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Autore: Gaia Bessie    09/10/2015    1 recensioni
Quella notte non c’era luna, ricordo, perché una gigantesca coltre di nubi aveva illanguidito la volta celeste, tingendola di una strana tonalità di azzurro polveroso: crollavano petali di ciliegio, nella campagna dei miei genitori, dalla quale non fuggii mai più, dopo essermi rinchiusa in quel recinto di fogliame. Crollavano e finivano in pozzanghere o, talvolta, sul terreno.
Mi sembrava, guardandoli, che potessero diventare gocce d’acido e scavare buchi nel terreno o, quando mi sfioravano la pelle nuda delle spalle, il cuore.
Quando Gabriele mi sorrise, e le sue dita di fantasma mi denudarono le costole, mi resi conto che i fantasmi erano così, fiorivano ad aprile. E ti scavavano il cuore come gocce d’acido.
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Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sarò breve: questa storia me la sentivo dentro da quando ho letto "Love and other impossible pursuits" che mi ha tipo scavato una voragine dentro, ma solamente adesso riesco a scrivere. E, se mi ci sono messa, lo devo solamente a chi ha organizzato questa meravigliosa iniziativa della "Corsa delle 48 ore": non fosse stato per questo, probabilmente mi sarei persa per strada, per mera pigrizia, dimenticandomi di quanto possa essere importante, per me, la scrittura.
Dunque, eccomi qui, le prime dieci di spero molte flashfic: Chincaglierie, se non si fosse capito, è una parola che adoro, e che ha un significato abbastanza sottile, in questa storia. Chincagliere sono il vestito e i ricordi di Silvia, i rimpianti, il superfluo.
E sono tutti i problemi che mi sono fatta io prima di tornare a scrivere per il mero piacere di farlo.
Buona lettura, in ogni caso, e grazie a chi si fermerà a leggermi ancora una volta. Citazioni a fine capitolo.
Bess.

 
 
Chincaglierie
 
I.
 
Un giorno, pensai che si potessero rinominare i mesi seguendo l’incedere delle stagioni e quel retrogusto fruttato che lasciavano in bocca: fosse stato così, allora, aprile sarebbe stato il mese dei petali del ciliegio, o dei lillà annegati nella malerba.
Un fiore, però, è insoddisfazione del palato, quando il profumo non preannuncia l’arrivo del frutto.
Esattamente l’essenza stessa di aprile, dunque, che dei mesi è quello più crudele, quando uccide boccioli con calma glaciale.
Gabriele se n’è andato così.
Non pioveva per la prima volta dopo giorni, sopra la mia testa, e non avevo ancora fatto caso a quella gigantesca macchia di sangue accanto alla vernice scrostata. Me ne sarei accorta dopo che, in realtà, quella macchia non c’era sempre stata ma era comparsa da un giorno all’altro, a sorpresa, e io me n’ero accorta solo nel momento in cui era diventata grande come la testolina di un neonato.
Gabriele se ne andò così.
Quella notte non c’era luna, ricordo, perché una gigantesca coltre di nubi aveva illanguidito la volta celeste, tingendola di una strana tonalità di azzurro polveroso: crollavano petali di ciliegio, nella campagna dei miei genitori, dalla quale non fuggii mai più, dopo essermi rinchiusa in quel recinto di fogliame. Crollavano e finivano in pozzanghere o, talvolta, sul terreno.
Mi sembrava, guardandoli, che potessero diventare gocce d’acido e scavare buchi nel terreno o, quando mi sfioravano la pelle nuda delle spalle, il cuore.
Quando Gabriele mi sorrise, e le sue dita di fantasma mi denudarono le costole, mi resi conto che i fantasmi erano così, fiorivano ad aprile. E ti scavavano il cuore come gocce d’acido.
 
(268 parole)
 

II.
 
