto che sembrava non esserci nulla mi ricredetti vedendo che in un angolo della stanza c’era una figura scura ed immobile. Il cuore mi batteva talmente forte che sembrava volermi uscire dal petto, il panico iniziò a prendere possesso del mio corpo tanto che avrei voluto alzarmi e fuggire via ma mi era impossibile; improvvisamente la figura si mosse a piccoli passi verso il mio letto, come se avesse lui, o lei, timore di me. Avrei voluto parlare, urlare, fare qualcosa ma dentro di me c’era una parte che continuava a ripetermi di non far niente e rimanere calma, così, forse stupidamente, decisi di dar retta a quella voce; il tempo sembrò congelarsi e la sola cosa che mi confermava che continuava a scorrere era l’avanzare incerto di quella figura, socchiusi per un breve attimo gli occhi e quando li riaprii non c’era più niente. Mi sporsi in avanti e mi guardai attorno e… niente, chiunque fosse ora era sparito come se non c’era mai stato, come se fosse stato frutto di un incubo e rigettandomi nel dubbio che stavo tornado alla pazzia di un tempo. Questa improvvisa supposizione mi scosse come un’ondata di elettricità facendomi venire le lacrime agli occhi: non volevo tornare quella di un tempo, non volevo rivivere quegli orrori e sentirmi ancora in quel modo. No, avevo chiuso con il passato e soprattutto con quella parte; ora avevo cominciato una nuova vita, in una nuova città, con perfino un amico e non avrei permesso alla me stessa autodistruttiva di rovinare tutto di nuovo. Improvvisamente sentii la porta aprirsi e chiudersi di scatto facendomi sobbalzare e voltare verso di essa con nuovamente il terrore addosso, stavolta ciò che sentii fu solo il rumore di qualcuno che respirava pesantemente come chi aveva appena corso per un bel po’. Il silenzio ora aveva nuovamente invaso la stanza e dopo qualche secondo chi era entrato si staccò dalla porta e finì sotto il fascio di luce che proveniva dalla finestra e quando lo vidi il respiro mi si mozzò:
- Tate… - sussurrai con gli occhi sgranati.
Lui si avvicinò ancora di più e notai che fra i due, lui era di certo quello messo peggio: aveva i capelli disordinati come se ci avesse in continuazione passato le mani con l’intenzione di strapparseli, gli occhi erano gonfi segno che aveva pianto, la curva delle labbra piegata all’ingiù in un’espressione di estrema tristezza e l’intero volto straziato e sconvolto da qualcosa di completamente fuori dalla mia comprensione. Si avvicinò in piccoli e timorosi passi come se avesse paura; vederlo mi faceva uno strano effetto, non sapevo se essere felice o arrabbiata e questo mi rendeva fortemente insicura:
- Axel… - sussurrò lui con un singhiozzo che gli spezzò la voce.
Successe tutto in piccolo frangente lasciandomi spiazzata: Tate azzerò la distanza tra noi e mi strinse a se, il suo abbraccio era così rassicurante che mi rilassai all’istante, mi stringeva come se avesse paura che mi sarei dissolta da un momento all’altro. Sentire la sua presenza, il suo calore dopo che lo svevo desiderato così ardentemente era un sollievo, ma nonostante vederlo qui mi provocava una felicità inspiegabile non potevo non ignorare quel sentimento di rabbia e frustrazione nel pensare che mi aveva in qualche modo abbandonata per due intere settimane dopo che avevo rischiato di morire. Continuava a stringermi ed al tempo stesso ondeggiava lentamente avanti e indietro mentre seppelliva il volto nell’incavo del mio collo e si lasciava trasportare dal suo pianto sommesso; sentivo le lacrime bagnarmi la pelle e scendere lungo il petto ma ero completamente immobile, non avevo neanche ricambiato il suo abbraccio persa come ero nella folta coltre che mi annebbiava la mente riempendola di mille pensieri che potessero in qualche modo giustificare la sua assenza, ma, purtroppo, nessuna sembrava adeguata… semplicemente mi aveva lasciato da parte. E faceva male. Molto. Improvvisamente percepii quell’abbraccio come qualcosa di sbagliato facendomi sentire a pelle un forte