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Autore: Sheep01    13/10/2015    6 recensioni
E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.
Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti ne aveva visti tanti, certo. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.
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Atlanta: un misterioso esperimento scientifico si conclude bruscamente con un incidente dalle conseguenze inaspettate.
Nel giro di pochi giorni, un'epidemia mondiale prende a serpeggiare per il paese, cominciando a decimare la popolazione...
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 29

 

“Ho lottato con la morte. È la contesa meno eccitante che si possa immaginare. Avviene in un grigiore impalpabile, con nulla sotto i piedi, con nulla intorno, senza spettatori, senza clamore, senza gloria, senza il grande desiderio della vittoria, senza la grande paura della sconfitta, in un clima malsano di tiepido scetticismo, senza molta fede nella propria causa, e ancor meno in quella dell'avversario.”

(Cuore di Tenebra – Joseph Conrad)

 

*

 

Non fu facile ricostruire, uno dopo l’altro, gli avvenimenti di quelle ultime ore.

 

Avevano visto esplodere i laboratori di Atlanta, la deflagrazione a portarsi via tutto quello che aveva generato il caos che aveva cambiato il mondo.

Le mura di cemento ormai ridotte a cenere e polvere. Una pira funeraria. A disperdere le grida di migliaia di Ganasce, a portare simbolicamente verso il cielo tutte quelle anime a cui finalmente era stata restituita la pace.

 

In termini religiosi, era sempre stato convinto che quelle fossero tutte stronzate.

Non esisteva l’inferno, non il paradiso.

L’unico inferno era quello che erano costretti a vivere ogni giorno. E il paradiso aveva imparato a trovarlo nelle cose più semplici: un materasso comodo, una tazza di caffè caldo. Il profumo dell’aria che porta la pioggia. E i piedi asciutti. Il sorriso di un bambino che ha deciso di darci un taglio con gli strilli.

Aveva compreso che le Ganasce non erano niente altro che fantasmi di esseri umani. Né peggiori, né migliori di chi era loro sopravvissuto. Solo persone che avevano avuto la sfortuna di lasciarci per primi le penne. O forse solo un branco di fortunati figli di puttana che non erano stati costretti a vedere che schifo di latrina fosse diventato il mondo, in quegli ultimi mesi.

 

Avevano visto la cortina di fumo disperdersi e poi aprirsi sotto la spinta di un mostro verde dagli occhi buoni.

Avevano visto cadere ai loro piedi quelli che sembravano solo la copia sbiancata dalla polvere dei calcinacci di un Clint Barton e una Natasha Romanoff decisamente poco in forma.

Ma vivi.

 

Così come avevano visto tornare il gigante biondo, reduce di una disperata battaglia dalla quale non era uscito vincitore. Gli occhi colmi di infinita tristezza: trascinava tra le braccia il fragile corpo di una compagna che non avrebbe mai più riaperto gli occhi.

 

Avevano assistito alla trasformazione di Bruce Banner. Lo avevano sentito riconoscere il pianto della figlia, le fattezze della moglie.

Betty aveva riaperto gli occhi l’attimo esatto in cui si era sentita chiamare per nome.

Le emozioni avrebbero finito per sopraffarlo di nuovo. Ma per una volta tanto, nessuno sembrò preoccuparsene veramente.

 

E poi avevano sentito il rombo di molti motori.

L’arrivo di un numero indefinito di camionette che vomitarono all’esterno almeno una trentina di persone.

Tutte in fila, come in un’atmosfera da rigido ambiente militare.

 

Avevano visto il Capitano Steve Rogers incespicare sui suoi stessi piedi. Correre incontro a quella sottospecie di battaglione d’assalto. Divenire di burro e sciogliersi in un abbraccio che sorprese un po’ tutti: la donna che stava stringendo fra le braccia sembrava appena uscita da una vecchia pellicola di Hollywood degli anni Cinquanta. Qualcosa che avrebbe alimentato persino le sue fantasie romantiche.

“Peggy…” la chiamava. E nessuno si diede la pena di interromperli per chiedere spiegazioni a riguardo.

 

Nessuno aveva più rivisto Loki.

 

E poi tutto era diventato confuso, frenetico.

Sembrava che improvvisamente ci fossero troppe cose da fare, da sistemare, ma sorprendentemente nessuno sembrò doversi preoccupare di niente.

Ci sarebbero stati altri a concludere determinate faccende per loro.

 

I militari avevano eretto un avamposto. Provvisorio, non lontano da Atlanta.

Si sarebbero presi cura di loro, prima di procedere con il trasferimento verso Washington, dove, a quanto pareva, avevano allestito la città dei sogni. Quella che tutti loro avevano sperato di trovare ad Atlanta, ma che aveva finito per trasformarsi nel loro peggior incubo.

 

Dal canto suo… pensò che così stanco, in vita sua, non lo era stato mai. Nemmeno durante le ore passate a sconfiggere fetide piogge asiatiche, gli anni della guerra.

Pensare più spesso al passato che al futuro è solo il metro di giudizio per avvisarti che sei diventato vecchio.

Si rasserenò ragionando sul fatto che, dopotutto, non era una sensazione così spiacevole. Se non altro invecchiare significava essere ancora… vivi?

“Sceriffo Fury… ?”

Il letto su cui lo avevano adagiato però risultava abbastanza comodo. Dopo tutte quelle settimane su materassi fatti di coperte o pagliericci, pareva persino un peccato lamentarsi.

Alzò lo sguardo solo per vedere entrare la donna stupenda dall’aspetto squisitamente retrò.

I lunghi capelli raccolti in una morbida crocchia.

“E lei deve essere la famosa Peggy…”

“Famosa non saprei, ma sì, quello è il mio nome.”

Non era sicuro di aver mai sentito parlare di lei, ma l’appassionato richiamo di Rogers era ancora piuttosto vivido nella sua mente. E Peggy era indubbiamente il suo nome.

“È qui per dirmi che sto per morire?”

“Se fossi un medico… ma non lo sono. E lei non sembra stare poi così male.”