La festa d’addio l’avevo voluta io, ed era stata pubblica: quando qualcosa ti fa così male, speri che, mettendola a nudo, le persone riescano a trovarti una soluzione per soffrire di meno.
Non funziona. Mi ero persa in una camminata senza fine, in quella campagna dalla quale non sono più voluta uscire, vicino a un pozzo in disuso.
Mia madre e mio padre, alle mie spalle, sorridevano di comprensione dolce come zucchero bruciato in un mese crudele, aprile, e borbottavano preghiere.
Io, in Dio, già non ci credevo più. Mi era capitato di pregare, qualche volta, e di supplicarlo e implorarlo per una risposta, in ginocchio come una cagna gravida sulle panchine della chiesa di paese. Ma Lui, dall’Alto dei cieli, non mi aveva mai ascoltata.
Dunque, avevo smesso di tentare.
L’addio a Gabriele, in ogni caso, cadde un mese dopo la sua fuga verso un altro regno, in cui io mai avrei potuto ambire ad entrare: sparì verso un’altra vita, e mi supplicò, in silenzio, di attenderlo.
L’avrei fatto, se soltanto avessi avuto la forza e la voglia di credere in altre vite.
Mamma organizzò una piccola festa, il giorno in cui dissi che volevo prenderlo, il dolore, abbracciarlo e lasciarlo scivolare via: gli addii, a casa mia, si festeggiano sempre.
Festeggiavamo ogni anno mio cugino Lorenzo, che studiava in Francia, e ogni anno cadeva di luglio la stessa festa per dirgli addio. Quando salutai Gabriele, mia madre preparò una crostata con una conserva di uvaspina e me ne lasciò mangiare due fette, mio padre si mise in ghingheri e obbligò tutta la famiglia a presenziare.
Nessuno pianse, nemmeno io. Quando fui certa che nessuno mi vedesse, piegai una busta rosa chiaro e la gettai in quel pozzo, come un obolo a quella divinità in cui non credevo.
Mio padre sorrise, dietro i baffi macchiati di grigio.
 
(308 parole)
 

III.
 
Casa mia, poi, è un po’ un casino: una volta, qualcuno mi disse che puoi capire la personalità di una donna guardando nella sua borsetta. Probabilmente, per quanto riguarda me, puoi capire tutto dalla confusione che ho chiuso in soffitta, poiché sono la classica persona che vive di collezionismo esagerato e non butta niente, salvo poi rinchiudere tutto in una stanza.
Questo perché credo fermamente che il disordine, se non lo si ha sotto gli occhi, lo si può categorizzare come inesistente.
Tengo le cose ammassate negli angoli o rinchiusi in bauli, bauletti e bottiglie, cercando di dare un ordine razionale al caos in cui vivo.
Una volta, venne a trovarmi mia madre, l’unica che mi andasse di vedere nel mio periodo di isolamento volontario, e disse di trovarmi bene, almeno mentalmente, sebbene vivessi in un porcile.
Sistemò e lavò per tutta la sera, poi si decise ad andar via.
Non ebbi la forza di dirle che, nella cantina della mia mente, c’erano altrettanti bauli e bottiglie colmi di paura, rabbia e disperazione.
Guardandomi, non lo si direbbe mai.
Sguazzando nel ciarpame della mia vita, sorrido di fronte ai ciliegi in fiore. Ma poi il mio sguardo cade su quel pozzo in disuso e ripenso a quando ho lasciato cadere un foglietto ripiegato con su scritto il suo nome.
 
(219 parole)
 

IV.
 
Venne Leonardo, poi, quando si aprirono le porte della magione, nell’aprile dell’anno successivo al mio addio a Gabriele: s’insediò nel mio fortino per scoprirmi smagrita e sciupata, nevrotica, rinchiusa in soffitta. Scivolò al mio fianco, non disse nulla.
A cosa sarebbe servito?
Non puoi scegliere chi amare, non puoi farlo: nella vita, l’unica facoltà che fingi di avere è quella di scegliere se rimanere ferito.
Così arrivò dunque, un gigante bruno e gentile, capelli ricci di un castano cinereo, e si sedette al mio fianco, sebbene io non parlassi o muovessi qualcosa più di quel respiro che inevitabilmente mi si gonfiava in petto.
Della ragazza che aveva lasciato, in una campagna sfiorita, due anni prima, chissà cosa rimaneva, mi chiesi nel vederlo a disagio di fronte a quel cambiamento che mi descrivevano tutti, ma io non notavo: potevo fossilizzarmi davanti a uno specchio cercando di capire quand’è che ero diventata secca e affilata come una rosa d’acciaio, senza trovare risposta, e convincendomi che, in fondo, ero sempre stata così.
Mi domandò solamente una cosa.
«Silvia… perché?».
Avevo una strana ninna nanna in testa, non gli risposi nemmeno, non ricambiai la sua stretta di mano. Non avevo una risposta da dargli, in ogni caso.
 