senso di disagio che mi portò a staccarmi lentamente da Tate che invece da parte sua non appena avvertì i miei movimenti mi strinse ancora di più incapace di lasciarmi andare, la sua presa era così forte ora che mi fece emettere un leggero rantolo di dolore che lui non udì e per impedirgli di continuarmi a far male stavolta lo spinsi via con più forza. I suoi occhi trovarono i miei, era confuso, impaurito, disorientato e tremava; dischiuse le labbra rosee per dire qualcosa ma invece tacque, d’altro canto invece alzò lentamente un braccio e con le dita protese verso di me nel tentativo di sfiorarmi una guancia ma che io evitai girandomi dall’altra parte e sfuggendo non solo al suo tocco ma anche al suo sguardo. Sentii il fruscio che emise il suo braccio quando tornò a posarsi sul letto e le molle scricchiolare sotto il suo peso che si spostava; mi faceva male evitare un contatto con lui ma ero profondamente delusa a tal punto che anche la sua presenza mi metteva in leggero disagio. Avevo gli occhi chiusi e li stringevo con forza per cercare di evitare alle lacrime di scendere, sentivo il suo sguardo addosso immobile e colmo di paura, potevo percepirla anche a distanza per la sua intensità; Tate si avvicinò nuovamente afferrandomi con delicatezza la mano sinistra ma non appena sentii la sua pelle a contatto con la mia mi ritrassi con un sobbalzo portandomi la mano al petto. Un singhiozzo riempì il silenzio che da troppo tempo infestava questa maledetta stanza facendomi perdere un battito:
- A.. Axel… - mi chiamò con un sussurro e con la voce rotta dal pianto, ma io né risposi né mi voltai forse troppo orgogliosa o troppo stupida per farlo, ma lui non si arrese – Axel, ti prego, non fare così – emise un singhiozzo così forte che temetti si potesse soffocare con le sue stesse lacrime e fu quello a farmi voltare.
Il suo sguardo tornò a piazzarsi nel mio con la stessa intensità e dolcezza di ogni maledetta volta; mi sentivo scrutata, ammirata, spiata e talvolta giudicata da quelle scure pozze color cioccolato. Gli tremavano le labbra, segno che, nonostante cercasse di impedirlo, di lì a poco sarebbe scoppiato in un pianto sommesso. Addolcii lo sguardo che prima sentivo gelido come se tutto il freddo del mondo si fosse concentrato lì e sospirai abbassando lo sguardo e le spalle arrendendomi a me stessa:
- Io… i.. io… -
Cercò nuovamente di parlare ma era così fuori di se che non riusciva a mettere una parola dietro l’altra così decise di agire avvicinandosi nuovamente ma stavolta con leggero timore finché non poggiò la fronte contro la mia ed anche se stavolta non mi staccai distolsi ancora lo sguardo:
- Che ti è successo? – domandò con un sussurro sforzandosi al massimo per non scoppiare di nuovo a piangere.
Non risposi. Lasciai che il silenzio ed il respiro di Tate mi cullassero. Volevo estraniarmi da questa situazione ma dovevo affrontarla, dovevo capire e soprattutto sapere anche se avevo paura; mi staccai di pochi centimetri e puntai il mio sguardo nel suo, poi presi coraggio e parlai:
- Mi hai abbandonata – la confusione si impossessò completamente di lui – Sei sparito… come hai potuto! Mi sono svegliata dopo due settimane di coma e mi sarei aspettata di vederti ma tu non c’eri! – presi fiato e continuai – E come se non bastasse cosa vengo a sapere? Che in tutto quel tempo che sono stata incosciente non sei passato a vedere come stavo neanche una volta! – mentre parlavo fissavo il lenzuolo bianco che mi copriva fino alla vita e nel frattempo mi passai una mano nei capelli in un gesto di pura frustrazione – Non hai pensato neanche un secondo che sarei potuta morire… -
- Oh, Axel… no, ti prego perdonami… - singhiozzò mentre faceva passare la mano sulla mia nuca spingendomi a poggiare nuovamente la fronte contro la sua.
- No! – lo spinsi via di nuovo – Dimmi perché non sei mai venuto a trovarmi quando avevo più bisogno di te! –
- È complicato… - sussurrò come un lamento quelle parole, un lamento di pura agonia.
