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Autore: L0g1c1ta    12/10/2015    3 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Polonia si sente incredibilmente pigro e riposato. Come una di quelle mattine in cui non riesci assolutamente ad alzarti dal letto, anche se non hai più intenzione di dormire. Si sente sereno e calmo, non ha intenzione di aprire gli occhi. Non ricorda dove stia dormendo o come ci sia arrivato sotto quelle coperte calde. Sa solo che non ha intenzione nemmeno di saperlo o immaginarlo.

È in uno spazio fra sogni e realtà. Ma la prima viene frantumata da un suono e la seconda sta venendo a galla nella mente del biondo.

Un piccolo ed indispettito cip cip gli sussurra poco lontano dalla sua testa. Nonostante sia disturbato, Polonia non vuole ancora svegliarsi. Si muove un po’ tra le coperte ed ignora il suono. Ma questo sembra non voler cessare. Il cip cip continua a sibilare nelle orecchie del polacco, questa volta più vicino. Polonia sospira con irritazione, prende un lembo della coperta e la porta fin oltre la testa.

Sente uno zampettio leggero sulla trapunta, ad un palmo dalla sua testa. Il suono smette. L’esserino continua a saltellare vicino alla sua mano, con cui afferra il lembo della coperta. L’irritante, ma infantile, cip cip continua a suonare nelle orecchie di Polonia.

Sente un beccuccio picchiettare sulla sua mano, con insistenza e con altri cip cip. A Polonia comincia veramente ad irritare quel suono e quel beccuccio. Fa dei suoni incomprensibili e, con la mano, cerca di allontanare l’esserino che gli ha fatto visita. Non ci riesce, quel piccoletto non si fa nemmeno sfiorare dalla mano del polacco.

Allora Polonia apre gli occhi, assonnati e un po’ arrabbiati. Fa uno sbuffo d’impazienza che subito ritira, non appena vede il suo piccolo ospite. È un pulcino rosso scuro, grassoccio, con alcune piume nere e uno sguardo autorevole. Polonia smuove la coperta dalla sua testa, interessato da quel piccolino. Il pulcino continua a pigolare e a sbattere le alucce, come se tentasse di spiccare il volo, oppure di attirare la sua attenzione. Polonia, intenerito, mostra un sorriso e gli porge una mano.

“Uh… Czesc” l’uccellino, calmato per aver avuto attenzioni, fissa il palmo aperto, incuriosito. Infine, ci sfrega contro il beccuccio e lo picchietta un po’, giocandoci. Polonia sbuffa una piccola risata e riesce a sentire sulle dita le piume morbide dell’uccellino. Gli occhietti neri e lucidi sono interessati ai suoi, verdi.

Smuovendo un po’ le piume arruffate, il pulcino zampetta sulla coperta bianca, fino ad arrivare ad un palmo dal naso di Polonia. Il biondo deve incrociare gli occhi per guardarlo. Il pulcino strofina le piume sul suo naso, facendolo starnutire. Il piccolo fa un saltino all’indietro, spaventato, con un acuto cip di protesta. Polonia ride, divertito dalla sua reazione.

Il pulcino, però, non sembra intenzionato ad arrendersi e continua ad avvicinarsi ma, questa volta, ai capelli dorati. Le piume fanno un po’ di solletico all’orecchio di Polonia, mentre il piccolino afferra una ciocca col beccuccio. Non la tira, sente la sua compostezza col becco e la lascia andare. Continua la sua avanzata verso il folto dei capelli, accucciandosi fra l’orecchio e il collo. Polonia, volendo avere la fiducia del piccolo e non volendolo far scappare via con un movimento brusco, non si muove. Si rende conto dopo un po’ di tempo che il pulcino si sia addormentato lì e, quindi, lo lascia nel suo nido fatto dei suoi capelli. Si addormenta subito dopo, troppo stanco.

Il pulcino lo sveglia molte volte e pretende sempre di avere la sua attenzione, ottenendola sempre. Polonia non sa se è giorno o notte, o se il pulcino lo sveglia durante il giorno o in un’ora particolare. Sa solo che per lui non è un dispiacere questo nuovo amico, anche se desidera tante attenzioni. Polonia conta venti volte in cui il pulcino lo sveglia e pensa che sia diventato molto più fiducioso nella sua presenza. Il piccolino non si spaventa se lo accarezza. Se fa un fischio, il pulcino alza la testa e zampetta verso la sua bocca, la picchietta e ci sfrega le piume.

“Sai, credo che dovrei darti un nome” dice la ventunesima volta in cui il piccoletto lo sveglia. Il pulcino lo fissa per qualche secondo, strabuzza le piume, le scompiglia e ritorna a concentrarsi sui suoi capelli. Sembrano piacergli tanto, nota Polonia. Vuole un nome non troppo usato, non stupido o imbarazzante, ma nemmeno semplice o fraintendibile. Di sicuro Liet lo avrebbe aiutato meglio di come stia cercando di fare lui stesso. Ci aveva già pensato su alla settima ridestata. Ci aveva riflettuto e pensa che un nome con la T, lettera a suo parere molto seria e pronunciata, sia perfetta per il pulcino. Pensa anche a Liet e al suo paese. Ricorda che un giorno avevano parlato dei tanti nomi comuni dei loro paesi e uno in particolare gli era piaciuto molto, sebbene molto posato.

“Credo che Toris ti starebbe benissimo” afferma dolcemente, vedendo il piccolino in cerca di protezione sotto i suoi capelli. Polonia abbozza un sorriso.

“Buonanotte, Toris” e si addormenta.

Viene svegliato di nuovo da Toris, il quale, questa volta, diventa molto più capriccioso. Polonia apre gli occhi e nota che il piccolo sta afferrando col beccuccio una sua ciocca e la strattona con urgenza. Polonia si sveglia del tutto, richiamato pressantemente da Toris con tanti cip cip. Il biondo nota che il pulcino è molto lontano da lui, quasi non lo vede oltre la coperta, ma sente chiaramente il richiamo molto urgente. Polonia, un po’ intontito, si spaventa. Che stia chiedendo aiuto?

“Aspetta, piccolo!” esclama, diventato più allarmato per i cinguettii di protesta. Con fatica si rimette in piedi, sentendo con le ginocchia la coperta molto dura. Si alza e cammina a fatica verso Toris. Non è in pericolo e nemmeno sta chiedendo aiuto. Si trova semplicemente fuori dalla coperta e sbatte le alucce, come se tentasse di raggiungere l’altezza del polacco, inutilmente. Polonia gli porge le mani a coppa e Toris saltella dentro i palmi aperti. Il biondo lo porta alla sua altezza.

“Ah, stai bene. Credevo che fossi, tipo, in pericolo” ride divertito. Il pulcino non lo è affatto e protesta sbattendo le alucce e pigolando offeso. Polonia smette di ridere e si osserva, per la prima volta, attorno. Rimane perplesso. Non vede altro che giallo antico, quasi marrone. Ai suoi piedi, vede ciò che dovrebbe essere la Germania. Legge chiaramente Berlino sotto i suoi piedi. Si guarda ancora attorno e nota altre Nazioni, città, luoghi geografici europei. Ha i piedi sopra una gigantesca cartina.

Si volta per vedere dove aveva dormito per tutto quel tempo. Non è nemmeno un letto: solo un grande lenzuolo dove si è aggrovigliato. Rimane deluso da questa scoperta. Toris pigola e richiama la sua attenzione. Il pulcino, avendo gli occhi su di lui, sfrega il beccuccio contro il suo petto e si sfila una piccola piuma nera. Questa prende fuoco, impressionando il polacco e svanisce. Polonia nota il paesaggio attorno a lui modificare drasticamente. Lentamente, vede il bianco attorno a lui prendere delle forme di palazzi, come se fossero fatti di carta, per poi colorarsi e mostrarsi come delle vere costruzioni.

Toris attira ancora la sua attenzione saltellando nei suoi palmi e cinguettando. Il pulcino si volta di fronte a loro e continua a fissare il paesaggio, mostrando le piume della schiena a Polonia. Il biondo segue lo sguardo del pulcino e nota delle figure poco lontane. Il polacco si avvicina, interessato, fino ad avere di fronte agli occhi la grande schiena di Russia. Sa che è lui. Lo riconosce dall’uniforme da generale sovietico, dalla sciarpa e dalle grandi mani sporche di sangue, che tenta inutilmente di nascondere. Gli è famigliare quel sangue. Il russo sospira, con un sorriso sulle labbra nascoste dalla sciarpa.

“Sono mortificato per quest’incidente, ammetto che non era nemmeno nei miei piani” Prussia, disprezzando il gigante, sbuffa.

“Ti sei anche scusato a sufficienza, russo. Ti concediamo la metà del territorio, ma che non riaccada più, se deve riaccadere di nuovo” dice, sprezzante. Germania affianco a lui sospira, sperando un miglioramento nell’atteggiamento del fratello. Polonia lancia uno sguardo a Toris, accucciato tra le sue mani. Non capisce cosa stia guardando. Russia si abbassa la sciarpa e mostra le labbra sottili.

“Ovviamente no, certo che no: è stato solo un incidente. Piuttosto, mi farebbe piacere sapere che fine farà il corpo” Polonia trattiene il respiro. Germania si massaggia le palpebre, non volendo toccare un argomento così spinoso.