“Questo lo dice lei…”

“Spero sia abbastanza in forma per sapere che stiamo organizzando il suo trasferimento…”

“Oh bella e dove andrei, di grazia? Credevo che i tempi della villeggiatura fossero finiti da un pezzo.”

“Washington. Pensavo che qualcuno si fosse preoccupato di avvisarla.”

“Non credo di essere così importante per un annuncio in pompa magna”, cercò di rimettersi seduto compostamente: le membra tutte gridarono in protesta, affatto in accordo con la sua volontà, “ma se può farla sentire meglio, ho sentito parlare alcuni dei suoi uomini mentre fingevo di dormire, un paio di ore fa. L’isola felice ora si trova a Washington.”

La vide sorridere, di un bel sorriso caldo. Forse tutto ciò che gli serviva al momento per sentirsi meglio.

“Qualcosa del genere.”

“E noi che ci siamo affannati tanto per arrivare a quella cazzo di trappola di Atlanta. In realtà ci si è affannato più il suo fidanzato…”

“Il mio… ?”

“Rogers.”

La donna non rispose, ma non gli ci volle molto per capire che probabilmente le cose fra loro non erano del tutto chiare.

“Dunque cosa è successo in tutti questi mesi? Eravamo convinti che a Washington non ci fosse più nessuno. A furia di mandare militari al sud…”

Peggy scrollò le spalle.

“Washington è ancora una città fantasma. Il perimetro militare che siamo riusciti a erigere a Fort McNair ha solo assicurato la sopravvivenza dei reduci”, la vide scrollare le spalle, “i militari inviati da tutti i distretti degli Stati Uniti d’America, successivamente alla partenza del Capitano Rogers… hanno trovato asilo laggiù.”

“Significa che a Washington troveremo solo militari?”

“No, non solo militari. La voce si è estesa… abbiamo registrato l’arrivo di diversi civili le prime settimane, dopo il contagio. Poi, improvvisamente, l’esodo si è esaurito.” Un velo di tristezza nella sua voce stava a significare che probabilmente le possibilità che arrivassero altre persone a rinfoltire il fortino erano decisamente scarse.

“Quanti siete laggiù?” domandò con cautela, nella mente adesso una serie indescrivibile di domande. Si sforzò di non farle fiorire tutte insieme.

“Quattrocento persone fra civili e militari.”

“Woah… credo di non aver visto così tante persone dal… non so più nemmeno che giorno è oggi.”

“Il quindici settembre.”

“Quindici settembre.” Fece qualche calcolo mentale, decretando che dovevano essere passati a malapena quattro mesi dalla fine del mondo così come lo conoscevano, eppure gli sembrava ormai essere passata una vita intera. Se gli avessero chiesto cosa aveva fatto in quegli ultimi cinque anni, avrebbe risposto che non aveva fatto altro che abbattere Ganasce. Quando invece… solo qualche mese prima era preoccupato di cosa avrebbe dovuto fare una volta in pensione.

“Come mai avete deciso di spostarvi a sud?” la seconda domanda, quella che gli parve più coerente con la conversazione.

“Abbiamo captato un segnale radio, poco più di due mesi fa.”

“Ad Albany?”

“Nei pressi di Atlanta, sì.”

Fury sorrise all’idea che i suoi tentativi di impedire alle persone di scappare ad Atlanta avessero finito invece per attirare più militari e civili di quanti ne avesse previsti.

“Avreste potuto ignorare il segnale. Voglio dire… rinunciare così all’isola felice per catapultarvi in una missione che avrebbe potuto non portare niente di buono.”

“Ci abbiamo pensato molto a lungo, infatti.” Fury sorrise appena alla sua schiettezza. “Per giorni e poi settimane. Siamo andati in avanscoperta in città ben più vicine di Atlanta. Sperando di trovare altre persone, qualcuno che potesse essere sopravvissuto in un modo o nell’altro… ma dopo un paio di settimane di ricerche inconsistenti abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza che… non c’era più nessuno da salvare. Lo scenario là fuori è estremamente desolante ormai. Marciatori ovunque. Desolazione e morte. Niente altro.” Lo guardò per un lungo istante. “E poi abbiamo preso una decisione. Dovevamo tentare. Sapevamo dove andare a cercare. Abbiamo solo sperato di trovarvi ancora vivi.”

Marciatori. Loro li chiamavano marciatori. Improvvisamente gli mancò la voce di Barney che cercava di istruire i ragazzi a chiamare Ganasce quei mostri. Con l’approvazione di quel fenomeno di Stark, per giunta.

“E dire che avreste potuto trovarvi ad Atlanta proprio nel bel mezzo di un’esplosione.”

“Bè, i vostri amici alla fattoria si sono assicurati di avvisarci.”

“Come stanno? Tutti quanti, voglio dire”, le domandò allora, improvvisamente rianimato dal ricordo che, in quello scenario, non erano i soli ad aver rischiato qualcosa.

“I sopravvissuti… meglio di quanto non stia lei. Ho avuto modo di fare due chiacchiere con alcuni di loro. Il professor Selvig e la professoressa Foster ci saranno molto utili. Potranno unirsi ad altri scienziati che si stanno occupando della cosa a Washington.”

“Per cercare un vaccino?”

“Proprio così. Le ricerche si sono sviluppate in modo straordinario. Alcuni casi di influenza sono stati completamente debellati.”

“Questo significa che si può… guarire… ?”

“Dalle febbre, sì. Dai morsi dei Marciatori… ci stiamo ancora lavorando. Il dottor Banner potrebbe essere la nostra chiave di… volta. Lui e sua figlia.”

“Sua figlia?”

“Da una prima analisi sembra che… anche lei possieda dei geni straordinariamente… mutati. Mi hanno raccontato storie… su come riesce ad approcciarsi ai Marciatori. È plausibile pensare che al momento del concepimento il dottor Banner fosse già stato in parte contagiato dagli esperimenti di Atlanta. E abbia passato certe caratteristiche… alla figlia.”

