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Autore: _eco    10/10/2015    2 recensioni
SPOILER!3X02
Quel giorno, Jemma si era ritrovata davanti alla scoperta più ovvia e inaspettata: il mai e il sempre coincidono in maniera spaventosa.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jemma Simmons, Leo Fitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non mi chiedete cosa sia, perché non lo so nemmeno io.

Mai, ma anche sempre.
 
Il laboratorio è dov’è sempre stato. Terza porta a sinistra, più o meno a metà del lungo corridoio, che sarebbe totalmente avvolto dalla penombra, se non fosse per i neon affissi alle pareti.
Il laboratorio è dov’è sempre stato, anche se quel sempre, per Jemma, è iniziato nel momento in cui è tornata dalla sua missione sotto copertura, è proseguito per quei mesi in cui non sapeva ancora quanto e come mantenersi distante, ma non troppo, da Fitz, ed è bruscamente terminato con una roccia aliena che l’ha risucchiata e catapultata in un altro pianeta.
Quando si usa la parola “sempre”, ci si aspetta che si stia parlando di un periodo così lungo da non poter essere quantificato con certezza. Allora si dice sempre.
Oppure si dice mai.
Lì fuori, nel pianeta che aveva deciso di chiamare come quello del Piccolo Principe – Asteroide B612 -, Jemma aveva tentato in ogni modo di evitare i mai, cercando di tuffarsi a capofitto nei sempre.
C’è sempre speranza.
C’è sempre domani – anche se non era sicura che le giornate, lì, fossero scandite in ventiquattr’ore o in dieci o in cinquanta: Jemma sapeva solo che, a un certo punto, le tenebre avvolgevano tutto ciò che la circondava. Fitz potrebbe venire domani.
 
Un giorno, Jemma era inciampata su un mai, e vuoi per stanchezza, vuoi per rassegnazione, vuoi perché faceva un freddo maledetto e le ossa scricchiolavano a ogni passo, non lo aveva spedito lontano con un calcio.
Quel giorno, Jemma aveva pensato al mai e a tutto ciò che questa parolina di tre sole lettere comportava.
Mai più lenzuola soffici nelle quali rannicchiarsi nelle notti più fredde.
Mai più tiepide tazze di tè.
Quel giorno, mentre stilava l’elenco di tutto ciò che non avrebbe più potuto fare, aveva tirato un sospiro di sollievo. Si può sopravvivere senza le lenzuola, si possono trovare alternative; il tè era un’ottima ricompensa per una giornata di duro lavoro in laboratorio, ma quella sorta di liquido semitrasparente che, così le piaceva pensare, sembrava acqua, la dissetava abbastanza; andava bene così.
I sempre si erano allontanati anni luce, quando Jemma se n’era ritrovato uno – e poi due, tre, quattro –  fra i piedi, inaspettatamente.
Mai più Skye, che sempre le sarebbe mancata.
Mai più microscopi con cui osservare minuscole forme di vita, cosa che avrebbe sempre rimpianto, perché, nonostante la fame e lo spossamento, a volte la curiosità che sempre l’aveva caratterizzata emergeva, e tutto ciò che voleva fare era mettersi a studiare ogni possibile forma di vita attorno a lei.
Mai più chiacchierate al telefono con i suoi genitori, che sempre allietavano anche di poco le sue giornate; sempre che non fosse riuscita a creare una linea di connessione con la terra. Fitz ci sarebbe riuscito senza problemi.
Fitz.
Mai più Fitz, che la veniva a trovare in sogno, che le proponeva di andare fuori a cena, che, impacciatamente, si lasciava cadere sulla teca della roccia e ne allentava la maniglia.
Mai più Fitz, che sapeva sempre quanto zucchero mettere nel suo tè e che le ricordava sempre di berlo prima che si freddasse troppo.
 
Quel giorno, Jemma si era ritrovata davanti alla scoperta più ovvia e inaspettata: il mai e il sempre coincidono in maniera spaventosa.
 
Quindi sì, il laboratorio è dov’è sempre stato, perché è più semplice dirlo così, anche se non è esattamente la verità; però sono cambiate molte cose. Come, per esempio, il bastoncino di legno acuminato che Jemma tiene nella tasca della felpa, non c’è sempre stato, Jemma non sa quando riuscirà a buttarlo via, non sa se ci riuscirà mai. Jemma non sa nemmeno quando riuscirà ad addormentarsi senza che Fitz debba stendersi accanto a lei – solo in quel momento riesce ad abbandonare il rudimentale pugnale di legno, per non rischiare di ferire Fitz con un movimento brusco, e un po’ perché sente di non averne bisogno.
 