“Non lo abbiamo ancora deciso” Prussia annuisce affianco a lui.

“Potremo anche lasciarlo lì. Tanto i territori non muoiono insieme a lui” viene subito dopo fulminato da Germania, offeso per le sue parole ironiche. Russia ignora il prussiano.

“Se non vi dispiace, preferirei portarlo io con me” i due aggrottano la fronte, perplessi.

“Fino a Mosca?” Russia annuisce. Prussia sbuffa una risata.

“E che ci farai con lui?” il russo allarga il sorriso.

“Questo non dovrebbe interessarti, Prussia” risponde prontamente, con una luce malsana negli occhi violacei. Germania deglutisce, abbastanza intimorito.

“Beh, io non ho niente in contrario. West?”

“Nemmeno io. Spero che lo tratterrai con riguardo” Russia si aggiusta il berretto, bianco come la sua uniforme, sulla testa.

“Ovviamente. Le mie scuse, dovrei partire fra pochi minuti” i due fratelli, non avendo altro da aggiungere, si congedano con un saluto e spariscono. Russia si avvia a camminare per una direzione ignota. Polonia, preso alla sprovvista per questo cambio di programma, inizia a rincorrerlo. Russia, svoltando per le vie di Berlino, si ferma di fronte ad una macchina nera coi vetri anch’essi scuri.

Il russo sta per aprire il portello principale, ma esita un secondo. Apre, invece, un secondo portello e resta ad ammirare il suo piccolo passeggero sdraiato di schiena sui sedili di pelle. Polonia non mostra alcun sentimento alla vista del suo corpo imbrattato di sangue e terra. Non fiata quando Russia prende il posto del conducente e guida la sua vettura lontano da lui e da Toris. Il pulcino si volta verso il polacco, strabuzzando gli occhietti lucidi.

“Ah, mi hai portato qui per farmi vedere che sono morto?” il pulcino sembra comprendere e fissa Polonia come per cercare di immaginare il suo stato d’animo. Il polacco sorride triste.

“Questo già lo sapevo, Toris” il pulcino non sembra per niente sorpreso di queste parole. Il paesaggio attorno a loro ritorna al suo aspetto cartaceo e svanisce del tutto in mezzo al bianco. I piedi di Polonia toccano la città di Berlino. Sono ritornati indietro, alla cartina giallo antico. Il polacco guarda il pulcino, triste.

“Cosa facciamo ora?” Toris zampetta sulle sue mani. Le sue zampette artigliate pigiano sui suoi palmi, come per prendere la rincorsa e cade giù. Con le alucce prova a volare o a fluttuare per non farsi male, non riuscendoci. Cade col pancino all’ingiù. Polonia, un po’ preoccupato, si china per soccorrerlo. Il pulcino pigola per protestare e si rimette sulle sue zampette. Scroscia le piume e saltella verso una nuova meta.

Polonia lo segue. Superano la Germania, il suo giaciglio che prende il posto della Polonia, i Paesi Baltici e toccano le terre russe. Il pulcino si ferma esattamente sopra Mosca: un gigantesco puntino che il pulcino riesce a coprire quasi completamente con il suo corpicino grassottello. Polonia, inespressivo ma triste, lo segue. Il pulcino afferra un’altra piuma, rossa, molto più grande della precedente, da sotto la sua ala e questa prende fuoco. Polonia chiude gli occhi e attende il suo prossimo viaggio.

 

 

 

 

 

 

“15 settembre 1939, cade la resistenza polacca. Le armate tedesche hanno già penetrato la linea di Vistola fino a iniziare i primi bombardamenti sulla città di Varsavia. La scorsa settimana sono state aperte le strade con i carri armati dell’esercito tedesco. Si contano trecentoventotto tonnellate di esplosivi già sganciati dalla flotta aerea della Luftwaffe. Il popolo polacco è ora sepolto…” il resto non riuscì più a leggere: Lituania cadde in ginocchio, pelle e occhi bianchi. Lo sforzo per rimanere in piedi era nullo: il corpo non riuscì a contenere tutte quelle sensazioni.

Lettonia ed Estonia lo obbligarono a restare a letto fino a quando Russia non fosse ritornato con le novità. Lituania soffriva, si dimenava e protestava. I due fratelli lo chiusero a chiave, fino a quando non riuscì ad avere un po’ di calma in cuore.

Aspettò il ritorno di Russia col cuore in gola e le braccia tremanti. Non volle vedere la luce del sole, troppo impegnato a sperare che non lo avessero ucciso. L’ansia era traboccata dal suo cuore, non riusciva a fermare le braccia e le gambe tremanti dai brividi di angoscia. Si sentì male, anche il suo corpo traboccava di terrore. Voleva che stesse bene, che non gli fosse accaduto nulla di orribile, che non fosse morto.

Guardava il soffitto della sua stanza con occhi lucidi. Piangeva ogni ora. Le mani congiunte e instabili erano rivolte al cielo, in segno di preghiera. Non era mai stato molto religioso, ma non riuscì a fare nient’altro di utile. Si mise in ginocchio di fronte al suo letto. Le labbra scosse che baciavano le mani giunte, come per riuscire a confortarsi. Pregò. Pregò per Polonia. Implorò chiunque dal cielo in modo da poterlo salvare dal mostro di Germania e Russia. Non migliorò il suo stato d’animo, ma, per la fatica con cui il cuore pulsava, si addormentò.

Sognò loro due, com’erano un tempo: liberi. Sognò la partita a scacchi, il giorno in cui si erano seduti sul prato della reggia di Varsavia a raccontarsi storie. Sognò le varie volte in cui lo stuzzicava vestendosi da ragazza, i loro soprannomi, Liet e Polska. Sognò le varie guerre combattute insieme. Sognò la guerra perduta, il suo paese in mano a Russia e i suoi sogni fasulli.

Una mattina scura si svegliò: Russia era tornato. Estonia e Lettonia, obbligati da loro stessi, lo salutarono all’ingresso, con falsi sorrisi. Lituania dimenticò gli obblighi. Chiese in fretta ciò che era accaduto. Dov’è Polonia?, chiese. Russia fece schiudere un sorriso. Polonia è venuto a trovarci, resterà qui, con noi, per sempre, rispose, gentilmente, guardando e gustando il sorriso rassicurato di Lituania.

Il suo cuore iniziò a sbattere violentemente contro il petto, come un uccellino in cerca di libertà dalla sua piccola gabbia, non appena Russia lo accompagnò di fronte alla macchina da dove poco prima era uscito. Indicò, con un sorriso, l’ultimo sportello. A Lituania si abbozzò un sorriso quando, attraverso il vetro scuro, intravide la sagoma distesa sulla schiena di Polonia. Il cuore di Lituania, quando Russia aprì lo sportello, cadde sullo stomaco.

I capelli di Polonia erano ramati dal sangue e dalla terra, così come la sua uniforme strappata e la mantella lacerata. La pelle, salva dal rosso, era bianca come la pancia di un pesce. Gli occhi fissavano il tettuccio dell’automobile, spalancati, di un verde divenuto paludoso e spoglio. I due Baltici vedendo il polacco, si tapparono la bocca, sentendo l’odore insopportabile di ferro. Lituania non tentò nemmeno di voltarsi per chiedere spiegazioni a Russia, non vi era alcun bisogno.

Gli tremavano le pupille e il cuore tentava in tutti i modi di stracciare la pelle del petto. Russia, dietro di lui, fece avvicinare le labbra al suo orecchio. Sai, somiglia molto alla sua bandiera: bianca e rossa. Certo che gli stanno molto bene questi due colori!, gli sussurrò. Le sue dita grandi e forti sfiorarono le palpebre di Polska e le abbassarono con forza, come se avesse voluto strappargliele lentamente.

Lituania a malapena udì gli ordini dolci di Russia ad Estonia e Lettonia sullo spostare il cadavere dalla macchina, che ricadde in ginocchio dopo giorni di terrori, lacrime e preghiere e iniziò a gemere; fino a quando i due Baltici portarono via quel che rimaneva di Polonia e da lì in poi iniziò a piangere, odiando Russia quando, indifferente al suo dolore, gli ordinò di pulire l’interno della macchina.

Polonia fantasma, seduto sul sedile dov’era il suo corpo, strabuzzò gli occhi, incredulo, di fronte al pianto del suo amico. Toris, seduto sulla sua spalla, pigolò, strappò un’altra piuma dal suo petto e questa prese fuoco. Sparirono entrambi.

Passarono diversi giorni, ma Lituania non cessava di piangere e gemere per la perdita dell’amico. Estonia e Lettonia non poterono far altro che sostituirlo per due giorni nelle sue faccende, mentre passava le giornate a spezzarsi le ossa contro il muro e le notti a sognare gli occhi scavati nel sangue di Polska.

 

 

 

 

 

Così passò quasi una settimana e i due Baltici, stanchi e tormentati dalla visione del fratello sofferente, lo obbligarono a ritornare in camicia e cravatta e a continuare a servire Russia.