- Perché con te lo deve sempre essere?! Perché non puoi semplicemente rispondermi? –
- Mi dispiace, mi dispiace… - singhiozzò – Ti prego, perdonami! –
Mi accorsi di essere scoppiata in lacrime anche io nel momento in cui sentii le delicate e caute dita di Tate sfiorarmi le guance per asciugarle. Era sempre tutto così complicato con lui, sempre misterioso ed ambiguo e questo mi faceva soffrire perché percepivo tutto come una grossa farsa che prima o poi mi sarebbe crollata addosso ed io non volevo soffrire, non più. Non per colpa sua. Tate era sconvolto, si era messo le mani nei capelli e si dondolava avanti e indietro mormorando cose senza senso; vederlo così mi spaventava e al tempo stesso ne soffrivo… era un ragazzo fragile, fin troppo per un mondo come questo. Un ragazzo con un animo troppo profondo e poetico che percepiva ogni emozione amplificata che fosse di gioia o dolore. Cercai di calmarmi e misi da parte la rabbia e la tristezza per cercare di capire, così stavolta fui io a cercarlo poggiandogli una mano sul ginocchio:
- Tate – niente – Tate, ascoltami – sussurrai con delicatezza cercando di riportarlo indietro dall’abisso nel quale era precipitato.
Alzò la testa smettendo di dondolarsi e poggiò una mano sulla mia stringendola con cautela per via dell’ago che vi ci era infilato, mi guardò con ancora sul volto quell’espressione smarrita e ferita; riabbassò lo sguardo e lo puntò sulle nostre mani e nel frattempo, con la mano libera, cominciò a sfiorare con estrema delicatezza intorno a dove si conficcava la flebo:
- Mi dispiace – sembrava essersi calmato ed essere tornato, almeno un po’, in se – So che sarei dovuto venire prima, so che dovevo starti vicino – ricominciò a tremare leggermente mentre dei singhiozzi minacciavano di uscire dalle sue labbra – Ma non potevo, me lo hanno impedito… è tutto così complicato… -
Lasciò la mia mano e se le mise nuovamente nei capelli rischiando di perdersi nuovamente negli angoli bui della sua mente, così decisi che avrei lasciato perdere e, si, era ingenuo da parte mia ma ora avevo bisogno di lui:
- Ok, ok… – sussurrai poggiandogli una mano sul viso – Va bene, ti credo, ora basta piangere c’è stato abbastanza dramma –
Lui annuì lentamente e dopo essersi asciugato gli occhi mi prese nuovamente tra le sue braccia e mi poggiò delicatamente contro il suo petto e stavolta invece di oppormi ed allontanarmi affondai una mano nei suoi mossi capelli biondi sentendo da parte sua un mormorio di assenso. Quando ci staccammo Tate avvicinò il suo volto angelico al mio e mi posò un piccolo bacio sul naso che mi fece sorridere leggermente; mi sorrise mostrando le sue adorabili fossette ed io arrossii distogliendo lo sguardo e mordendomi il labbro inferiore. Il letto si mosse ancora facendomi roteare lo sguardo su Tate che nel mentre si era avvicinato così tanto che i nostri volti erano separati solo per pochi centimetri. Il suo sguardo mi arrivava dritto nell’anima, lo sentivo scavare ed indagare ma più lo faceva, più si intristiva rendendosi conto delle condizioni in cui ero:
- Mi hai salvato la vita… - sussurrai – Te ne sarò grata per sempre – gli passai una mano tra i capelli tirandoli leggermente indietro mentre lui si lasciava andare al mio tocco beandosi del contatto di quel momento.
- Non ringraziarmi – scosse la testa con decisione – Ucciderei per te – la serietà che era spuntata nel suo sguardo quando pronunciò quelle parole mi provocò uno strano brivido che non seppi pienamente identificare rimanendo incerta tra il sollievo e la paura.
- Mio padre vuole che parli con la polizia riguardo l’aggressione nella speranza di poter dare dei dettagli fondamentali per la cattura di quei criminali – sospirai, poi ripresi – Come se io in quel momento avessi potuto far attenzione ad altro che non fosse quell’uomo che cercava di uccidermi – scossi la testa rassegnata e con gli occhi lucidi.
- Ehi, no… Sei al sicuro, sei viva e presto tornerai a casa – sorrise posandomi dei leggeri baci sulla fronte – Dimentica questa storia –
- Non ci riesco… - quelle parole mi uscirono con un sospiro tremante, quasi come volessero spezzarsi – Ogni volta che provo a chiudere gli occhi ho paura di vedere ancora quelle scene… -
- Non ti daranno più fastidio, te lo prometto – mi prese il viso tra le mani reggendolo con estrema delicatezza.
- Tu li devi aver visti, magari puoi aiutare tu la polizia… - mi interruppe a metà frase.
- Mi dispiace Axel, io li ho solo colpiti alle spalle e poi sono corso da te – scosse la testa – Quando ti hanno portata via sono tornato a controllare ma erano già scomparsi –
- Ho paura Tate, ho paura che un giorno possano tornare – mi poggiai con le spalle contro i cuscini e guardai il soffitto con l’ansia che man mano mi cresceva dentro fino a diventare un peso insopportabile da portare e sopportare.