(203 parole)
 

V.
 
Leonardo morì con me per tre giorni, tre giorni in cui piansi ogni notte e ogni notte fui consolata, ma poi resuscitò e decise di lasciarmi sola, in una casa disordinata, in una soffitta fatta di vernice scrostata (e una macchia di sangue sul muro, che mai riuscivo a smettere di fissare), senza chiedermi o supplicarmi di seguirlo.
«Non puoi rimanere qui per sempre» disse, e suonò severo come un vecchio padre.
«Lo so».
Ma questo non cambiava le mie decisioni, ammisi a me stessa, e non me ne sarei mai andata da quella porzione di solitudine che la vita mi aveva riservato.
«Potresti…» lo sentì mormorare, il viso già voltato verso la porta e la mano sulla maniglia.
Potresti. No, non potevo.
«Silvia, per favore» sussurrò. «Per favore. Io ti amo ancora».
Non l’avevo mai visto piangere prima di quel momento, non l’avrei visto mai più. Se ne andò, prima che potessi ucciderlo di risposte.
E adesso, Leo, mi chiedo cosa tu ne abbia fatto, di quell’amore. E adesso che l’hai sprecato, cosa sono diventata io? Cosa è rimasto?
Leonardo non è più tornato.
Non mi stupisco: la gente muore, o scappa, ogni giorno, senza che nessuno se ne accorga.
 
(201 parole)

 
VI.
 
Qualche volta provo a ricordarmi quand’è che è nata la macchia di sangue in soffitta: non ricordo se sono stata io, una volta, a sbattere lì e a tagliarmi con un chiodo sporgente, o chissà quale altro incidente domestico. Magari è stato uno di quegli incidenti privi di senso, come il tagliarsi con una forbice a punta arrotondata o con il pelapatate azzurro elettrico.
Che poi, mi sono sempre chiesta che ragion d’essere avesse, quel famoso pelapatate azzurro elettrico: era stato un regalo di mio padre, un mese e mezzo dopo la festa d’addio a Gabriele.
Mi aveva detto trovaci un senso, bambina e io ci avevo perso il sonno, cercando una spiegazione razionale che non ho mai trovato.
Ho pensato al significato del colore, che non era azzurro cielo o l’azzurro degli occhi di mia madre, non era assolutamente nulla che avesse un riscontro. Ho pensato a un legame fra me e quell’oggetto che credo di non aver mai usato in tutta la mia vita. Niente.
Fu Leonardo a darmi la chiave di lettura, durante quei tre giorni di stasi: un pelapatate azzurro elettrico. Qualcosa di poco ordinario, inutile se non sai che fartene e totalmente fuori posto in quell’ambiente fatto di legno e fiori. Un po’ come me.
«Non penso che un pelapatate sia una metafora così elaboratamente biografica» osservai, scettica.
Leonardo sorrise e mi baciò la mano con una dolcezza quasi dolorosa.
«Non avrei mai pensato di veder tuo padre ricorrere a questi indovinelli per accenderti un po’».
Mi guardò, dritto negli occhi.
«Non avrei mai pensato di non vederti così spenta».
 
(265 parole)

 
VII.
 