Ha appena finito di vestirsi. Lettonia ed Estonia, con sguardi nascosti, lo invitano ad uscire fuori dalla sua prigione. Uscito, con le spalle curve, ricorda i suoi compiti. Li svolge, il più efficientemente possibile, come fa ogni giorno: lavare i panni di tutti i componenti della casa, stenderli, stirarli e poggiarli nelle rispettive camere in quella casa gigantesca.

Mentre poggia i suoi panni e quelli dei fratelli nei cassetti, Estonia gli chiede di aiutarlo a pulire il pavimento della hall, visto che da solo non ci sarebbe riuscito prima di cena. Lituania, sospirando stancamente, prende la seconda scopa e comincia a spazzare il pavimento bianco e oro. Estonia gli lancia delle occhiate preoccupate, ma non apre mai bocca. L’unica volta in cui parla, Estonia lo ringraziò per l’aiuto e si eclissò verso le altre camere. Lituania non fa caso ai suoi occhi preoccupati e si dirige verso la sua stanza che condivide con i due fratelli. Si addormenta quasi subito.

Non ebbe il tempo di sognare nulla di concreto, che Lettonia lo sveglia, incredulo ed ansimante, chiedendogli perché non è andato subito a cenare.

Lituania, pallido, gli risponde che non ha fame e ritorna a dormire. Lettonia corre verso la stanza da pranzo e si siede di fronte ad Estonia, all’estremità inversa della tavola, lontano dai tre veri padroni di casa. Russia, non vedendo Lituania, chiede al ragazzino dove sia il fratello. Lettonia, sbigottito per la sorpresa, risponde. Bielorussia ed Ucraina ignorano la risposta e continuano a mangiare.

Russia inclina leggermente la testa, perplesso. Ma poi ricorda il perché del comportamento di Lituania, avendolo dimenticato. Continua a mangiare, non pensandoci più.

 

 

 

 

Passa un altro giorno, Lituania non sente la fame e non sogna nulla, solo un vuoto scroscio di vento autunnale sulle sue orecchie.

Si alza dal letto, più sciupato del giorno prima e senza lacrime. Si veste goffamente, qualche ora, prima che i fratelli si sveglino alla solita ora. Ignora il sole mentre sorge e pensa di iniziare a lavorare anche a quell’ora. Tanto non sarebbe stato in grado di riaddormentarsi.

Finito di vestirsi, esce fuori dalla stanza e si reca nella cucina vuota. La malinconia di quel silenzio è assillante. Dalla cantina prende le pietanze e inizia a cucinare. Si rende conto che la sua mano è molto più lenta a tagliare il pane e a girare il mestolo. Beh, almeno mi sono svegliato presto oggi: non sarà un problema la mia lentezza, pensa tristemente. Non ha idea di quanto tempo abbia impiegato per cucinare, ma di sicuro fu più del doppio di quanto impiegasse nei giorni addietro.

Usa come orologio il sole: se quando si era svegliato stava sorgendo, ora invece è abbastanza alto. Deve aver impiegato delle ore. Osserva con così tanta foga il paesaggio spento fuori che finisce per osservarsi dal vetro della finestra. I suoi capelli sono scompigliati, la pelle pallida e gli occhi sono spenti e tristi. Cerca un elastico nella giacca e si lega i capelli, come faceva un tempo, ricordandosi di non essersi pettinato quella mattina.

La casa è ancora silenziosa e senza vita.

Prende la colazione e la posiziona nei rispettivi posti a sedere: a capo tavola per Russia, alla destra Bielorussia e a sinistra Ucraina. Dall’altra parte della lunga tavola, lontano dai tre fratelli sovietici vi erano i Baltici: a destra Estonia, a sinistra Lettonia e lui a capo tavola, sacrificato, con gli occhi di Russia di fronte a lui.

A lavoro finito, fissa la stanza senza darne troppa attenzione. Vuole pensare a qualsiasi cosa, bella o brutta che sia, ma che non sia Polska o i suoi occhi sbarrati buttati negli ultimi posti dell’automobile nera. Purtroppo, non ci riesce.

Polonia, nonostante tutto, nonostante sia stato un po’ egoista, nonostante sia stato testardo, nonostante sia stato eccentrico e anche un po’ menefreghista, si rendeva conto solo in pochi momenti, come quello, che sia stato il suo migliore amico.

Non era poi così tanto egoista, in realtà. Nel periodo durante il quale si trovava nella corte di Varsavia, aveva spesso sentito dire che Polska fosse un ragazzo molto solo e per questo motivo era individualista ed egocentrico, con chiunque, indipendentemente. Erano parole vere. Polska era egoista, ma aveva abbandonato la sua natura man a mano che si cominciavano a frequentare. Nei mesi e mesi trascorsi con lui, stava cambiando.

Era diventato molto più aperto, ma solo con lui, il suo unico amico. Era diventato eccentrico, ma perché lo era sempre stato. Faceva qualsiasi cosa al contrario, vedeva le cose diversamente da come le vedeva lui e chiunque altro che non fosse Polska. Ma per questo trovava il tutto molto più emozionante ed interessante. Aveva sempre avuto questa natura, ma l’aveva nascosta a chiunque in quella corte, tranne che a lui.

Era testardo come un branco di muli. Anche se stava facendo una cosa totalmente sbagliata, continuava a farla, fino alla fine, con fedeltà. Non era un codardo. Un giorno, nei suoi rari momenti di serietà, gli disse:“I polacchi non sventolano bandierine bianche come, tipo, un branco di italiani. Preferirei morire in battaglia, piuttosto che sottomettermi a qualcuno che non sia me stesso”. Gli aveva sorriso e lanciato uno sguardo carico di fierezza.

Era qualsiasi cosa, Polska. Ma non era cattivo o fastidioso.

Si rende conto di aver pensato soltanto a cose negative su Polonia. Sospira, vergognandosi un po’ di quel che aveva pensato del suo vecchio amico.

“Ah, Lituania, finalmente ti vedo in forma!” esclama dietro di sé Russia, ad occhi chiusi e con un sorriso. Lituania esita un po’, prima di voltarsi. Russia ha detto di averlo trovato in forma, ma, ora che l’osserva molto più attentamente, quasi cambia idea. Ma tiene ancora per sé il sorriso. Lituania non lo ricambia.

“Allora, ti sei ripreso?” chiede, assottigliando le palpebre, senza smettere di ridere a fior di labbra. Lituania non impiega molto a comprendere il messaggio celato di Russia. Non apre bocca, semplicemente annuisce. A Russia non interessano i veri pensieri del prossimo. Vuole solo ascoltare ciò che desidera sentire. Ma, questa volta, non rimane indifferente.

“Mi scusi, signor Russia, potrei andare a fare le mie faccende?” chiede il lituano, senza alcun tono di voce. Russia abbassa le palpebre, ancor più perplesso.

“Certo” risponde, ma si rende conto del piatto pieno di Lituania a fondo tavola “Non vuoi prima fare colazione?”

“No, non ho fame” risponde e, prima che Russia possa aggiungere qualcosa, esce dalla stanza. Anche solo la presenza del russo gli ha fatto stridere lo stomaco.

L’idea di dover mangiare alla stessa tavola con quel gigante, lo disgusta.

Pensa di prendere gli arnesi per pulire i corridoi. Ha l’impressione che le stanze siano molto più piccole di come ricordava. Ignora la sensazione insolita e continua la sua camminata, imperterrito.

A metà corridoio vede un tavolino con un telefono nero poggiato sopra. Si ferma un attimo, esitando. Guarda l’orologio a pendolo di fronte al tavolino: le nove e dieci. Polska dev’essere già sveglio, pensa, Forse potrei chiamarlo. Si avvicina all’oggetto e prende la cornetta. Inizia a digitare i primi tre numeri girando la levetta.

Dopo qualche secondo di esitazione, si rende conto di quel che sta facendo. Lancia la cornetta, come se si fosse reso conto di avere per le mani una creatura disgustosa. Quella dondola velocemente sotto al tavolo, al ritmo del pendolo di fronte ad esso. Lituania fissa l’oscillare della cornetta. In un attimo realizza pienamente ciò che stava tentando di fare.

Ride, rendendosi conto di quanto fosse stato stupido.

Piange, rendendosi conto di quanto ciò sia triste.

Il dondolio smette. Lituania continua a ridere. Le lacrime scorrono sulle sue guance, gli pizzicano il mento e scendono per la gola.

Estonia e Lettonia passano di fianco a lui. Lo vedono piangere e ridere, ma a Lituania non importa di loro, pensa ancora a quanto fosse stato stupido a voler telefonare un morto. Lettonia vorrebbe avvicinarsi per chiedergli se stia bene. Estonia lo ferma, lo prende per le spalle e lo trascina fino alla fine del corridoio, come se volesse scappare dalla sua tristezza.

Lituania per tutto il giorno non fa altro che pensare all’accaduto, piangendo e ridendo, anche durante i suoi compiti.

Ma quando il lituano, quella sera, immerge la testa nel cuscino, le risate svaniscono. Solo lacrime salate e ricordi di Polska.

Dopo la sua separazione dal polacco, quasi tutti i giorni si telefonavano e, se non era possibile, usavano la posta. Polonia non aveva problemi: poteva chiamarlo anche a notte fonda, a Prussia e ad Austria le loro telefonate non interessavano. Lui era circondato da muri con occhi ed orecchie. Russia era geloso della loro amicizia.