Fury lanciò a Peggy uno sguardo strano. L’idea che potessero giocare con Erin per le loro strampalate sperimentazioni lo infastidì, ma si trovò a pensare che, se credevano che quella di Erin che teneva lontane le Ganasce fosse la storia più straordinaria che avrebbero avuto da raccontare dei loro giorni in Georgia, si sbagliavano di grosso.

Riuscì comunque, sotto quello strato di preoccupazione, a percepire il sollievo come non gli capitava da mesi, da anni. La sensazione che finalmente qualcosa di buono potesse nascere da tutto quel mare di merda fu, per la prima volta, così forte e inebriante da strappargli una risata. O qualcosa che ci si avvicinava. In modo pacato. Dopotutto non gli aveva certo detto che il mondo era tornato quello di una volta. Non che forse lo preferisse.

“Mi dica che è tutto frutto di un elaborato piano governativo, se il mondo è andato a puttane. Anzi no, non me lo dica”, ritrattò, ancora divertito, “per i pochi anni che mi restano da vivere… preferirei credere che fosse solo arrivato il momento per la razza umana di avere il punto e a capo che si meritava.”

“Una sorta di selezione naturale?”

“Qualcosa del genere. Potrei fingere di essere uno dei miracolati.”

“Ma lei è uno dei miracolati.” Sottolineò la donna con un sorriso.

“Se vogliamo metterla in questi termini. Sta sicuramente meglio lei di me… signorina Peggy.”

“Forse ora…” la voce si fece appena cupa, “ma ci sono stati giorni in cui credevo che non sarei sopravvissuta all’influenza.”

Fury si trovò a guardarla con altri occhi ora. Era veramente stata contagiata dall’influenza ed era sopravvissuta per raccontarlo? La prova vivente dell’esistenza del vaccino? Come se quelli ascoltati  fino a quel momento non fossero solo dicerie e racconti dalla voce di una sconosciuta.

Sentirono un rumore all’ingresso della tenda, che Nick stava ancora cercando di processare tutte quelle informazioni.

E, quando vide sbucare il volto sorridente di Betty Ross, decise che magari avrebbe potuto pensarci più tardi.

Piccole porzioni di quel suo personale paradiso. Toccava godersele al momento giusto.

 

*

 

“Sto bene, vi ho detto! Non ho bisogno di tutta questa roba addosso!”

Stark si era già rimesso in piedi.

Ci mancavano solo quei due medici militari pazzoidi a dirgli quello che doveva o non doveva fare: Testa di Cavolo con il berretto e Baffetto da Sparviero con le orecchie a parabola.

“Capo, sei ancora convalescente, non dovresti agitarti in questa maniera!” protestò Happy che cercava di coprire le pudenda del suo ormai ex datore di lavoro, mentre lui tentava di strapparsi dal braccio una fastidiosa flebo.

Come se fosse davvero quello il problema principe dell’intera faccenda.

Il problema – adesso che stava fissando uno specchio che gli rimandava il riflesso della sua malandata immagine – poteva essere riassunto in: quando gli avevano infilato quella orribile vestaglietta, tanto per dirne una?

“Voglio andare da Pepper”, ed ecco la seconda importante questione. Quella decisamente più importante del suo bel paio di chiappe al vento. Che per la cronaca non erano poi così male, viste da una certa prospettiva.

“Signor Stark, per favore… non dovrebbe muoversi.”

Baffetto da Sparviero avrebbe dovuto farsi gli affari suoi. Lui, da Pepper, ci doveva andare. Gli avevano assicurato che stava bene, che la febbre era scesa, ma era da più di quarantotto ore che non la vedeva e gli sembrava sacrosanto voler constatare con i suoi occhi il suo stato di salute.

Intervenne anche Testa di Cavolo, giusto per portare un po’ di brio all’avvenimento.

“Lo diciamo per il suo bene…”

“Il mio bene, il suo bene, il vostro bene… perché ognuno non bada ai suoi, di problemi? Tanto per cominciare: a che diavolo ti serve un berretto?” puntò il dito su Testa di Cavolo, “Devi ripararti dal sole?”

“Signore?”

“Fa parte dell’abbigliamento militare, Stark…” quella voce: l’avrebbe riconosciuta fra mille. Non che ci fossero effettivamente mille persone fra le cui iniziare una conta, “e dire che eravamo tutti convinti che un proiettile in gola sarebbe stato in grado di zittirti per un po’.”

“Capitano Rogers, quale onore…” si rimise seduto sul letto, mentre Happy cercava di sistemargli la vestaglietta per evitare visioni a luci rosse.

“Dovresti dare ascolto ai medici dello staff.”

“Quale staff? Testa di Cavolo e Baffetto da Sparviero?” ma dovette interrompersi sul più bello per via di un capogiro piuttosto violento.

Furono di nuovo le braccia di Testa di Cavolo a sorreggerlo da un’imminente caduta.

“Visto?” disse Rogers, intrecciando le braccia al petto, mentre si godeva lo spettacolo.

“Non azzardarti a dire: te lo avevo detto, Rogers.”

Se non altro il ragazzone ebbe il buonsenso di alzare le mani a mo’ di resa, invece di iniziare la sua patriottica ramanzina. Quell’ambiente sembrava avergli fatto bene. Forse perché si sentiva a casa. O magari era solo merito della donna che indossava un paio di straordinari occhi da cerbiatta e labbra carnose  e che rispondeva al nome di Peggy Carter.

“Dov’è Pepper?” decise di insistere sull’unico punto su cui nessuno avrebbe potuto impedirgli di spingere.

“Nella tenda accanto.”

“E come sta?”

“Meglio. La febbre sembra essere scesa definitivamente.”

“Com’è che sai più tu della mia fidanzata che io della tua?” aggiunse per mascherare il sollievo ben più che evidente che adesso gli animava lo sguardo e il volto tutto.

“Stark…”

“Okay, okay…” stavolta fu il suo turno quello di arrendersi una volta per tutte, “vorrei solo poterla vedere per qualche minuto.”

Rogers alzò uno sguardo su Testa di Cavolo e Baffetto bla bla e li vide finalmente annuire una sola volta.

“Cos’era quello? Un segnale segretissimo per i militari super spia anti Ganasce?”