Io e Leonardo ci siamo conosciuti quando eravamo veramente giovani: vent’anni lui e diciannove io, nell’età in cui l’amicizia è qualcosa di talmente facile che nemmeno si ha la preoccupazione di preservarla come un tesoro.
Io e Leonardo ci siamo incontrati nell’aula di filosofia teoretica, che seguivano in pochi a causa del professore altamente soporifero, vicini di posto per volontà di quel Dio di cui ancora cerchiamo di dimostrare o smentire l’esistenza.
Io e Leonardo siamo usciti insieme per settimane, prima di riscoprirci già diversi, e innamorati: io, di lui, lo ero stata forse dal primo momento in cui l’avevo visto, e forse me ne sono accorta troppo tardi.
Io e Leonardo ci siamo laureati quasi insieme, io prima di lui, e abbiamo deciso di fare un viaggio, da cui davvero non saremmo dovuti tornare.
Poi è arrivato Gabriele.
Gabriele è il peso che ho preso, e poi perso con gli interessi, sono le notti bianche che ho passato, sono le voglie sfrenate e le coccole al mattino. Gabriele, però, è stato anche il dolore al cuore, come una ferita bagnata di sale. Una fitta al basso ventre, in una mattinata di aprile, durante le vacanze di Pasqua, che io e Leonardo avevamo deciso di passare da soli, in una campagna dimenticata da tutti.
Gabriele è stato un rivoletto di sangue fra le gambe, la mia mano sporca sul muro.
Ho gridato, ho pianto, ma del mio bambino non mi è stato dato nulla. Mi è rimasto solo il suo nome, che piaceva solo a me, e il vestito che indossavo quando l’ho perso.
È in una busta sigillata, in fondo all’armadio, ancora sporca di sangue. Aprile lo passo a guardarlo, sperando che mi racconti la sua verità sul perché è successo.
Perché Gabriele non è mai nato, perché non riesco più a provare niente per Leonardo, perché.
Perché non mi accendo più?
Perché sono così straordinariamente, appassionatamente innamorata della mia sofferenza che non riesco nemmeno a lasciarla andare?
 
(329 parole)

 
VIII.
 
Leonardo non è più tornato: non mi ha chiesto il permesso, né io gliel’ho concesso.
In compenso è venuto mio padre, una mattina, la camicia arrotolata fino agli avambracci e un sorriso appena accennato. Mi ha fatta sedere sul retro della casa, dove, quando ero piccola, aveva appeso a un vecchio albero due altalene, per me e i miei amichetti.
Per la prima volta, si è seduto su quel vecchio gioco, come mai aveva fatto quando da bambina lo supplicavo di rimanere con me, durante i pomeriggi vuoti delle vacanze estive. Io l’ho seguito.
«Vorrei che tu tornassi a casa» l’ha detto senza preamboli, senza preavvisi.
Si è dondolato un po’ sull’altalena, a disagio. «Se non con Leonardo, almeno torna a casa con me e la mamma, Silvia. Non possiamo più vederti così: sono passati due anni…».
Sai quante volte si può morire in due anni, mi viene da domandare, lo sai?
«Perché mi hai portato quel dannato pelapatate?» ho chiesto io, incapace di proseguire sul suo argomento. Gabriele è il mio tabù. «Non ho dormito per notti, finché Leo non mi ha detto…».
Ma lui scuote il capo, interrompendomi.
«Voglio sapere cosa significa» l’ho interrotto io, prima che lui potesse riprendere a parlare.
Ho iniziato a dondolarmi anche io, cercando di non pensare che, se fosse vissuto, avrei portato Gabriele qui a giocare.
«Non ha un significato, Silvia» ha risposto mio padre, ex professore di matematica e fisica, enigmista per passione. «Non sono un filosofo come te, tesoro, ti ho dato la cosa meno razionale che mi è venuta in mente per vedere che significato riuscivi a dargli».
«Non gli ho dato nessun significato».
Lui ha abbassato lo sguardo, stringendo con più forza le corde che assicuravano l’altalena ai rami dell’albero.
«Lo so» ha mormorato, affranto. «Non dai un significato a molte cose, ultimamente».
Si è alzato, lasciandomi lì, sola, con un’altalena che ancora dondolava nel vuoto, al mio fianco.
«Io ho perso mio figlio» ho gridato, senza riuscire a pronunciare quel nome. Senza riuscire a credere di averlo detto ad alta voce.
Lui non è tornato indietro.
«Io ho perso mia figlia».
 