Il russo voleva una famiglia unita, nell’Unione Sovietica. Voleva che il centro di tutta la casa, il fulcro di ogni cosa, il capofamiglia, fosse lui. Lui solo. Russia non sopportava il fatto che Lituania avesse qualcun altro con cui parlare che non fosse parte della sua famiglia. Prendeva le lettere e le bruciava, di fronte a Lituania. Mentre parlavano al telefono, sentiva le loro conversazioni dietro ad un muro, come un assassino in attesa di un passo falso della sua vittima. In parte soffriva: significava che Lituania non lo ritenesse degno di un buon capofamiglia. Lo faceva soffrire la loro amicizia. Quindi spegneva la corrente, ma quando la riaccendeva vedeva di nuovo il moro parlare col polacco. Questa cosa lo faceva star male.

Quando Prussia venne a casa sua per chiedergli di poter invadere e distruggere la Polonia, prese la palla al balzo. Voleva la distruzione di Polonia, con tutto il suo cuore. La sua morte sarebbe stata liberatoria per chiunque in quella casa. Bisognava solo aspettare che Lituania avesse potuto accettarla e, così, farlo indirizzare sulla retta via.

Semplice.

Bisognava solo aspettare.

Ma Lituania, quella notte, non dimenticò.

 

 

 

 

 

 

“Liet…! Liet! Hey, ti svegli o no?!”

Il lituano aprì le palpebre, trovando sopra la sua pancia e a mezzo centimetro dal naso un polacco imbronciato. Molto imbronciato.

“Cioè, ti avevo detto di restare tipo sveglio stanotte. Potresti almeno farmi un favore!” continuò a lagnarsi, iniziando ad allontanarsi, giusto un pochettino, dalla faccia dell’amico. Il lituano cominciò a svegliarsi, sfregandosi le dita sulle palpebre. Il polacco era ancora a braccia conserte.

“Ma… ma che dici, Polska?” quello sbuffò ancora.

“Questa sera, tipo, ti avevo detto di restare sveglio fino a quando le guardie non se ne sarebbero andate. Così, per uscire fuori, tipo!” esclamò, a voce bassa, per non far svegliare qualcuno. Dopo qualche secondo per rifletterci su, ricordò che quella sera, durante la cena, Polska gli aveva detto qualcosa riguardo ad una cosa totalmente sensazionale che doveva, tipo, vedere anche lui.

“Ah… ma dicevi veramente?” chiese, sbadigliando. Polska, in risposta, buttò le braccia all’indietro e si abbandonò sulla schiena. I capelli biondo grano caddero all’indietro, fuori dal letto.

“Cioè, tu non mi ascolti mai. Ma non fa niente, tipo, non devi perdertelo!” detto questo, cadde all’indietro, giù dal letto e corse verso l’armadio. Dopo qualche secondo di attesa e di borbottii “Tipo, prima i pantaloni erano qui…” uscì fuori con i suoi indumenti di tutti i giorni: pantaloni alla spagnola rossi, maglia di cotone a maniche lunghe e larghe bianca decorata al petto con delle rose rosse e un fiocco del medesimo colore, infine degli stivali lunghi da caccia. Era un vestiario molto patriottico, niente da dire. Liet, se avesse dovuto ricordare Polska in un modo particolare, lo avrebbe fatto con quei vestiti addosso.

Lituania continuò a sbadigliare. Mentre il polacco si metteva gli stivali, lanciò un’occhiata tra l’incredulo e l’irritato verso l’amico, ancora addormentato.

“Liiiiiiiet!” si lamentò, sempre a bassa voce. Il lituano lo guardò storto.

“Polska, no, voglio dormire, sono già nel letto” disse, infagottandosi nelle coperte. Non udì nulla come risposta, sentì solo uno scalpitare di stivali e un braccio che lo strattonò fuori dal letto, senza le coperte. Polska ghignò, soddisfatto.

“Bene, ora sei fuori dal letto. Tipo, vestiti! Subito!” mentre Lituania si rimetteva in piedi, più assonnato che mai, Polska si era di nuovo gettato alla ricerca dei vestiti nel gigantesco armadio di quercia. Un secondo dopo, Polonia ritornò nel mondo degli assonnati lituani e lanciò sul letto che condividevano, di fianco a Liet, dei vestiti: pantaloni di pelle, stivali da caccia come quelli dell’amico, giacca celeste con dei ricami blu e un gilet scuro. Lituania aveva poca voglia di fare qualsiasi cosa, ma Polonia non era dello stesso avviso.

“Che c’è? Vuoi, tipo, che ti vesta io, come una cameriera?” chiese scherzoso. Liet decise di accontentarlo: Polska era testardo peggio di una mandria di muli. Si vestì con lo sguardo impaziente di Polonia addosso. Non ebbe nemmeno finito di sistemarsi, che il polacco lo afferrò per il polso e lo strattonò fuori dalla stanza, occhieggiando in cerca di passaggi senza guardie.

“Ma… ma dove stiamo andando?” chiese, sussurrando, mentre Polska si comportava alla pari di una spia in missione in territorio nemico. Lui gli ammiccò, sorridente.

“Mica te lo dico! È, tipo, una sorpresa!”

Ci volle più tempo del previsto per uscire fuori dal castello, pieno fino a scoppiare di guardie. Gli chiese, durante il tragitto, perché facesse tanto il sospettoso: era lui il padrone del castello, mica un assassino in fuga! Polonia rispose che la regina non ammetteva delle uscite di notte per colpa delle foreste piene di lupi, diceva lei. Ma era tutto falso, soggiunse il polacco. Lituania, nonostante ciò, tremava di paura. Infatti, arrivati di fronte alla foresta, Liet perse coraggio.

“Dai, ci sono tipo io, non ti faccio mangiare da nessuno, giuro!” gli ci volle poco per acconsentire e di riprendere per mano l’amico. Polska era la Polonia, era quella foresta, non lo avrebbe lasciato solo. Si fidava di lui.

Continuarono il tragitto. Il polacco andava sempre in quelle foreste che per il lituano erano degli specchi l’uno uguale all’altro. Erano grandi e possenti, sperdute nel verde e piene di rami e foglie, tanto da non poter vedere il cielo. Una volta Polonia lo aveva convinto ad andarci. Avevano passato tutta la giornata a perdersi in quel labirinto verde, mangiando mirtilli. A Polska era venuta la lingua e le labbra blu, tante ne aveva mangiate. Si erano divertiti.

Ora quella foresta sembrava un luogo stregato, senza luce né vita. Non credeva nelle streghe o nei folletti malvagi, ma aveva paura dei lupi: la storia della regina lo aveva preso tanto. Polska era veloce come un cerbiatto che saltellava da un ramo ad una roccia. Sembrava conoscere la strada a memoria. Questa cosa lo rese perplesso.

“Ma come fai a conoscere la strada? Non ci vedo niente, io” infatti inciampò un’altra volta in una pianta, ma non cadde a terra. Polonia, imperterrito, continuò la sua camminata saltellante e con le braccia all’infuori come un uccellino che tenta di spiccare il volo.

“Non hai mai avuto, tipo, la sensazione di conoscere il tuo paese palmo per palmo e di conoscerne gli odori e i profumi, nonostante tu non li abbia mai sentiti? Non hai mai visto, tipo, una tua foresta o un tuo ruscello per la prima volta, ma dirti ‘Hey, ma qui ci sono già stato!’?” Liet scosse la testa, pensando soltanto che aveva sonno e anche un po’ di freddo.

“Non credo che esista una cosa del genere, Polska” disse, abbozzando un sorriso, rendendosi conto della serietà del ragazzo soltanto dopo un po’. Da questo punto di vista non sapeva mai cosa pensava Polonia. Poteva per un secondo essere scherzoso, e poi serio, in un lampo. Il polacco saltò su una pietra. A malapena riusciva a riconoscere la schiena di Polska, figuriamoci il resto di quel labirinto di alberi.

“Secondo me è possibile. Te lo voglio dire: in questa foresta ci sono andato, tipo, quattro volte in vita mia” qui Liet sussultò “Ma sento di andare nella direzione giusta. È difficile da spiegare, ma è come, tipo, se la foresta mi dica dove andare e lo dica solo a me perché questi alberi sono parte di me, della mia nazione, del mio cuore. Per questo la foresta mi dice dove andare: ogni cosa qui fa parte di me, io faccio parte di lei e così, tipo… Ah, eccoci!” detto questo il polacco si lanciò in una corsa di fronte a sé.

Lituania ebbe un colpo, ma inseguì di corsa l’amico. Non voleva perdersi. Inciampò in un ramo e cadde a terra, sopra a del muschio. Ritornato in piedi, aveva perso di vista Polska. Ebbe un attacco di panico e iniziò una corsa contro il vento.

“Polska!” urlò.

“Liet, di qua!” rispose di fronte a sé l’amico. Continuò a correre, forte, col cuore nella gola e il panico nello stomaco.

“Polska, dove sei!?” si fermò, col l’ansia nelle orecchie.

“Di qua, Liet!” lo invitò una figura alla sua destra, sopra ad un grosso ceppo. Riconobbe dei pantaloni rossi. Rincorse la figura, fino alla cima di una collina. Il cuore continuò a pompare il panico, finché trovò il polacco, ansimante e con lo sguardo spensierato. Con un ultimo sforzo, appoggiò una mano sulla sua spalla sinistra. Aveva il fiato corto.