“Sto cercando di fare qualcosa per te, Stark, perché non riesci a stare zitto per mezzo secondo?”

L’istante successivo entrò in scena quella che aveva tutta l’aria di essere una sedia a rotelle.

“Wow… quante ne avete là dentro?”

“Una. Ma se non taci ti ci faccio arrivare sui gomiti, dalla tua fidanzata.”

Alzò la mani e si arrese all’evidenza (oltre che al mal di gola che lo affliggeva da ore) che probabilmente quelle persone non avevano ancora chiaro cosa significasse per lui quel giorno.

Essere sopravvissuti ad Atlanta. Essere tornati vivi.

Aver mantenuto la promessa che aveva fatto a Pepper. Soprattutto aver mantenuto la promessa fatta a Pepper.

 

La donna era stata sistemata in una tenda a parte. A quanto pareva avevano allestito una sorta di quarantena, nonostante le sue condizioni fossero adesso apparentemente stabili, nonostante  l’assicurazione che, dopo di lei, nessuno si era più ammalato di quella febbre venefica. Una misura precauzionale, così l’avevano chiamata. A Stark sembrò persino inutile convincerli del contrario.

Quando le fu di fronte, finalmente, capelli biondi sparpagliati sul cuscino, guancia rosee e viso rilassato, le parole gli mancarono davvero per qualche secondo e, sebbene fosse certo che Rogers fosse disposto a godersi lo spettacolo di uno Stark ammutolito, li lasciò soli dopo averlo sistemato accanto al letto della donna.

La vide aprire gli occhi e scostarsi i capelli dal viso e finalmente rivolgergli tutta la sua stanca attenzione.

“Hai mantenuto la promessa…” la sentì esordire, la voce ancora affaticata ma tranquilla.

“Ci è mancato tanto così che tornassi a pezzi ma… mi hanno assicurato che resterà solo una cicatrice, credo.”

“Meglio una cicatrice che niente… testa.”

“Sono sicuro che qualcuno avrebbe preferito il contrario…” lo sguardo andò a perdersi dove era appena sparito Rogers.

“Io invece credo che dovresti cominciare… a scendere a patti con il fatto che piaci a questa gente.”

Le lanciò uno sguardo perplesso: “Tu dici?”

“Ho sentito parlare di te e del successo della bomba. C’era del serio entusiasmo nei tuoi confronti. E Rogers si è preoccupato di farti avere le prime cure mediche… in assoluto.”

Stark scosse la testa: “Caro ragazzo, mi sembrava di essere stato chiaro sul fatto che fra noi non può funzionare…”

Sì sentì tirare un pizzico sul braccio e dovette fingere di cucirsi le labbra.

“Sarà bene, Tony. Perché ho già stilato mentalmente una lista per il nostro famoso viaggio di nozze.”

A quanto pareva, c’era ancora una promessa da onorare.

Straordinariamente non ne fu spaventato.

 

*

 

La benda che gli avevano legato attorno alla testa lo faceva sembrare un coglione.

Un coglione con un’acconciatura da perfetto reduce militare, considerato che i vestiti che gli avevano magnanimamente dato in prestito, dovevano esser stati ripescati da qualche vecchio scatolone di cianfrusaglie appartenute alle matricole: una maglia verde e un paio di larghi pantaloni in tinta. I tasconi laterali, se non altro, avrebbero potuto essergli utili se avesse voluto rubare qualcosa, lì dentro. Non che si aspettasse di trovare effettivamente qualcosa di più di qualche cerotto, in una tenda di due metri per due. Si passò una mano sulla testa, cercando fra ciuffi di capelli biondi che se ne andavano un po’ da tutte le parti, sfuggendo al controllo della straordinaria quantità di bende che avevano usato per tenere a bada… un presunto trauma cranico.

Clint pensò che ventiquattro ore di quella tortura fossero sufficienti per sbarazzarsene senza autorizzazione.

Soprattutto ora che quei militari, che non avevano fatto altro che andarsene avanti e indietro per tutta la mattina, sembravano avergli dato una tregua.

Era ancora a metà dell’operazione quando Natasha entrò nel suo campo visivo. Il vederla in piedi, sulle sue gambe, lo dissuase dal proseguire con lo scempio del lavoro fatto dagli infermieri. Per darsi almeno il tempo di accertarsi che stesse davvero bene come gli avevano detto.

Anche a lei non era stata risparmiata la tortura di quell’abbigliamento da soldatino. Con la sola differenza che sembrava una bambina finita per sbaglio nei vestiti dei genitori.

“Me la dai una mano a sbarazzarmi di questa roba?” le chiese invece, le dita incastrate in un nodo che non riusciva a vedere.

La vide avvicinarsi senza una parola, le dita che andavano a prendere il posto delle sue, per sciogliere i nodi, disfare bende.

“Come ti senti?” le dovette proprio chiedere, lì a un centimetro dal suo viso, prima di vedersi piantare addosso i suoi occhi verdi.

“Meglio della tua testa sicuramente.” Il sorriso che ne seguì fu tutto ciò che gli servì come rassicurazione.

Quando vide cadere definitivamente la benda a terra sentì la testa più leggera.

“È messa così male?”

“Vuoi dire a parte la ferita da cui si intravede il cervello?”

“Cosa?!”

La vide sbuffare una risata, mentre si toccava la fronte per trovarci solo un grosso, enorme bozzo, coperto da un cerotto.

“Divertente...”

“È il mio secondo nome… non te lo avevo mai detto?”

“… e di buon umore. Contenta di essere viva, Romanoff?” 

La vide tornare a farsi seria e, per un istante, si pentì dell’infelice uscita. Non era sua intenzione rinfacciarle un bel niente. Tanto meno il fatto di averle salvato la pelle poco prima che i laboratori scientifici facessero un botto straordinario.

Le aveva letto in faccia lo stupore, il rimprovero e il sollievo quando era letteralmente volato nella stanza dove lei se ne stava placidamente abbracciata a una bomba distruttiva.

Ma ciò che non era ancora riuscito a perdonarle era il fatto di averle letto in faccia che era pronta a morire. L’unica cosa che era riuscita a destabilizzarlo a tal punto da spingerlo a non cercarla prima di quel momento.