- Ti proteggerò io, te l’ho promesso, ricordi? – disse con dolcezza.
- Si… - sussurrai – Lo ricordo molto bene – annuii con un nodo alla gola che diventava sempre più stretto – Se non fosse stato per te sarei morta, ti devo tutto –
- Sono io quello grato che tu sia salva – disse con profonda serietà analizzando con cautela i punti dove comparivano i segni delle ferite infieritemi dai quei maniaci.
Il suo sguardo vagò per qualche istante sul mio corpo, poi si fermò sull’addome: non indossando più il camice dell’ospedale ma un semplice top e dei pantaloncini, si notava perfettamente la spessa fasciatura che lo avvolgeva per tenere i punti al riparo ed evitare che qualcuno si aprisse nuovamente. Tate sembrava fissare quel punto come se vi ci fosse qualcosa di estremamente strano sopra, invece il suo sguardo la diceva diversamente: era spento, triste come se si attribuisse la colpa di quella ferita. Si avvicinò lentamente fino a posare su di essa le labbra lasciandoci sopra dei delicati baci come a volerla curare solo attraverso il suo tocco. Sorrisi leggermente e gli passai una mano tra i capelli. Questo ragazzo mi spingeva a combattere contro me stessa: da una parte c’era la mia costante incertezza nei suoi confronti visto che non conoscevo nulla di lui, ma dall’altra non potevo negare i miei sentimenti. Tutt’altra storia invece era con Ryan. Alzò la testa ed incrociò il mio sguardo, sorrise e mi lasciò un piccolo bacio sul naso:
- C’era qualcuno qui, prima che tu arrivassi – sussurrai.
- Chi? – domandò lui aggrottando la fronte perplesso.
- Non lo so – scossi la testa – Ma era qui, ed ho visto i suoi occhi che mi guardavano – mi interruppi per qualche secondo, poi continuai – Erano luminosi e fissi su di me… c’era il male là dentro… - sussurrai.
- Forse stavi sognando – aggrottò la fronte mentre mi posava dei baci sul volto.
- No Tate – scossi la testa – Ero sveglia, proprio come lo sono ora –
- Beh… - mi prese il volto tra le mani – Qualunque cosa sia, ora ci sono io qui e non devi temere nulla, ok? – annuii semplicemente e cercai di non pensarci più e godermi questo momento con lui.
- Va bene… - sussurrai.
- Ti andrebbe di alzarti? –
- Non posso Tate – dissi mostrandogli i vari tubi ai quali ero collegata.
- Quando ti faranno uscire da questo posto infernale? – domandò con un sorriso amareggiato.
- Dicono tra una settimana – feci spallucce – Non ce la faccio più a stare qui dentro – sospirai – Odio gli ospedali – distolsi lo sguardo dal suo.
- Ehi… - mi prese ancora il volto tra le mani costringendomi a guardare i suoi occhi scuri – Pensa che presto sarai nuovamente a casa e potrò venirti a trovare con più libertà – sorrisi ed annuii poco convinta. Non sarebbe passato. Questa sarebbe stata l’unica visita.
Mi stampò un bacio sulla fronte poi, con delicatezza, mi aiutò a spostarmi finché non si posizionò dietro di me facendomi poggiare contro il suo petto. Iniziò, senza dir nulla, a passare delicatamente le punte delle dita sulle mie braccia provocandomi una leggera pelle d’oca; sorrise a quella reazione e poggiando le labbra sulla mia guancia iniziò a stamparci sopra dei piccoli baci che mi fecero sorridere:
- Mi sei mancata da morire – sussurrò tra un bacio e l’altro – L’angoscia mi stava divorando –
- Tate, basta – dissi staccandomi da lui – Non voglio parlarne, ok? – annuì leggermente.
- Mi dispiace… perdonami –
Mi riprese tra le braccia facendomi di nuovo poggiare contro il suo petto, mi abbandonai a quella sensazione e mentre Tate continuava a lasciarmi dei baci sulla testa mi addormentai. Al mattino seguente fu come quella sera nella mia stanza: non c’era nulla che testimoniasse la presenza di Tate la scorsa notte. Sospirai e lasciai perdere. Odiavo quando al mattino mi lasciava così in sospeso, ma non potevo farci nulla. Tate era così. Misterioso e sfuggente, ma ogni momento passato con lui era speciale. All’improvviso la porta si spalancò facendomi sobbalzare e da essa entrò Ryan con un sorriso sulle labbra ed una scatola di dolci in mano:
- Finalmente ti sei svegliata! – esclamò scoppiando a ridere.