“Sei impazzito!? Mi hai…” un colpo di tosse “…fatto venire un infarto!” continuò a respirare affannosamente. Polska si voltò lentamente, ancora con sguardo estasiato. Senza avvertimenti lanciò un urlo da battaglia e si buttò addosso al lituano, facendolo cadere a terra, provando ad immobilizzarlo, ridendo come un pazzo.

“Ma che fai!? Sei…?!” s’interruppe udendo in lontananza un ululato sinistro ed inequivocabile. Non voleva fare il fifone, ma non voleva nemmeno morire per colpa dei lupi. Cercò di alzarsi, ma Polska glielo impedì.

“Tranquillo, è, tipo, il loro segnale. Fra poco ci siamo” Liet aveva gli occhi fuori dalle orbite.

“Ma non voglio morire!” piagnucolò.

“No! Non ci faranno del male: dicono agli altri del loro branco di non avvicinarsi alla nostra collina. Hanno, tipo, troppa paura” alle orecchie del moro, quello sembrava una presa in giro.

“St-stai scherzando…?” no, Polska era serissimo, anzi, si adagiò meglio sull’erba scura e piena di rugiada, fissando il cielo, in attesa. Quell’attesa era durata anche troppo per il lituano.

“Polska, ti prego, torniamo al castello, andiamo a dormire…” il polacco voltò la faccia corrucciata, offeso.

“Fra poco, tipo, inizia tutto!” dice, estasiato, chiudendo le palpebre.

Trzy… dwa… jeden!” il biondo, all’ultimo spalancò le iridi.

Come se gli fosse dato un vero segnale, dal cielo sfrecciò una scintilla bianca. Liet ebbe uno spasmo improvviso del corpo. Polska alzò lentamente le braccia e fece schioccare le dita. Altre due scintille bianche illuminarono il cielo. Lituania, disteso vicino all’amico, lo vide, per ultimo, tenere steso in aria un pugno e poi aprirlo di scatto. Una gigantesca esplosione di luci bianche illuminò gli occhi azzurri del lituano. Sembrava una battaglia: diverse scintille combattevano le une contro le altre, da destra verso sinistra, scontrandosi, toccandosi, picchiandosi fra loro. Il bianco illuminava il cielo, la foresta silenziosa sotto di loro, gli occhi increduli di Lituania e gli entusiasmati di Polonia.

La battaglia nei cieli susseguì imperterrita di loro, piccole nazioni. Le scintille creavano turbini come delle piccole navi incastrate in bizzarri mulinelli. Altre luci s’incastrarono nei vortici e s’impigliarono fra loro. Continuavano le loro acrobazie tra di loro, scontrandosi ed esplodendo al contatto coi loro fratelli.

Durante la battaglia, Liet si voltò meravigliato verso un Polska molto felice.

“S-sei un mago!” l’amico, in risposta, rise di cuore.

“No, solo ascolto bene: tipo, anche questo cielo è della mia nazione, è polacco, fa parte di me. Anche il cielo mi ha detto che ci sarebbe stato questo spettacolo. È stato, tipo, simpatico a suggerirmi di portarti qui” per un attimo Lituania ci credette, guardando i lampi bianchi tra i mulinelli d’aria.

“Vorrei… vorrei saperlo fare anch’io. Sarebbe fantastico riuscire ad ascoltare i boschi di casa mia” disse fra sé e sé, ma Polska, ovviamente, lo ascoltò.

“Hey questo non è niente per il mio migliore amico!” a Lituania si fermò il cuore. Si voltò di nuovo verso il polacco. Le luci bianche gli accarezzavano i capelli color grano e la pelle bianca.

“M-migliore amico…?”

“Certo! A te, tipo, sta bene?” chiese, sorridendo. Lituania, ancora meravigliato dallo spettacolo e dalla dichiarazione, annuì, più e più volte.

Passarono la notte a guardare la battaglia di luci. La mattina dopo, molto tardi, vennero ritrovati dalle guardie della regina, dormienti sull’erba. Ci vollero delle settimane a Polska per convincere la sovrana che una cosa del genere non l’avrebbe fatta mai più.

“Tanto se ricapita, usciamo fuori dalla finestra!”

 

 

 

 

 

 

 

Si sveglia con gli occhi stanchi e appannati. Alzando la testa, vede Estonia mentre si aggiusta gli occhiali. L’occhialuto, dal vetro dello specchio, lo vede.

“Buongiorno” dice, serioso e abbastanza preoccupato. Lo nota dai piccoli scatti che fa mentre si aggiusta i capelli.

“Ciao” risponde, assonnato, non ricordandosi del sogno. La preoccupazione di Estonia è più che evidente.

“Sarà meglio muoversi: Ucraina è venuta qui per dirci di svegliarci. Russia è preoccupato: è tardi” lancia uno sguardo veloce al pendolo di fianco alla scrivania: le dieci meno un quarto. Lituania si sveglia completamente e si veste più in fretta possibile.

Raggiungono la sala da pranzo, con i restanti componenti dell’Unione. Arrivati, vengono notati. Il primo è Russia, sorridente, abbassa la tazza di tè.

“Buongiorno, dormito bene?” chiede, ingenuamente, come se fossero amici. Estonia scatta sull’attenti, nervoso.

“Mi scusi, signor Russia. Avremmo dovuto…” il capofamiglia alza una mano, in segno di negazione.

“Nessun problema, avete già svolto tutti i vostri compiti ieri, mi ero solo preoccupato per il vostro ritardo” dice questo, fermando gli occhi con un po’ troppa insistenza su Lituania. Riprende il sorriso “Su, mangiate! Ucraina è una bravissima cuoca, dopotutto” sorride dolcemente alla sorella maggiore. La più grande arrossisce, colpendo fraternamente il russo, come a convincerlo del contrario. Bielorussia alza lo sguardo brevemente, solo per adocchiare un’occhiata gelosa verso il fratello. I due Baltici si siedono ai loro posti, vicino ad un Lettonia impegnato nel sgranocchiare una frittella di patate.

Seduto a capotavola, Lituania si rende conto di non aver mangiato per più di due giorni. Il profumo delle frittelle lo risveglia, insieme all’odore di marmellata di ciliegie nere. Gli viene l’acquolina in bocca. Estonia aveva già infilzato con la forchetta tre frittelle alla volta, con sguardo affamato. Russia, Bielorussia e Ucraina parlano fra di loro, felici. I Baltici sono in silenzio, non hanno mai nulla da dirsi.

Ora Lettonia si è concentrato sul suo tè. Avvicina il cucchiaio allo zucchero e lo immerge nella coppetta. Lituania lo osserva silenziosamente, iniziando a mangiare una quarta frittella spalmata di marmellata di fragole. Si sente molto meglio e non pensa a Polska. Si sente in pace, per una volta dopo tutti quei giorni. Lettonia alza il cucchiaio completamente pieno di zucchero e, lentamente, lo avvicina alla tazza. Per sbaglio fa un movimento brusco e ne getta una striscia sul tavolo.

“…!” cerca di trovare una soluzione veloce al suo pasticcio. Estonia sospira. Lituania continua ad osservare i granelli bianchi sulla tavola scura. Lettonia, accidentalmente, ha formato con lo zucchero una sorta di striscia orizzontale che sfuma col nero del tavolo. Sembra quasi una luce in un cielo nero. Lituania strabuzza gli occhi, ricordando ciò che aveva sognato.

 

“S-sei un mago!”

 

La forchetta cade dalle sue dita e tocca il piatto, producendo uno tonfo acuto. Il suo stomaco inizia a protestare e a stringersi su sé stesso.

 

“Questa sera, tipo, ti avevo detto di restare sveglio fino a quando le guardie non se ne sarebbero andate. Così, per uscire fuori, tipo!”

 

Si afferra la pancia, piega la testa verso il piatto e geme, sofferente. Fa troppo male. Fa male, tanto male.

Estonia e Lettonia notano la faccia pallida del fratello.

“L-Lituania, cos’hai?” chiede Estonia, sinceramente preoccupato.

Il cuore sta per esplodere.

 

“Hey questo non è niente per il mio migliore amico!”

“M-migliore amico…?”

“Certo! A te, tipo, sta bene?”

 

Si preme una mano sulla bocca. Le labbra sputano saliva. L’altra mano è ancora agguantata sullo stomaco, implorandogli di fermare le sue lamentele. I due Baltici alzano le sopracciglia, impallidiscono. Estonia si alza in piedi. Gli tende una mano.

“Lituania, oddio, stai bene?” chiede di fretta, avvicinandosi ancor di più al moro. Non fa in tempo a sfiorarlo che Lituania ha un sobbalzo e un rivolo di saliva acerba scende dal suo guanto. Anche i tre dall’altro capo della tavola hanno notato lo strano comportamento del lituano. Lettonia sussulta.

“Lituania…” un altro scoppio di saliva dalla sua bocca. Incredibilmente, Ucraina corre verso di loro.