Gli aveva chiesto di fidarsi di lei. Ed era comunque già pronta a morire. A lasciarlo solo.

Natasha però sembrava essere sempre un passo avanti a lui, e nemmeno in quel momento volle smentire quell’abilità tutta sua di sorprenderlo, perché quando la sentì prendergli la mano seppe che sarebbe corsa a chiarire tutti i suoi stupidi dubbi.

“Sì…” gli disse solo, “sono felice… di essere viva.”

Nel momento esatto in cui pronunciò quelle parole riuscì a percepirne il peso. La solennità.

E tutto ciò che era sicuro non sarebbe riuscito a perdonarle svanì così come l’aveva scioccamente formulato nella sua testa.

Le prese il viso fra le mani, le accarezzò i capelli e la baciò, per ricordarsi quanto stupido fosse e quanto precaria e breve era la vita per sprecarla in irragionevoli fissazioni. Soprattutto con una donna come Natasha Romanoff.

“Ommioddio, allarme! Qui ci sono due Ganasce che si stanno succhiando via la faccia a vicenda!”

Esclamò qualcuno all’ingresso della tenda in cui erano sistemati e, improvvisamente, fu come se un blocco di ghiaccio gli fosse scivolato nello stomaco.

Scostò il viso da quello di Natasha e nello sguardo di lei riuscì a leggere lo stesso identico sconcerto.

Si voltarono entrambi, simultaneamente. E il blocco di ghiaccio divenne lava bollente sul viso, alla realizzazione che l’uomo che gli stava ora di fronte, con espressione sfrontata e zazzera rossa, non era altri che suo fratello Barney. In carne, ossa e moncherino.

“Che succede, sembra abbiate appena visto un fantasma.” Simulò guardandosi attorno con sguardo di terrore.

Clint sentì risalirgli addosso una quantità indefinita di emozioni che non riuscì a controllare. Era sicuro che gli sarebbe venuto da vomitare ma non fu certo di voler mostrare tanto platealmente il suo improvviso disagio.

Poi ci fu l’incredulità, quella che di colpo lo fece pentire di aver sottovalutato quel suo trauma cranico. E poi seguì la rabbia, incontrollabile, quella che in altre occasioni lo avrebbe spinto a corrergli incontro e mollargli un generoso gancio per sfogare su di lui tutta la frustrazione di quegli ultimi giorni; e infine fu il turno di un misto di sollievo e feroce euforia.

Fu quell’ultimo sentimento ad avere la meglio e si assicurò di essere sufficientemente stabile sulle gambe, prima di muoversi nella sua direzione. In silenzio, mortalmente in silenzio.

“Dai, Clint… volevo solo…” lo sentì dire, vagamente intimorito da quella reazione o mancanza di quest’ultima, ma non fu certo di volergli dare il tempo di proseguire.

Lo raggiunse in poche, misuratissime falcate. E probabilmente gli lanciò lo sguardo più terribile che avesse mai avuto occasione di sfoggiare. L’istante successivo si assicurò di stringere il fratello abbastanza forte da fargli capire quanto male gli avesse fatto la sua stupida decisione di andarsene e di lasciarlo in balia dei dubbi sul suo destino.

Solo quando lo sentì ricambiare con la stessa forza si rese conto di quanto male avesse dovuto fare anche a lui, quella decisione.

“Mi dispiace…” lo sentì sussurrare e cercò di tenere stretta a sé quella sensazione, perché per quanto fossero legati, Barney con lui non si era dovuto scusare mai.

Non seppe dire per quanto tempo rimasero fermi in mezzo alla stanza, ma improvvisamente ritrovò Natasha al suo fianco e Barney che aveva allungava una mano per trascinarla in quel circolo improvvisamente diventato affollatissimo.

“Eravamo convinti che tu fossi…” decise di averne avuto abbastanza e, stavolta, il pugno alla spalla (quella sana) prima di scostarsi non glielo risparmiò di proposito.

Serrò le labbra, cercando di ricacciare indietro le lacrime, mentre Barney nemmeno ci provava a trattenere le sue.

“… morto? Sì… anche io. Più spacciato che morto. Ma… vai a capire qual è l’opzione migliore.” Lo vide passarsi le mani sul viso, vagamente congestionato e guardarli adesso con un gran sorriso.

“Come ci sei finito qui?”

“Non ne ho… la più pallida… idea.” Commentò spassionatamente, “mi ci sono ritrovato. Mi hanno raccontato di avermi trovato per strada, mezzo moribondo. Mi hanno dato dell’antibiotico o qualcosa del genere e dopo qualche giorno di delirio… ero più sano di prima. Però la prima cosa che ho chiesto di mangiare è stata della carne. Pazzesco, no?”

“Credevo te ne fossi andato armato…”

“Già…” lo vide scuotere la testa, “non sono riuscito a farlo.”

Ci lesse tutta l’amarezza in quell’affermazione, ma non riuscì a empatizzare con lui. Fosse riuscito a farla finita sul serio, prima dell’arrivo dei suoi soccorritori, adesso non sarebbero stati lì a discuterne.

Un attacco di vigliaccheria che accettò come il più prezioso dei regali.

“Come stai… adesso?” domandò con una punta di apprensione che non riuscì proprio a trattenere.

Barney si passò una mano sulla spalla che non reggeva più alcun braccio.

“Bene. Davvero bene. Non si vede? Credevo che ti chiamassero Occhio di Falco per il tuo acume, ai tempi del circo…”

“Non mi ci chiamavano per il mio acume.”

“Di sicuro nemmeno per la mira…” lo prese in giro.

“Occhio di Falco?” si intromise Natasha, che ora lo guardava scettica e divertita insieme.

“Ho anche perso peso”, intervenne di nuovo Barney, “Poi mi sono ricordato che non avevo più almeno un chilo di braccio e sai… sono cose che ti fanno pensare a quanto sia relativo tutto quanto. Però dicono ci sia un militare a Washington a cui hanno rifilato un braccio di metallo… magari riesco a farmene regalare uno anche io.”