- Che ore sono? – domandai confusa.
- Quasi ora di pranzo –
- Ryan – lo chiamai con un certo rimprovero.
- Che c’è? – alzò un sopracciglio fingendosi innocente
- Non dovresti essere a scuola!? – domandai esasperata mentre continuavo a guardarlo con attenzione seguendo ogni suo movimento finché non si sedette accanto a me.
- Si, ma sono uscito prima per venirti a trovare – fece spallucce e sorridendo talmente ampiamente da farsi uscire le fossette – Eri qui sola soletta e allora ho pensato di venir qua –
- Oh bene, adesso mi usi anche come scusa per saltare le lezioni – ridacchiai fingendomi offesa – Ma bravo! –
- Certo che no! – sorrise – Beh forse un po’ si – sussurrò ed io gli diedi scherzosamente un buffetto sul braccio che lo fece ridere ancora di più.
- Comunque mi fa piacere che sei passato – sorrisi – Qui dentro il tempo sembra non passare mai –
- Immagino – annuì – Per questo mi sono preparato una cosa da raccontarti – esclamò.
- Cosa? – domandai perplessa.
- Una storia che ci hanno raccontato ieri per Halloween – sorrise alzando le sopracciglia entusiasta.
- Va bene – sospirai mentre scuotevo la testa con un leggero sorriso sulle labbra – Forza, racconta –
- Nel 1994 nella nostra scuola ci fu una strage, un ragazzo venne a scuola armato di un lungo fucile ed iniziò a sparare da tutte le parti uccidendo all’incirca 15 studenti se non di più – inarcai le sopracciglia – L’ultimo posto dove andò fu la biblioteca. Lì dentro si erano chiusi un professore ed altri sei alunni; chi era nascosto sotto i banchi, chi dietro le librerie ma lui li trovò comunque, i ragazzi lo implorarono di lasciarli vivere, lo supplicarono in lacrime ma tutto ciò che ottennero prima che lui li uccise fu uno sguardo indifferente ed un sorriso malefico – fece una piccola pausa poi riprese – Se ne andò con tranquillità, come se non fosse successo nulla; tornò a casa e si chiuse nella sua stanza. Più tardi quel giorno entrarono nella villetta degli agenti delle forze speciali per arrestarlo, lui fece per afferrare il fucile ma prima che potesse farlo gli spararono contro una raffica di proiettili e morì nel giro di qualche secondo – terminò con un leggero sorriso amaro.
- Che storia… - sussurrai sconvolta – Ma perché raccontarmela? –
- Perché quello che non ti ho detto è che l’unico sopravvissuto della strage in biblioteca fu il professore, rimase paralizzato a vita ed ora è confinato su una sedia a rotelle ma è vivo ed è ancora a scuola –
- Oh mio Dio… - sussurrai – Ho capito di chi si tratta –
- Me l’ha raccontata un ragazzo del quinto che ho conosciuto in questi giorni –
- Hai fatto amicizia allora?! –
- Più o meno – fece spallucce – Diciamo che avevo trovato un sostituto temporaneo finché tu non ti saresti rimessa – ridacchiò.
Sorrisi leggermente, ma in testa avevo ancora la storia che mi aveva raccontato. Era qualcosa di agghiacciante. Come può una persona, anzi, un ragazzo, compiere un gesto del genere? Dentro di me sentivo una strana sensazione che mano a mano cresceva sempre più forte fino a che non si posizionò in gola come a voler uscire a forza. Qualcosa mi spingeva a parlare, a porre una strana domanda che per la mia parte più inconscia era di vitale importanza ma ne ignoravo completamente il motivo. Alla fine quando aprii bocca nemmeno me ne accorsi, fu come se qualcosa al di fuori di me comandava le mie azioni:
- Qual era il nome del ragazzo? – chiesi con un filo di voce
Ryan mi guardò per svariati istanti, poi in un sussurro che venne inghiottito dal silenzio della stanza rispose:
- Tate Langdon –

ANGOLO AUTRICE

Chiedo umilmente perdono per il clamoroso ritardo, ma purtroppo ero a corto d'idee. Spero che questo capitolo vi piaccia e di nuovo chiedo scusa per la lunga assenza. Detto questo, prometto che non farò più passare un'eternità prima di pubblicare ancora; inoltre ringrazio chiunque leggerà il capitolo e lascerà anche una piccola recensione per dire cosa ne pensa.
Un bacio a tutti

GiuliaStark
 
  
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