“Caro, vieni, veloce” lo afferra per le spalle e lo costringe in piedi. Riesce a reggersi sulle gambe, la saliva diventa acerba e senza sapore. La donna lo trascina in cucina e lo mette a sedere su una cassa di fragole. Non fa in tempo ad accomodarsi che Ucraina trova un vecchio secchio e lo getta, agitata, di fronte al viso di Lituania. Glielo sorregge.

“Vomita, caro, sputa” e lo fa. Anzi, rivolta tutto il suo stomaco là dentro. Rigurgita tutta la colazione, le frittelle, la marmellata e il delizioso tè nero con le ciliegie. Sputa gli ultimi avanzi rimasti tra i denti. Respira affannosamente. La donna gli sfila lentamente i guanti sporchi e gli infila nel lavabo là vicino. Gli accarezza la schiena, comprensiva. Tutto il cibo che gli aveva riempito la pancia ora è un miscuglio di saliva e poltiglia.

“Cielo, lo sapevo che avrei dovuto aggiungere poco zucchero! Mi dispiace tanto, caro…”

Si copre gli occhi con le mani, gemendo. La donna non capisce, ma non è importante.

Comincia a piangere, ricordando i particolari di quel sogno.

 

 

 

 

 

Da quel giorno non si ristabilisce mai del tutto.

Si sente incredibilmente triste, col cuore pesante come un macigno. Il corpo continua a reagire, ma stancamente, senza alcuna voglia di muoversi. Si sente a pezzi. Si rende conto, per la prima volta, dopo tutte quelle settimane, che Polska gli manca.

Gli riaffiorano altri ricordi del polacco. Forse erano anche negativi, ma gli mancano, con tutto il suo cuore. Gli erano sempre mancati, in realtà. Ma prima aveva sempre sperato di poter riviverli. Ora non c’è alcuna speranza di essere libero.

Mentre spolvera il comodino della stanza di Russia, si chiede dove possano essere i resti di Polska.

In effetti, ricorda, non aveva mai chiesto a nessuno dove fosse il suo cadavere. Ha un veloce ricordo degli occhi sbarrati dell’amico. Deglutisce e continua il suo lavoro, passando al cassettone. La stanza di Russia è in ordine già di sé, non c’è quasi alcun bisogno di spolverare nulla. Anche nei cassetti, sulla scrivania, per terra, tutto completamente in ordine, come se non ci abitasse nessuno in quella stanza. Ma quel giorno, Russia gli ha chiesto di mettere in ordine la sua stanza. Infatti lo osserva, con sguardo infantile, sbarrando con la sua gigantesca statura l’unica via d’uscita di quella stanza, come se tema che il lituano possa scappare. Lituania si alza da terra non appena finisce di spolverare anche la libreria.

“È tutto?” chiede con occhi stanchi. Non ha la forza di aggiunge alle sue parole ‘signore’. È da tempo che non riesce a chiamare in qualche modo Russia.

“No, hai dimenticato il baule. Là in fondo, Lituania” indica un grosso baule lontano dalla porta d’uscita. Lituania lo osserva distaccato, ricordandosi solo in quel momento di non averlo nemmeno notato. Annuisce, ancor più stanco e si avvicina nella zona più buia di quella cella. Il baule al tatto è sporco, dev’essere molto più sudicio di quel che sembra. Avvicina ad esso lo straccio e comincia a passarlo sul legno. Russia, senza essersene accorto, si è avvicinato a lui e gli tiene ferma la spalla, con delicatezza, come se avesse paura di rompere qualche osso.

“Lituania, credo sia meglio iniziare dall’interno. È un vero disastro…” afferma, come se si vergognasse lui stesso del suo baule. Lituania con la coda dell’occhio vede il sorriso del russo allargarsi di più. In quel mentre, ha una brutta sensazione. Sente la stanza chiudersi su sé stessa, imprigionandolo insieme al mostro dietro di lui. Vista l’esitazione del ragazzo, Russia, con una lentezza allarmante, comincia ad alzare con l’indice le chiusure, come se fosse un forziere piratesco pieno di tesori. Lituania ha un brivido lungo la schiena. Russia si sposta di lato, permettendo alla luce di toccare quel punto della stanza.

“Prego” dice, abbozzando un sorriso zuccheroso. Il lituano esita ancora, desiderando di correre fuori dalla stanza, velocemente, colto da una fitta di terrore. Alza il coperchio del baule, di scatto, volendo chiudere quell’atmosfera disturbante. La luce entra dentro al baule. I suoi occhi ritornarono in vita, ma non in meglio. Russia si avvicina, gigante, affianco a lui.

“Il sangue si è rappreso, ma continua a scorrere. Ha macchiato tutto il baule…” dice tristemente, come se il corpo di Polska fosse un’ingombrante cesta di panni sporchi.

Si stringe con le ginocchia al petto, il corpo. È ancora sporco di terra e liquido scarlatto, non l’ha nemmeno pulito. Una mano è gettata sulla spalla, l’altra al volto. Gli occhi si sono spalancati di nuovo, fissano la parete di legno scuro del baule come se fosse una creatura immonda. Il cuore di Lituania si accascia sullo stomaco, ricevuto il colpo.

Non ce la fa più. Non vuole più ricordare Polska, se vederlo e ricordarlo significa stare così male. Avrebbe voluto non vederlo dopo così tanto tempo e in quello stato. Lo stomaco si irrigidisce sentendo l’odore di sangue penetrare nelle narici. La mano di Russia si accanisce sulle palpebre del polacco, sbuffando.

“Si riaprono sempre, sembra che non voglia dormire” dice, imbronciandosi un po’, come se Polska fosse un bambino disubbidiente. Lituania sente il cuore scoppiare, batte troppo forte.

“Non l’avete fatto veramente…” sussurra con voce inclinata. Sta per piangere, i suoi occhi sono zuppi e umidi. Non può fargli così male. Non può non importargli di un povero soldato morto in guerra.

“Non so di cosa tu stia parlando” sorride caldamente. Il suo sorriso gli fa girare la testa. Volta rudemente il corpo a pancia in su. Il lituano geme per quel movimento brusco. Non può continuare a fargli del male anche da morto. Russia si china vicino a lui. Anche in ginocchio è un gigante in suo confronto.

“Questo baule è sporco, Lituania, devi pulirlo” dice, come se Polska sia trasparente. Si sente male, sente la saliva acre e senza sapore. Continua a gemere. Per Russia questo non è importante. Continua il suo lavoro imperterrito, come se stesse spostando una bambola dal suo lettuccio. Toglie i bottoni, gli strappa, mentre il lituano implora coi gemiti di smettere di importunare il povero polacco. Aveva visto molte facce di Russia e non avrebbe mai voluto vedere questa. Anche la maglia zuppa di rosso sotto la divisa viene rudemente fatta a pezzi, mostrando la carne rossa e scura. Gli occhi di Lituania si scuotono.

“È peggio di quel che pensavo. Sai, sono un disastro nelle pulizie” dice, mortificato. Non è vero, questa stanza è dannatamente pulita, ruggisce una vocina nella testa del ragazzo, molto più coraggiosa del restante subconscio tremante e sconvolto. Russia ispeziona ancor più attentamente la carne scoperta, come se non fosse niente di più che un fagotto di stracci. Abbassa la testa di lato, con sguardo amareggiato, come se stia parlando di qualsiasi cosa, tranne di quel che stanno guardando. 

“Non ci potevo credere che sarebbe rimasto in piedi fino alla fine. Polonia è stato molto stupido a voler tornare a Varsavia per salvare la capitale” il corpo di Lituania sobbalza. Le mani di Russia iniziano a sfiorare il collo del polacco, scendendo verso il petto “Eravamo circa quarantamila, Germania e Prussia inclusi, contro poco più di settecento soldati polacchi” il labbro di Lituania trema “Avevamo bombardieri, carri armati, aerei da guerra… Loro soltanto un kalashnikov per squadra e dei cavalli” la sua risata gioviale si percuote nelle sue orecchie. Lituania vuole andare via. Vuole uscire da quella stanza buia e piena di sangue. Vuole che quella stanza non lo soffochi. Vuole soltanto che Russia chiuda la bocca e tenga le mani lontano dal petto stracciato di Polska. Trema, nemmeno se ne accorge.

“Io e i miei soldati eravamo arrivati negli ultimi giorni. Dovevamo sgombrare le città e rinchiudere i civili. Ero a Varsavia. Era distrutta, bombardata e morta. Non c’era un gatto nelle strade. L’ho trovato tra dei cocci di vetro. Era ridotto ad uno straccio” un’altra risata calda e bollente “Non ci siamo detti molto. Non si voleva arrendere. Aveva anche detto qualcosa… ah! Ora ricordo: ‘Preferisco morire in piedi, piuttosto che piegare la testa di fronte a te’” Lituania ha un altro spasmo.

 

“Preferirei morire in battaglia, piuttosto che sottomettermi a qualcuno che non sia me stesso”

 

Ricorda il suo sorriso e come gli aveva ammiccato. Ricorda che gli aveva riso per la faccia stranita che aveva in quel momento. Aveva riso con lui. Delle lacrime bruciano sulle guance del lituano. Russia lo nota, ma lo ignora, o forse vorrebbe che piangesse. Le sue mani si fermano tra le macchie rosse e nere del petto.