Clint sorrise: “È un discorso senza senso, lo sai vero?”

“Non molto se ci pensi. Spiegami cosa ha senso, di questi ultimi tempi, e vedrò di mettermi a fare discorsi sensati.”

“Tu non ne hai mai fatti di discorsi sensati.” Lo rimproverò, sentendo quella sensazione di stordimento che si prova solo quando improvvisi stati di ansia ti scivolano di dosso.

Forse si chiamavano endorfine. Forse non era necessario dar loro un nome.

“Anche questo è vero.” Lo sentì dire mentre passava il braccio attorno alle spalle di Natasha che non sembrava incline a esprimersi granché, ma che non aveva fatto altro che sorridere per tutto il tempo.

“Il trio si è riformato, bambini miei… e arrivati a questo punto è proprio il caso di dire: tutto è bene quel che finisce bene.”

“Le frasi fatte no, Barney.”

“Okay, allora… qualcosa come: larga è la foglia, stretta è la via…”

“Barney…”

“… ed io ho messo incinta Maria.” Concluse la rima.

Clint sgranò gli occhi.

“Che cosa?”

“… dite la vostra che io dico la mia?”

“Barney!”

“Dai, scherzavo!”

“Di Maria o della foglia?”

“Di… cosa c’entra la foglia?”

“Barney!”

“Oh, ma lo sapete che qui le Ganasce vengono chiamate Marciatori. Cioè, dai! Non sono mica in lizza per le selezioni alle Olimpiadi! Che razza di nome.”

“Barney, spiegami questa cosa di Maria.”

“Al massimo posso concedere il Marcioni di Wilson. O quell’acronimo imbecille di Stark, ma Marciatori!”

“Bernard!”

“Clinton?”

Il discorso proseguì a lungo prima di stabilire quale fosse la versione giusta della filastrocca. E per tutto il tempo, niente riuscì a fermare l’eco delle loro risate.

 

*

 

“Che diavolo sta succedendo là fuori?”

Betty aveva appena restituito a Bruce la bambina: era proprio sicura di aver sentito la voce di Barney a qualche tenda di distanza, o forse era solo quella di Clint Barton.

Quando tornò a guardare il marito, l’uomo teneva la bambina fra le mani così come si maneggia qualcosa di molto delicato. La teneva lontano dal petto, come fosse una bomba in procinto di esplodere.

“Non si rompe se la stringi di più.”

“Lo so…  è che… sembra stia per mettersi a piangere.”

“Deve imparare a conoscere suo padre. E’ normale. Per quello dovresti abbracciarla, si abituerà più facilmente alla tua presenza.”

“Sì… è che non vorrei che… sia a causa mia se le viene da piangere. Forse riesce a sentire…” lo vide fare una smorfia e un tentativo di rialzarsi dalla branda su cui l’avevano sistemato, come se volesse passarle di nuovo il testimone, “… lo scherzo della natura che sono diventato.”

Betty abbassò le mani, come a fargli capire che non era proprio sua intenzione assecondarlo.

“Non sei uno scherzo della natura, Bruce.”

“N-no? E allora come lo giustifichi tutto questo interesse medico nei miei confronti?”

“Stanno cercando una cura… ce lo hanno spiegato.”

“E’ questo che sono destinato ad essere da qui alla fine dei miei giorni?” lo vide alzare su di lei uno sguardo dolente, “solo un esperimento da laboratorio? Legato per sempre a una branda di un ospedale di fortuna, sempre a disposizione per l’ennesima trasfusione di sangue, a vedere la mia famiglia con il contagocce o a costringere lei ad essere un fenomeno da baraccone come il suo vecchio, solo perché porta gli stessi geni…”

“Bruce…” si abbassò al suo livello, cercando i suoi occhi con i propri, “non è quello che accadrà.”

“Come fai a dirlo? Potrei dovermi portare appresso questo fardello per sempre. Potrei costringere mia figlia a crescere con un padre che non è altro che un mostro…”

“Erin non ti vede come un mostro. Non ti vedrà mai come un mostro. Così come non lo faccio più io. Così come non lo hanno fatto più gli altri.”

Natasha Romanoff aveva capito che non lo era. Clint Barton aveva capito che non lo era. Steve Rogers lo aveva aiutato a tornare normale dopo la fuga dai laboratori in esplosione. E solo lei conosceva la delicatezza di quelle grandi mani che non avevano fatto altro che sbarazzarsi di Ganasce per proteggere la sua incolumità.

Erin trovò proprio il momento peggiore per esprimere il suo disappunto con una serie di singhiozzi piuttosto fastidiosi. E sul volto di Bruce si dipinse lo sconforto più acuto. Dolente.

“Prenditi la bambina…” lo sentì dire, esprimendo con aria eloquente quanto avesse finito per avere ragione.

Betty si rifiutò di cedere: scosse la testa e guardò la bambina un’ultima volta.

Forse era solo stanca. Forse affamata. Non avrebbe permesso a Bruce di abbattersi in quel modo. Non era lui l’uomo di cui si era innamorata. Non l’uomo che aveva sposato. L’uomo che non si era arreso a perderla nemmeno quando era scoppiata un’apocalisse zombie.

E poi, fu proprio mentre la bambina cominciava a singhiozzare disperata, come se davvero avesse visto qualcosa di mostruoso e il suo viso congestionato cominciò a divenire paonazzo, che Betty comprese.

Guardò Bruce, permettendo al suo cipiglio severo di sciogliersi in una risata.

“Credo che tua figlia se la sia solo fatta addosso, Bruce.” Disse.

“C-cosa?”

“Annusala e dimmi che non lo senti anche tu.”

Il dottore avvicinò con cautela il suo viso all’altezza del pannolino della bambina.

La smorfia di disgusto che ne seguì fu ben più eloquente di qualsiasi espressione vocale.

Un odore mostruoso.

Come sempre, un termine che era solo questione di prospettive.

 

*

 

Steve vide Maria Hill sfrecciare lungo il campo serale. Non ne era sicuro, ma per un attimo gli sembrò di sentirla pronunciare irripetibili epiteti rivolti a Barney Barton.