(354 parole)
 

IX.
 
La settimana seguente l’ho trascorsa con il telefono in mano, aspettando di trovare la forza di comporre un numero, uno qualsiasi. Non ci sono riuscita.
Sono rimasta per sette giorni stesa fra il letto e l’armadio, a prendere polvere con un cuscino dietro la testa, giocherellando con la busta del vestito sporco del mio sangue.
Ho cercato di convincermi che forse era destino, che il mio bambino non vedesse la luce.
Forse non riesco a credere all’esistenza di un Dio talmente crudele dal privarmi di un bambino che per mesi ho portato dentro di me, ma forse il destino sì, può essere così crudele.
Ho passato sette dannati giorni a cercare di trovare un senso al dolore che non riesce nemmeno a darmi un secondo di tregua, e non ci sono riuscita.
Come per il pelapatate, non sono riuscita a dare un significato all’inaspettato, così mi sono dovuta alzare e sedere almeno sul letto, prima di capire.
Di capire che Gabriele è morto, che ho perso mio figlio, e non posso continuare a vivere in questo limbo di stanze che mi ricordano com’era prima di dover odiare questo dannato mese.
Che non ha senso prendersela con Dio o con il destino, se in isolamento mi ci sono mandata da sola, se non sono riuscita ad accettare un dolore che non è solo mio. Non lo è mai stato.
Ho preso il telefono.
Leonardo ha risposto al primo squillo.
 
(238 parole)
 

X.
 
Non saprei dire dove ho trovato la forza per chiamare Leonardo, piangendo, per chiedergli di portarmi via: semplicemente, due anni di pianti silenziosi sono esplosi, costringendomi a chiedere aiuto all’unica persona che, in quel momento, era con me.
Ho amato Gabriele dell’amore di una madre, e so che nessuno riuscirà mai a farmi smettere di pensare a come sarebbe stato se soltanto fosse vissuto.
Ma il tempo cambia le cose, ha sussurrato Leonardo, prendendomi per mano e portandomi via.
E, alla fine, lui deve aver provato il mio stesso dolore, ma ero io troppo cieca per accorgermene, troppo persa nel mio limbo per pensare anche a lui.
I primi tempi, poi, ho vissuto nel terrore di essere troppo cambiata per lui. Mi guardavo allo specchio e ritrovato i segni della gravidanza finita male, che persistevano nonostante quegli spigoli che avevo tirato fuori negli ultimi due anni.
«Vuol dire che non hai dimenticato» mi ha sussurrato Leonardo, dolcemente. «Sei cambiata. Ma se non cambi, non cresci: ti accartocci e basta. E io non voglio mai più vederti spenta».
E forse ha ragione, cambiare non vuol dire dimenticare: teniamo la prima ecografia di Gabriele sul comodino accanto al letto, insieme a un rametto di fiori di ciliegio.
 
(205 parole)
 

Prompt utilizzati:

I:  Haiku di Yosa Buson.

Sakura chiru | Nawashiro-mizu ya |Hoshi-zuki-yo
Cadono i fiori di ciliegio | sugli specchi d'acqua della risaia:| stelle,al chiarore di una notte senza luna

II: Festa d'addio.

III: Nella cantina della mia mente ci sono centinaia di bottiglie di rabbia, disperazione, paura. Ma a guardarmi non lo si direbbe mai. (L'amore bugiardo - Gone Girl, David Fincher)

IV: Non puoi decidere chi amare... è una cosa che non puoi fare. (Save the last dance, Thomas Carter)

V: Skinny Love, Birdy (In particolare:Staring at the sink of blood and crushed veneer. (...) And now all your love is wasted,
Then who the hell was I?)

VI: Pelapatate

VII: A volte l'uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza.("Delitto e castigo", Dostoevskij)

VIII: Parlare dondolandosi su un'altalena

IX: Destino

X: Se non cambi, non cresci. Ti accartocci e basta. (Mariti e mogli, di Woody Allen)

 
   
 
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