“Era una bella risposta, ma non ero lì per parlare con lui. Ho dato l’ordine di sparare e i miei uomini l’hanno colpito qui…” le mani allargano una ferita sul fianco sinistro, particolarmente sanguinolenta. Lituania lascia un gemito sconvolto. Le dita giocano all’interno della ferita come in una tasca, fino ad afferrare un piccolo proiettile. Lo mostra al lituano, felice come un bambino che trova il suo regalo di Natale. Getta quell’oggettino sporco ed umido nel suo grembo. Gli occhi di Russia sembrano più luminosi.

“Poi qui… qui… qui… qui… e anche qui…” dice, facendo lo stesso, amaro e straziante procedimento. Infila le dita nelle lesioni, strappa pezzi di carne, fa fuoriuscire il sangue come cascate rosse. Ogni proiettile, poi, cade in grembo al ragazzo. Lituania poggia una mano sulla bocca. Le lacrime sfregano la pelle del collo. Bruciano come il suo cuore.

“Non voleva cadere. Restava ancora in piedi e mi guardava sofferente” dice, come se raccontasse una vecchia guerra passata e noiosa “Allora mi sono ricordato che per uccidere una Nazione, bisogna essere una Nazione. Che cosa stupida, me n’ero completamente dimenticato!” osserva le sue dita luride di sangue, senza un vero e proprio pensiero su di esse. Lituania si chiede se per tutti quei giorni, quelle settimane, Polska sia stato dentro quello spazio stretto ed ingombrante. Vedere le costole fuoriuscire dal petto gli fa credere di si “Allora ho preso in mano una pistola…” con la mano imita il gesto di una pistola che punta al piccolo petto del lituano. Per la prima volta i loro occhi s’incrociano. Russia ha lo sguardo vuoto, concentrato sulla narrazione “e… Boom...! Polonia è morto. Più o meno come te” sorride.

Lituania respira affannosamente, come se avesse ricevuto per davvero un colpo di pistola al petto. È incredulo. La mano cerca qualcosa su cui appoggiarsi, anche in ginocchio ha paura di cadere. L’unica cosa che trova è lo stesso baule umido e scuro. I suoi occhi lentamente si voltano dal sorriso di Russia a ciò su cui si sta appoggiando. Gli trema il labbro, altre lacrime gli scorrono sulle guance: il baule ha sputato e continua a sputare sangue rossiccio. Volta la mano, per osservarla meglio. Si, è sangue e ne è pieno anche sulla sua mano. Il cuore sta per scoppiargli nella gola. Russia ritorna in piedi.

“Comunque, non voglio più darti fastidio. Lo sposto subito, così potrai continuare il tuo lavoro” le sue gigantesche mani afferrano le costole spaccate di Polska. Lituania si volta di scatto.

“D-Dove lo porta…?” chiede, col fiato corto. Russia tira fuori il corpo. Non gli risponde. Afferra la mantella stracciata del polacco e inizia a trascinarlo fuori dalla stanza. La testa di Polska cade all’indietro, si vede il pomo d’Adamo sporgere. Lascia una scia di sangue rappreso sul pavimento. Lituania chiede spiegazioni con lo sguardo. Russia non risponde ancora. Si rimette goffamente in piedi. Un ricordo lontano gli fa spalancare gli occhi.

 

“…tutte queste morti sono state veramente fatte da Russia…?”

“Si, Lettonia, purtroppo si…”

“Ah… Chissà quanti cadaveri… Ma che fine hanno fatto, poi, secondo voi?”

“Io… non lo so, forse li hanno lasciati lì, a marcire. O li hanno buttati nelle foreste. La Russia è gigantesca, no?”

“No, Lituania. So che fine hanno fatto… è una cosa brutta, però. Per quanto ho capito, i cosacchi russi avevano trasportato lontano tutti i cadaveri e li avevano portati nelle macellerie. Alla fine sono stati scuoiati e la carne è stata venduta ai paesi asiatici. Non si erano accorti di nulla, tanto…”

“…”

“Eh?! No, dai, secondo me non è vero!”

“Già. Russia non può permettere una cosa del genere nella sua Nazione!”

“…ne siete certi?”

 

Uno spillo d’argento si conficca nel suo cuore. Non sa nemmeno come si sente, sa solo che vuole impedire qualsiasi cosa voglia fare Russia con quel corpo. Corre fuori dalla stanza buia e raggiunge a metà corridoio il russo, molto più sereno di lui. Il corpo ha continuato a lasciare dietro di sé tracce di sangue. Si para di fronte a Russia. Dopo tanto tempo, ha paura di lui.

“Dove lo sta portando?” chiede con una voce più sicura della prima. Il gigante inclina la testa, alzando le spalle.

“Questo non dovrebbe interessarti, Lituania” marca il suo nome come se fosse una bestemmia. Il suo sorriso si allarga, interessato e sorpreso dell’atteggiamento del suo servitore. Continua a camminare, portandosi dietro il corpo. La stoffa della divisa sporca graffia il pavimento bianco e dorato. Lituania cerca di fermarlo.

“La prego, si fermi! Almeno gli troviamo un posto dove portarlo!” gli tremano le mani, scosse da pesanti brividi di paura. Russia fissa Lituania come farebbe un bambino annoiato.

“Lituania, smettila, torna a svolgere i tuoi compiti” sorride, come per confortarlo, come se volesse vedere il lituano ai suoi piedi.

Si, Russia è geloso. È la Nazione più potente al mondo. Vuole tutto e tutti inginocchiati di fronte a sé. Ma vuole anche una famiglia che un tempo aveva, ma che poi ha perduto col passare dei secoli. L’ha ritrovata, ma sente come se l’avesse perduta. C’era un tempo in cui definiva la sua poverissima vita, quella insieme alle sorelle, un periodo felice. Povero, ma felice. Era felice di vivere con le sue sorelle, il piccolo Russia. Le amava. Erano la sua famiglia e lo sono anche ora. Ma, ora che è diventato una potente Nazione, vuole di più. È stata una fortuna costruire l’Unione Sovietica, così come è stata una fortuna avere in casa, oltre a loro tre fratelli, anche i Baltici.

Non sono ancora una famiglia forte e unita, ma sono già in sei e questo, per il momento, basta. Lituania è il suo preferito. Lui è diverso. Aveva una speranza, un sogno, dei desideri, non come i suoi fratelli che chinano la testa appena lo vedono avvicinarsi a loro. I due Baltici già non avevano altro a cui pensare che all’Unione Sovietica, ma non Lituania. L’aveva sentito nelle varie conversazioni al telefono: lui e Polonia sognavano di tornare ai vecchi tempi, volevano costruire una casa, anche piccola, per loro due, per vivere liberi e felici, come lo sono stati un tempo.

Russia soffriva e voleva Lituania.

Lituania soffriva, ma aveva una speranza: Polonia. Avrebbero potuto scappare e vivere lontani da lì e da chiunque. Potevano stare insieme, soltanto il polacco e il lituano.

A Russia questa cosa non piaceva.

Lituania era suo, Polonia non doveva nemmeno parlargli.

Polonia era sempre felice e questa felicità la trasmetteva a Lituania.

Russia piangeva di nascosto, perché ciò che desiderava si allontanava sempre di più.

Russia voleva Lituania, ma Lituania voleva Polonia. Per questo l’ha ucciso, lui stesso.

Prussia e Germania volevano che sopravvivesse, volevano il suo territorio, non un cadavere bucato dai proiettili. Russia gli aveva detto che quello è stato un incidente, che non voleva farlo veramente. Ha mentito e i due fratelli non hanno indagato, presi per il futuro, per le nuove conquiste.

Lituania non aveva più Polonia e soffriva, ma Russia era tranquillo, lo avrebbe dimenticato subito.

Ma le settimane, i mesi passavano e Lituania non dimenticava.

Aveva spento l’unico sole del ragazzo e ora lui stava lentamente morendo.

Russia era felice, convinto che il suo obbiettivo si sarebbe avverato.

Ma Lituania era triste e Russia non voleva più aspettare.

Per questo gli ha mostrato il suo sole. Gli ha mostrato quanto sia stato stupido e patetico, il suo amico. Spera che Lituania lo capisca. Spera che il ragazzo possa capire che i morti non possono più tornare in vita.

Lituania, però, non capisce e Russia sta per arrabbiarsi. Si butta in ginocchio, di fronte a lui, con la testa che tocca il pavimento. Il russo è più che sorpreso.

“La prego, vi scongiuro… Lo dia a me. Sotterriamolo, facciamogli una croce” singhiozza “Lei… lei è ortodosso, ma lui no… io sono cattolico… So come fare un funerale cattolico… Per favore… Farò qualsiasi cosa desidera…” continua a piangere. Il russo rimane in silenzio, ancor più che interessato. Gli muore il sorriso. Lituania alza la testa da terra con uno scatto. Gli occhi rossi sono affogati nelle lacrime.

“Gliene prego! Farò ogni cosa vogliate! Le…” un’altra scossa “…darò tutto quello che vuole!” altre lacrime e Russia è insensibile. Si avvicina al lituano, trascinando ancora il polacco.

“Ma cosa dici, Lituania?” un pizzico di speranza accende la mente del ragazzo “Tu sei mio. Stai già facendo tutto quello che voglio e mi stai già dando tutto quello che desidero” dice, amorevolmente, come farebbe una madre per rincuorare il proprio bambino. Il cuore di Lituania si sbriciola in tanti piccoli pezzettini. Non si è mai sentito più in gabbia di così.