“Che donna…” commentò Sam al suo fianco, che – per quello che ne sapeva – aveva più o meno rivolto lo stesso appellativo a tutte le militari che si era ritrovato a incrociare da due giorni a quella parte.

Salvo per Peggy. Immaginò che Sam avesse deciso che era intoccabile. Non che Steve gli avesse mai espresso apertamente il suo eventuale disappunto, o Peggy avesse mai messo in chiaro che non voleva essere… tampinata. Non si erano mai fatti una promessa o qualcosa di simile. Però…

Recuperò una tazza di caffè solubile e ne prese un lungo sorso, sentendosene in qualche modo rinfrancato. Caffè solubile. Si chiese quanti beni di quel tipo avrebbero trovato a Washington.

Si trovò a pensare a come quello scenario sembrasse riportarlo indietro nel tempo. Ai giorni in cui stavano organizzando i gruppi verso Atlanta.

Si trovò a pensare al fallimento di quell’esodo e allo scherzo che il destino sembrava aver giocato loro solo un paio di settimane dopo che erano partiti per scappare da Washingotn e di come invece Washington stesse già premeditando la sua rinascita.

Mentre lui correva verso sud, cercando qualcosa che lo facesse sentire ancora utile. Vivo.

Non aveva risolto niente, dopotutto.

Niente eppure… tutto.

Gli occhi si posarono sul gruppo di persone con cui si era ritrovato a condividere quegli ultimi giorni. Le straordinarie coincidenze che li avevano uniti. Che li avevano spinti a collaborare.

Si trovò felice di constatare di non essersi pentito un solo istante di essersi imbattuto in loro.

Di aver permesso agli straordinari avvenimenti che ne erano seguiti di cambiare, per sempre, la sua visione del mondo. Ma, non meno importante, di recuperare ciò che credeva di aver perduto per sempre. Quell’impronunciabile parola che sembrava aver abbandonato.

Speranza.

“Ehi… non è Peggy quella?” Sam sembrò volerlo riportare a tutta forza alla realtà. Scongelarlo dai suoi ragionamenti.

La donna si stava allontanando fra le tende di fortuna, trafelata. Gli aveva detto che stava organizzando il campo per la partenza. L’indomani mattina probabilmente si sarebbero trovati tutti in viaggio per Washington. L’ultimo avamposto dell’umanità, così come era abituato a percepirla ormai.

Ancora non era sicuro di credere che fosse sopravvissuta davvero. Di averla riabbracciata meno di ventiquattro ore prima.

Gli aveva detto che le sorprese non erano finite. E quasi provò timore a sfidare di nuovo la sorte, a  rianimare quella scintilla di speranza che lo aveva sempre accompagnato. A pensare che a Washington ci sarebbe stato anche qualcun altro ad aspettarlo.

Eppure in quel momento gli sembrò tutto possibile. Stringeva fra le mani del caffè, era circondato dai suoi amici. E nessuna Ganascia era arrivata a turbare la quiete di quell’ultima sera in Georgia.

Inaspettatamente animato da una rapida decisione, passò a Wilson la sua tazza di caffè solubile e si rimise in piedi, improvvisamente consapevole che quella poteva essere l’ultima sera in cui avrebbe potuto trovare un po’ di tempo per stare da solo con lei.

“Dove vai?”

Non gli rispose se non con un mezzo sorriso. Si infilò la camicia nei pantaloni e si allontanò dal campo.

Non avrebbe sprecato un solo minuto di più solo a… sperare.

 

 

*

 

La campagna fuori da quell’improvvisato avamposto era silenziosa e pacifica. Straordinario il fatto che non una sola Ganascia si fosse presentata all’appello nelle poche ore che avevano stazionato lì.

Cecchini a non finire a controllare la zona, che avevano finito per rimanere disoccupati per tutti e due i giorni che erano rimasti fermi.

Thor scoprì di avere fame. Finalmente fame dopo un giorno di tenace digiuno.

Non per mancanza di volontà. Ma lo stomaco non aveva smesso un solo minuto di fargli un male del diavolo. Non da quando aveva dovuto seppellire Sif.

Il senso di colpa per non averle creduto, per aver permesso a Loki di fare il suo gioco. Di averlo sempre sostenuto… la storia aveva trovato la sua conclusione nel modo peggiore, il più crudele, il più definitivo.

Non l’avrebbe rivista mai più. Non da vivo almeno.

Si chiese se, per un attimo, avrebbe potuto forzarsi di credere al paradiso. O, per rendere onore ai nomi che lui e la sua squadra si erano scelti ormai anni orsono, a quel fantomatico Valhalla, citato nella mitologia norrena.

La residenza dei morti caduti gloriosamente in battaglia.

Una descrizione appropriata considerato come se ne era andata Sif. Come se ne erano andati tutti i suoi amici.

Li immaginò attraversare tutti insieme il fiume Thund. Arrivare a uno dei palazzi di Ásgarðr, varcarne la soglia. Sulle pareti della sala, oltre le lance degli antichi guerrieri norreni, avrebbero trovato le loro motociclette. Sul tetto, assieme agli scudi d’oro, i loro caschi, i cerchioni delle loro ruote. Presto si sarebbero presentati a Odino, pronti a ricevere la loro investitura. A partecipare ai festeggiamenti, alle giostre.

Sorrise. Il pensiero assurdo, consolante e straordinariamente vivido. Magari lo avrebbero aspettato, una volta arrivato il suo momento.

Magari…

Sedere fuori, in quel luogo fatto di silenzi, del soffio del vento, del gracchiare dei corvi, era riuscito a restituirgli una sorta di momentanea tranquillità.

Quando Jane venne a fargli compagnia si lasciò raccogliere la mano, senza opporre resistenza. E le fu grato per non sentirsi in obbligo di intrattenere una conversazione. Non subito almeno.

“Questa dovrebbe essere una conclusione, non è così?” le domandò dopo qualche istante, inspirando a fondo il profumo del grano maturo.

“Preferisco pensarlo come un nuovo inizio.”