Una delle ultime volte in cui è entrata in laboratorio, lei e Fitz stavano fuggendo da Cal. Si era spaccata una delle finestre. È sciocco, forse, ma Jemma si aspetta di trovarla ancora come l’aveva lasciata. Il laboratorio, invece, come prevedibile, è stato aggiustato. Nessuna crepa nel vetro oltre il quale si può vedere un lettino d’ospedale. Come se non fosse mai successo.
La postazione di Fitz, quella la riconosce immediatamente, e non dalla sua posizione, sebbene non sia cambiata, ma per via dell’ordine maniacale che la caratterizza. Sembra che non ci abbia lavorato nessuno per mesi, ma non è così e Jemma se ne accorge dai dettagli: un cacciavite al centro della scrivania, la tazza da tè, vuota e ripulita, capovolta su un piattino, un post-it con appunti più o meno indecifrabili incollato al portapenne di plastica.
Fitz le sfiora la spalla, come per incoraggiarla. Fino a pochi minuti fa le ha chiesto se fosse sicura di voler ritornare in laboratorio, che potevano aspettare tutto il tempo che le serviva. Ma, di nuovo, i mai e i sempre si sono spintonati, scavalcati e accalcati nella sua testa, perciò Jemma ha detto che sì, era sicura.
È sicura.
 
Bobbi, a poco più di un metro di distanza, le lancia un sorriso rassicurante. È strano vederle addosso il camice bianco che lei, Jemma, crede di aver indossato da sempre. Dovrebbe avviarsi verso la sua postazione, rimasta intatta da quando è scomparsa. Dovrebbe svolgere operazioni di routine – ma quale routine? -, incarichi di poco conto. Coulson le ha fatto promettere di non lavorare più di due ore. Dovrebbe camminare verso la sua scrivania, un piede davanti all’altro, ma è paralizzata. È come se le gambe si fossero pietrificate, e no, non è una battuta di cattivo gusto. Jemma non riesce a trovare espressione più appropriata, in realtà.
Bobbi si muove disinvolta tra un bancone e l’altro, compilando schede digitali, verificando i risultati delle analisi degli Inumani. È come se fosse sempre stata qui. È come se lei non ci fosse mai stata.
Jemma non è pietrificata. Le pietre non tremano, lei sta tremando. La logica suggerisce che Jemma non sia una pietra. Freneticamente, le dita si muovono alla ricerca del pugnale di legno, ma tutto ciò che trovano è la stretta di Fitz.
Bobbi, che si è impegnata a ostentare indifferenza negli ultimi minuti, trova un pretesto che Jemma non si preoccupa di ricordare per allontanarsi. Sono soli. Lei, Fitz, il laboratorio.
 
