Red
Alle distanze,
di qualsiasi colore siano.
Ho comprato un cappotto
rosso da Camomilla - metà del mio ultimo stipendio - solo perché
"il rosso fa risaltare la tua
pelle" hai detto una volta, quando ho rubato una felpa di quel colore dal
tuo armadio, dopo aver fatto la doccia, ‘che il tuo odore è sempre stato la
migliore delle ninne nanne.
Mi specchio in una vetrina e un ragazzo in
fila per i bratwurst mi fa l’occhiolino. Affondo il
viso nella sciarpa grigia e continuo a camminare. La vista è un po' appannata,
ho gli occhi lucidi per il freddo e le lenti a contatto, continuo a non
sopportare gli occhiali. Continuo a fare i capricci, per abitudine.
Ho il mio bel cappotto
rosso e mi sento un personaggio di una fiaba senza lupo (forse sono
io?), ho il mio bel cappotto rosso e ho
ancora freddo. Alla televisione hanno previsto neve questa settimana, io penso che
si possa congelare anche senza, se l’inverno ce l’hai nel petto.
L'appartamento in Schönhauser
Allee è incastrato al terzo piano di un palazzo di mattoni
rossi, identico agli altri dieci su ambedue i lati della strada. Il
numero 26 ha le finestre un po’ più piccole e storte, è un edificio post guerra
ricostruito alla buona ed è quanto una neolaureata inglese di 23 anni si possa
permettere.
I giardini sono fazzoletti di erba scura e
dura, su cui riposano biciclette
addormentante e gatti svegli, attenti. In estate qualche timida margherita
gialla prova ad adornare gli scalini dei portoni. Sono piccole, ma determinate.
Tutto sommato mi piace questa casa cosi piccola e disordinata. Va bene anche se
non ha uno stereo grande nel salone come la casa dei miei a Birmingham e se non
ha un dondolo in giardino su cui prendere il sole. Va bene perchè la
mia pelle è troppo pallida e non si abbronza,
prende quelle strane sfumature che mia madre scambiava per allergia i primi anni. Va bene anche se è fatta
per una persona soltanto. Meglio cosi, credo, non devo stare a guardare spazi
mai riempiti da qualcun altro. Va bene perchè è
abbastanza in centro, a 2 chilometri
dall’ufficio e 983 da te.
La logica è meno chiara di quanto sembri, bevo
direttamente dal cartone del latte e ripenso alle tue guance
rosse a gennaio, nascoste dal cappuccio della giacca. E’ la stessa tinta che prendono dopo la terza birra, prima che cominci
a cantare le sigle dei cartoni animati confondendole. Hanno il colore dei baci,
del sangue, dell’affetto che promette di non finire mai. Mi domando se sia
corretto pensarti al presente, se poi ho le tasche piene di verbi coniugati al
futuro che non c’è stato.
Forse è che il latte è rimasto fuori dal
frigo tutto il pomeriggio o che ancora non ho digerito questa necessità della distanza ma il mio stomaco protesta e sono già le
nove.
In fondo all’armadio c’è una valigia rossa che occupa troppo spazio, come i ricordi belli che non tornano, però. Da quando sono
qui non l’ho ancora aperta. Ci avevo messo dentro i miei maglioni e un paio di
stivali, qualche fotografia e la tua maglia delle partite di calcetto. Scusami, ma non so ancora se ce la
faccio. Scusami, ma ancora mi manchi.
Traccio un’altra x
sul calendario che oscilla, vorrei che bastasse e invece mi riempio le giornate
di cose inutili e la sera, se rifaccio i conti, non mi sono mossa di un
millimetro. Eppure sono andata via per vedere se davvero è più semplice far
finta che non importi più. Che vada tutto bene, che questo appartamento basti a
contenermi, che basti cambiare città e addormentarsi con gli occhi pieni dei tramonti rossi su Potsdamer
Platz invece dell’abbassarsi ritmico del tuo petto e
fare l’amore prima che cali la notte, la
sensazione della tua pelle bianca sotto le dita e sentirti sussurrare il mio
nome come se fosse l’unica cosa a cui puoi aggrapparti.
Mi sembrava un nome banale, da bambina, uno
di quello che cerchi di camuffare con nomignoli e abbreviazioni. Tra i tuoi
denti suonava come una poesia, col tuo accento irlandese e la voce bassa, il
timbro del nord e le vocali strette. Dolce, estremamente dolce. Qui il mio nome
è una pietra che buca lo stagno, un tonfo,
un grattare sulla carta, giochi di gola, suoni duri. Il mio nome rimbomba in un
soffio di r, l e a.
Pensavo bastasse e invece resta
quell'amaro, quel "forse abbiamo bisogno di starcene un po' distanti" che mi fischia nelle orecchie come
il vento che sbatte sulle ante, come la
preghiera che il sole affoghi e finisca un
altro giorno.
Ho smesso di guardarmi allo specchio. Era
piacevole, nelle mattine grigie e piovose dell’Inghilterra che era casa mia, studiare
questa struttura d’ossa e pelle che riuscivi
a distruggere e rimodellare respirandoci dentro, con le tue mani esperte e le
promesse sbronze e un po’ sbilenche. C’erano i graffi
delle tue unghie tonde sulla schiena e sul collo, autostrade che facevano
sempre gli stessi giri, opere d’arte. L’impronta dei denti, l’odore della tua bocca sui centimetri che avevi baciato, l’aroma delle
Lucky Strike tra i capelli e le farfalle nello stomaco.
Evito il mio riflesso, ho mangiato le
unghie fino alla pelle, le nocche violacee
per il freddo, la cicatrice sul fianco di
quella prova sul tuo motorino - che brutti scherzi a volte - che ha la forma
dell’iniziale del tuo nome, una N capovolta che graffia la pelle pallida e
morbida sulla vita.
Mi rannicchio nella vasca, tra le bottiglie
di bagnoschiuma e il flacone di shampoo a
metà. Cerco di afferrare l'aria e buttarla a
forza nei polmoni, ho alzato il volume del riscaldamento
e non riesco a fermare le mani che tremano. "É
meglio cosi. Finiamola adesso".
Due strisce
rosse sul bastoncino bianco che ho mano, due strisce
rosse e sei cosi lontano che se ci penso mi sanguina
il cuore.