L’aveva sempre saputo, sin da quando entrò nell’Unione Sovietica: lui era in una gabbia dorata, un uccellino intrappolato e abusato dal suo padroncino capriccioso. L’aveva sempre saputo, ma ora questa certezza gli è più chiara. È come se per tutto quel tempo avesse avuto sopra gli occhi un velo, grazie al quale riusciva a vedere l’ambiente che lo circondava e capiva ciò che stava accadendo intorno a sé, ma non riusciva a vederlo perfettamente. Ora quel velo è scomparso, ora il lituano vede quel mondo molto più chiaramente di come facesse prima. Il velo è sparito e Lituania vede bene, ma vorrebbe ritornare cieco.

Russia ha continuato la sua camminata lungo il corridoio, ignorandolo. Lituania non lo vuole accettare, non vuole essere un cardellino in gabbia. Non vuole morire lì dentro. Non vuole che Polska muoia così com’è morto lui. Per questo urla e si getta sul corpo dell’amico. Col suo peso vuole fermare il gigante. Ma Russia è molto forte, troppo forte e lo trascina ugualmente.

Lituania urla e stringe a sé Polonia. Non vuole che lo tocchi, non vuole che lo trascini in quel modo bruto, come se non valesse nulla. Per questo afferra il bottone della mantella e lo strappa.

Il cadavere e Lituania non sono più trascinati da Russia. Lituania stringe a sé la testa e il petto di Polska, come una madre che protegge il suo bambino. Lo avvolge tra le sue braccia, schiaccia le sue costole rotte e si sporca del suo sangue, ma almeno Russia non lo sta toccando. Il gigante lo fissa annoiato. Ignora le sue urla e prova a staccarlo dai resti del polacco, invano. Lui urla e chiede aiuto, invoca Dio, cosa che non ha mai fatto in vita sua, supplica di non toccarlo. Russia non lo ascolta e passa alle maniere forti.

Dalle altre stanze si sente ogni cosa, ogni urlo, ogni pianto. Bielorussia e Ucraina si trovano dall’altra parte della casa, cucinano, non sentono nulla. Estonia e Lettonia si affacciano sul corridoio e rimangono increduli. Russia, nel cercare di staccare il lituano dal cadavere, lo strattona violentemente per la spalla, quasi sul punto di romperla. Ma le urla non cessano, non sono di dolore, ma di supplica. I due Baltici vedono il cadavere, sono impietriti. Russia, nonostante tutto, non vuole far del male a Lituania. Più calmo di chiunque altro, si volta verso i due ragazzini.

“Estonia, Lettonia, vi dispiacerebbe aiutarmi?” chiede, come un’innocente richiesta. I due Baltici si voltano, turbati, verso il fratello. Anche lui volta il viso, verso i due fratellini, tenendo Polska fra le braccia.

“Vi prego, aiutatemi!” supplica, tra le lacrime e gli occhi rossi. Estonia è sbigottito, Lettonia abbassa le sopracciglia. Russia comincia ad innervosirsi. Si volta di nuovo, con un cipiglio irritato.

“Estonia, Lettonia, aiutatemi, ora!” non ci riflettono nemmeno un secondo.

I due Baltici si gettano sul fratello e con forza provano a strattonarlo via da Polonia. Il lituano urla e sferra pugni ai due, impazzito per la paura e la rabbia. Non vuole separarsi da Polska. Al terzo strattone, i due Baltici si ritrovano il fratello urlante fra le braccia. Russia, indifferente per la confusione creata da lui stesso e dalle urla di Lituania, volge un sorriso mortificato ai due.

“Mi spiace di aver sporcato il pavimento, avete lavorato così tanto…” Lituania cerca di avventarsi sul cadavere, ma invano “Oggi siete liberi, ragazzi. Mi spiace aver rovinato il vostro lavoro. Ci penserò io, più tardi” i due increduli cuciono sulle labbra un sorriso, mentre il fratello maggiore chiede, ora arrabbiato, di essere liberato. Piange e supplica di lasciarlo andare, ora tra le lacrime.

“Si, signor Russia!” esclamano in coro, cercando di vincere quella prova di coraggio. Perdono entrambi.

Trascinano Lituania nella loro stanza, che tocca quello stesso corridoio. Appena entrati, chiudono la porta a chiave. Estonia la nasconde, Lituania non sa dove, non l’ha visto. Lettonia prende un ceffone involontario dal fratello impazzito. Cade e sbatte la testa. Si fa male, ma non pensa a lui. Lituania sembra una bestia arrabbiata e sofferente. Si avventa sul secondo fratello e lo prende per il collo, con una forza immonda.

“Fammi uscire! Fammi uscire, Estonia!” urla, stringe più forte la presa, come se volesse ucciderlo per davvero, uno dei suoi falsi fratelli, che non l’hanno mai aiutato, mai. Per una volta aveva creduto in loro, ma aveva sbagliato. Non vuole più comprendere, vuole solo uscire da lì. E vedere Polska.

“L-Lituania, fai male. Lituania, basta!” piange anche lui, terrorizzato più di lui che di Russia. Lituania non vuole più avere compassione.

“Dammi la chiave! Dammela!”

“Non posso, Lituania…”

“Fammi uscire! Polska…!” Lituania, in realtà, non è cattivo. Non è un mostro, non vuole fare davvero del male. È solo un ragazzo e vuole solo uscire da lì. Quindi, lascia Estonia e si mette in ginocchio, con le mani giunte, come se stesse invocando un angelo.

“Estonia, ti supplico. Devo fermalo. Polska morirà” gli occhi di Estonia tremano per l’incredulità e, probabilmente, anche per la paura. Lituania gli afferra la manica della giacca blu, gli occhi azzurri si scontrano con i suoi blu.

“Ti prego, Estonia. Ti… ti prego” stringe ancora di più la manica, come se cercasse un minimo di amore fraterno con quel gesto “Fammi uscire, Estonia. Per favore…!” il volto di Estonia si fa ancora più scuro, combattuto tra la pietà e la futura ira di Russia nel caso volesse accontentare il lituano. Le mani del moro tremano, gli occhi gonfi.

“Ti prego…!” non l’avrebbe aiutato, mai.

Un secondo velo cade dagli occhi di Lituania. Sapeva che i Baltici fossero dei falsi fratelli. Non erano mai stati uniti, nemmeno lui ha mai dato fede ai due fratelli. Avevano avuto una fratellanza forzata all’interno di quella casa. Nei primi tempi erano uniti di fronte all’ira imprevedibile di Russia. Se qualcuno di loro soffriva, anche gli altri ne prendevano la piccola parte. Ma loro erano dei falsi fratelli, man a mano si erano separati. Se qualcuno veniva spezzato in due, gli altri due tiravano un sospiro di sollievo. Si ricordò delle innumerevoli volte in cui aveva fatto da scudo ai due Baltici, sperando di avere qualcosa in cambio da loro. Riceveva solo più colpi e frustate.

Soprattutto in quegli anni ne prendeva ancor di più da Russia. Era diventato il suo preferito, il suo giocattolo più amato. Non ridevano di lui, ma quando il padrone di casa si sfogava con Lituania e non con loro, erano felici e rilassati: per alcuni giorni Russia non si sarebbe arrabbiato con nessuno di loro.

Lituania era diventato il giocattolo di Russia e Lettonia ed Estonia erano calmi e tranquilli, non erano loro le vittime.

Lituania soffriva, ma non pensava ai due fratelli: aveva Polonia, a lui importava di lui.

Ma ora Lituania non ha nessuno e chiede aiuto ai due fratelli.

Estonia e Lettonia non sanno come aiutarlo e non fanno nulla.

Lituania piange e rinuncia, Estonia si rilassa.

Ma Lettonia è piccolo e anche lui vuole un fratello. Anche lui la pensa come Lituania. Ora non vuole un fratello. Vuole solo che Lituania stia meglio. Gli fa male vederlo così, il più forte dei tre, così infelice e distrutto. Lettonia si avvicina, piange con Lituania. Lo abbraccia da dietro, mortificato.

“Mi dispiace!” dice al fratello. Lituania non lo sente.

Caccia la testa all’indietro e lancia un urlo di disperazione, come un lupo che ulula per la morte dei propri cuccioli.

Piange Lituania, perché ha perso il suo migliore amico, il suo sole, e la sua speranza di fuggire da quella prigione dorata.

Piange Lettonia, perché spera di avere dei fratelli, ma nemmeno i suoi lo vogliono.

Piange Estonia, perché non sa cosa fare. Perché non vorrebbe più vedere Lituania in quello stato. Perché, per una volta, vorrebbe che Lituania condividesse il suo dolore con loro. Per questo lo abbraccia anche lui, per questo gli accarezza i capelli, cercando di calmarlo.

Polonia fantasma guarda quella scena, muto, occhi sbarrati e tremanti, bocca semiaperta. È incredulo, spaventato e atterrito. Vorrebbe abbracciare anche lui Liet. Toris, sulla sua spalla, guarda la scena, serio e taciturno.

Lituania si svuota dalle lacrime e il suo cuore si spezza in due.

  
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