- Cosa succede se non mi ricordo come fare? – chiede con un fil di voce.
Fitz aggrotta la fronte, ma aspetta qualche secondo prima di domandarle una spiegazione, nella speranza che Jemma continui da sé.
- Cosa? – chiede poi.
- Cosa succede se non mi ricordo come analizzare un campione al microscopio? Cosa succede se non so come funziona il nuovo sistema di digitalizzazione dei risultati? –
- Nuovo sistema di digitalizzazione dei risultati? È lo stesso di sempre. – si affretta a chiarire Fitz.
Jemma si morde l’interno della guancia e annuisce, come per convincersi di ciò che Fitz le ha detto.
- Bene. –
Inconsciamente, Jemma quasi si ancora alla stretta di Fitz, le nocche bianche per la troppa pressione.
- Cosa succede se faccio cadere un vetrino? –
- Non hai mai fatto cadere un vetrino in vita tua, Jemma. – le ricorda con calma Fitz.
Ricorda fin troppo bene i mesi di riabilitazione, le mani malferme, le viti che non volevano saldarsi per bene perché il suo polso era troppo debole. Ricorda che, prima che andasse via, Jemma era solita dirgli che la colpa era del cacciavite, non sua.
Ne avrebbero trovato uno migliore il giorno dopo.
- Cosa succede se sbaglio un’analisi? –
Fitz si passa la mano libera fra i capelli, alla ricerca della risposta giusta. Devono essere proprio un bel quadretto, tutti e due, in piedi come salami di fronte alla postazione di Jemma. Se ci mettessero un nastro davanti, da tagliare al momento dell’arrivo, il tutto somiglierebbe ancora di più a una maratona senza fine.
- Succede che ti è concesso sbagliare. –
Jemma scolla lo sguardo dalla scrivania che ha fissato per minuti ininterrotti. Alza gli occhi verso Fitz, lentamente, come se fosse convinta di dover imparare di nuovo anche come guardarlo. Un’espressione interrogativa le si dipinge sul volto, la richiesta di una conferma. Fitz annuisce.
Sì, forse può sbagliare.
Mentre percorrono in silenzio la breve distanza che li separa dal bancone di fronte, Jemma quasi non avverte il rumore dei propri passi né prende atto del fatto che si stiano avvicinando sempre di più, fin quando Fitz non guida la sua mano sullo schienale della sedia girevole, come per farle riacquistare contatto con il suo mondo.
- Io sono qui accanto. – le assicura, lanciando un’occhiata fugace alla sua postazione, poco più indietro. – Non metterti sotto pressione. Nessuno si aspetta niente, d’accordo? Nel senso, sappiamo di cosa sei capace, ma nessuno si aspetta che tu… hai capito. –
Fitz sbuffa, schiaffeggiandosi virtualmente perché così irrimediabilmente impacciato nel parlare, soprattutto quando c’è bisogno di dire parole chiare e inequivocabili.
- Ho capito. –
Jemma ha capito, davvero. Lei stessa probabilmente impazzirebbe, se trascorresse un giorno di più senza far altro che dormire o al massimo sfogliare libri che conosce a memoria.
Bisogna pur iniziare, no?
Il calore che fino a poco fa intiepidiva la mano di Jemma, per natura costantemente gelida, si allontana all’improvviso. Fitz le rivolge un sorriso appena accennato, ma Jemma si concentra per lo più sull’espressione dei suoi occhi: comprensivi, pazienti.
Fitz è paziente.
Fitz è sicuro.
- Fitz? –
Il ragazzo, che si era diretto verso la scrivania, si volta di scatto.
- Cosa? Ci hai ripensato? Perché va bene. Va bene se ci hai ripensato, woah! Che fai con quel coso?! – si allarma, non appena si accorge del pugnale di legno che Jemma stringe le dita.
Jemma allunga il braccio verso Leo, porgendogli l’insulsa arma, l’unica arma, che le aveva portato conforto laggiù.
- Puoi tenerlo tu? – gli chiede con tono fermo e deciso, le labbra curve in un sorriso fiero.
No, di nuovo, Jemma non sa quando riuscirà a liberarsi del tutto del pugnale; non sa quando smetterà di pensare a tutte le costellazioni del pianeta sconosciuto, che ha deciso di chiamare come le persone che credeva di aver perso per sempre; non sa quando potrà raggiungere il suo posto di lavoro senza che Fitz debba accompagnarla passo dopo passo; però sa che adesso il pugnale non le serve. Sa che si fida di Fitz, sa che a lui, e soltanto a lui, può consegnare ciò che per mesi le ha portato un briciolo di conforto, tra i mai e i sempre in cui continuava ad inciampare.
- Non è un’arma di distruzione di massa, vero? – scherza Fitz.
Simmons si abbandona a una risata breve, ma per niente forzata.
- Credo che non la metterei nelle tue mani, se così fosse. –
- Oh, grazie. – borbotta Fitz.
- La faresti esplodere subito e uccideresti tutti. –
- Non mi sembra un complimento. –
Simmons inclina leggermente il collo e imita il sorriso più autentico e genuino che riesce a trovare fra i ricordi di un passato ancora sereno e spensierato.
- Buon lavoro, Fitz. –
- Non lasciare freddare il tè, Simmons. – le ricorda il ragazzo, prima di gettarsi a capofitto nella mole di lavoro che gli tocca per oggi.
Gli occhi nocciola di Jemma s’inumidiscono giusto un po’, mentre accarezzano con tenerezza i contorni della tazza di sempre, il tè fumante – ma non ancora per molto – che le sussurra un silenzioso “bentornata”.
 
 
 
 
 
  
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