“Credi che cambierà davvero qualcosa? In fondo… stiamo solo andando in un altro posto. Ma il mondo là fuori è ancora pieno di Ganasce…”

“Penso che ci vorrà molto tempo perché le cose migliorino… ma lo faranno, Thor.”

Si voltò a guardarla. E pensò che dopotutto aveva ragione.

“Donald…” le disse, “mi piace quando mi chiami Donald.”

La vita, così come adesso sarebbe stato invitato a viverla, era per i mortali.

Thor avrebbe aspettato di ricongiungersi a quegli amici che sicuramente lo avrebbero atteso con una coppa di vino, quando il suo tempo sarebbe giunto.

Donald era un vestito che si sentiva più a suo agio a indossare ora.

Si chiese, solo per un istante, se Loki fosse sopravvissuto o meno. All’ultimo sacrificio di Sif, all’esplosione.

Se avrebbe avuto il coraggio di tornare, se per chiedere perdono o solo conquistarsi  la sua vendetta.

Li avrebbe trovati pronti. Tutti quanti. Di questo non aveva alcun dubbio.

Seguì il volo di due corvi, prima di decidere che aveva aspettato troppo.

Baciò Jane Foster nella luce di un sole morente.

 

***

 

Washington, tre mesi dopo

 

Non era più abituato a ragionare in miglia.

Né in termini di tempo.

Né di dolore.

I piedi, ormai scarnificati, avevano smesso di essere un problema da un po’.

La braccia scheletriche. Il collo, il viso. Gli zigomi. I capelli corvini, sudici a coprire quello che più che una testa, sembrava solo un teschio.

L’odore costante, come di qualcosa che era andato a male. Nemmeno quello era più un problema.

Negli occhi e nella testa, ancora i colori vividi delle fiamme. Nelle orecchie, il fruscio costante, ovattato dell’esplosione.

Si fermò al limite della strada. A un miglio di quella che si presentava come una grossa, enorme muraglia.

Oltre quella, riusciva a percepire il respiro di centinaia di presenze. Vive.

Sorrise.

La notte e il suo gelo gli avvinghiavano le ossa e le membra tutte.

I piedi, un blocco di ghiaccio, affondati in almeno mezzo metro di neve.

Il silenzio irreale tutt’intorno se non per il cupo gracchiare di due corvi in volo.

Da qualche parte, a Fort McNair, una bambina cominciò a piangere.

E le luci di centinaia di fiammelle si accesero su tutto il perimetro come quelle di un albero di Natale.

 

Lo stavano aspettando.

 

Lanciò uno sguardo alle proprie spalle.

Scorse le impronte dei propri passi.

E oltre quelli… la processione silenziosa di milioni di Ganasce.

 

 

Fine.

 

___

 

Note:

E dopo la bellezza di un intero anno, anche questa storia è alfin giunta al suo epilogo! (Proprio durante la settimana in cui riprende The Walking Dead. Yay).

Il finale è aperto, libero a qualsiasi tipo di interpretazione. Io, per quanto mi riguarda, lascio a voi il compito di decidere come si concluderà il tutto. La mia idea ce l’ho. Ma la condividerò solo in privato (ahahahah).

Sono felice di essere riuscita a concludere una storia che mi ha dato non pochi problemi. Dal punto di vista organizzativo ed emotivo. Ho voluto cimentarmi con diversi personaggi con cui credevo di non avere affinità alcuna, e con i quali magari non ho tutt’ora. Ma sono libere interpretazioni di come li ho percepiti e sentiti, in questa storia. Non me ne voglia nessuno, se ho reso in modo poco onorevole i loro personaggi preferiti. Soprattutto il povero Loki che ha finito per essere il “cattivo assoluto” della storia. Ma è così che avevo deciso di usarlo e così che ho concluso il suo percorso. Anche se più che cattivo, mi piacerebbe definirlo vittima… degli eventi. Assicuro che se mi fosse stato antipatico, non lo avrei proprio infilato nel racconto. Perciò nessun rancore Loki. No, metti via lo scettro, plis! Non voglio fare la fine di Coulson! Tahiti wait for me.

Anyway… come dicevo siamo giunti alla fine e mi sono anche dimostrata meno crudele e più magnanima di quanto credessi. Alla fine mi piacciono i lieto fine, che cavolo posso farci? La vita fa già abbastanza schifo di suo.
Ed ora passiamo alla cosa che mi preme di più fare: i ringraziamenti. Per chi mi ha seguito dall’inizio, per chi si è unito tardi alla vacanza a Zombieland, a chi mi ha abbandonato, a chi ha letto silente, ma fedele. Quindi in particolare grazie a: Divergente Trasversale, Hermione Weasley, Alwaysmiling_, Perishable97, Blackmoody, Ragodoll_Cat, Eclisse Lunare, hikaru90, jodie_always, AThousandSuns, missgenius! (se ho scordato qualcuno, come sempre, sono disposta a ricevere reclami).

Poi di nuovo in particolare alla mia beta e socia Sere, nonché sempre Hermione Weasley, perché c’è sempre, legge sempre con entusiasmo tutte le mie vaccate e mi sopporta e supporta. Soprattutto le pippe mentali che mi partono sempre quando scrivo qualcosa. Sul Clintasha nemmeno devo specificarlo invece. È bello continuare a sclerare nel bene e nel male. Questa fanfic è passata proprio attraverso tutte le fasi di crisi di questa nostra tormentata passione Marvelliana. E l’ha superata (no, non la supereremo mai).
A proposito di Hermione Weasley, consiglio una fanfic che sta pubblicando or ora e che merita proprio. Se vi piacciono gli AU ambientati nel passato, la sua “Senza Rumore” fa per voi. Click click.

Ed è tutto. Davvero questa volta. Finalmente posso dedicare tutta la mia attenzione a Dark Rain. Quindi… direi che non ci sentiremo più qui, ma dall’altra parte. Da un mondo post apocalittico a un futuro distopico (più o meno), la prossima volta scriverò una storia ambientata in un bar zozzo di Detroit. No, scherzo. Ma chi può dirlo?

Grazie di nuovo a tutti quanti e… alla prossima!

  
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