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Autore: Dregova Tencligno    17/10/2015    1 recensioni
C’era una volta, ad Ao, un paese molto lontano circondato per tre quarti da montagne altissime con le vette sempre innevate e per un quarto circondato da un oceano color smeraldo, una famiglia di umili contadini che vivevano la loro giornata coltivando la terra, allevando gli animali e cibandosi con i frutti che lavoro, sudore e fatica avevano da offrire. Non era tanto, ma abbastanza per trascorrere sereni le stagioni che si alternavano senza fine, ma anche se non fosse stato diversamente non sarebbe mai nata in loro la paura perché avevano una ricchezza che li faceva sentire come i signori rinchiusi nei castelli.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Redhat e i sette Uomini - Lupo
 

 
 
C
’era una volta, ad Ao, un paese molto lontano circondato per tre quarti da montagne altissime con le vette sempre innevate e per un quarto circondato da un oceano color smeraldo, una famiglia di umili contadini che vivevano la loro giornata coltivando la terra, allevando gli animali e cibandosi con i frutti che lavoro, sudore e fatica avevano da offrire. Non era tanto, ma abbastanza per trascorrere sereni le stagioni che si alternavano senza fine, ma anche se non fosse stato diversamente non sarebbe mai nata in loro la paura perché avevano una ricchezza che li faceva sentire come i signori rinchiusi nei castelli.
Il loro tesoro era solare e sorridente, buono e giocoso e lo vedevamo crescere giorno dopo giorno superando le difficoltà della loro vita come se avessero il peso di piume anziché di terra dura da arare.
La luce dei loro occhi era un bambino che crebbe forte e sano, diventò un ragazzo che ai suoi diciotto anni d’età superava come animo qualsiasi altro uomo, correva più veloce di chiunque altro e più di chiunque altro era forte, qualità che non metteva mai a propria disposizione, per soddisfare piaceri di cui faceva a meno, ma a servizio di chi necessitava aiuto.
Non era amato solo dai suoi genitori, anche dai bambini delle fattorie vicine che vedevano in lui una sorta di fratello maggiore che aveva la straordinaria abilità di scacciare qualsiasi paura con l’utilizzo di dolci e rassicuranti parole. Tranquillizzava chi era spaventato dai mostri che si annidavano sotto ai letti e che scivolavano allo scoperto solo quando erano sul punto di addormentarsi. Ma c’era anche chi, al riparo dietro i tronchi scuri delle querce, riusciva ad andare oltre alla semplice apparenza scorgendo anche altro.
Il modo in cui lo vedeva differiva dagli altri, il suo cuore sussultava, le mani sudavano e nell’addome sentiva pungere uno sciame di calabroni che col loro veleno le intossicavano l’anima, si era innamorata e non poteva andare contro quello che sentiva.
Lo osservava da lontano gioendo per i suoi successi.
Qualche anno dopo, l’acerbo ragazzo divenne un uomo che superva qualsiasi ostacolo con le sue sole forze, ma ce n’era uno che non era proprio in grado di vincere: la sfida del suo cuore che lo batteva essendo un passo davanti a lui ogni volta che lo affrontava.
Da tempo aveva notato che i suoi allenamenti solitari, le sue giornate di lavoro, non erano poi così solitari. Non ci voleva un falco per scorgere dietro gli alberi quella ragazza dai capelli biondi e dagli occhi color miele che lo seguiva come uno spettro e un giorno d’inverno, quando oramai la presenza di quella donna era diventata necessaria perché altrimenti si sentiva perso, superò la sua paura e ammise a se stesso che era giunto il momento di donare il suo cuore a qualcuno. E chi meglio della donna che lo aveva seguito passo dopo passo, sempre presente nella sua vita?
Il ragazzo portava il nome di Zon, ma da tutti era soprannominato Nerolupo in quanto era forte ed agile come un lupo e nero per la sua pelle scura come il carbone.
Parlò della sua decisione con i suoi genitori, voleva chiedere al proprietario della fattoria ad ovest della loro la mano della figlia.
I genitori furono felici che il figlio avesse trovato qualcuna da amare e così gli augurarono buona fortuna e lo inviarono dall’altro signore non senza doni: una pecora, una forma di formaggio e dei pesci pescati la mattina stessa della sua partenza. Preparò un sacco e si incamminò tagliando per la foresta, voleva accorciare il tempo per far smettere al suo cuore di battere veloce come le ali di un colibrì.
La ragazza si chiamava Orchidea e tanto le era entrato quel nome nel cuore che ricamava quel fiore su tutti i suoi abiti pur di portalo sempre con sé, ma non era solo per questo che teneva tanto a quella parola, l’orchidea era anche il simbolo della madre, il marchio che riempiva tutti i fogli finali di tutti i libri appartenuti a colei che le aveva dato la vita. Una presenza che le era stata accanto per i primi pochi anni della sua vita e della quale sentiva la mancanza.
Era una donna molto dolce, ma anche molto timida, non parlava mai con nessuno e così suo padre si sorprese non poco nel sentirsi chiedere da Nerorso la mano della figlia che per lungo tempo aveva creduto malata. E in parte lo era. Orchidea era nata un giorno d’inverno scandito da un freddo glaciale che aveva congelato la voce della piccola bambina costretta a racchiudere tutti i suoi sentimenti in una dura crisalide dalle sfumature cerulee.
Il Signore ascoltò con attenzione la richiesta di Nerolupo e dopo aver accettato i doni più che graditi acconsentì al matrimonio con la gioia nel cuore e a metà primavera i due convolarono a nozze.
La funzione fu celebrata da un parroco proveniente da un piccolo villaggio a nord che era lo zio di Orchidea e che si sarebbe offeso grandemente se fosse stato un altro e non lui a unire quella giovane coppia nel sacro vincolo del matrimonio.
Com’era usanza, sia lo sposo che la sposa portarono in sacrificio per benedire la loro unione un oggetto importante per loro, qualcosa che esprimeva chi erano veramente. Zon sacrificò la coperta che lo aveva accolto quando era venuto al mondo, era la pelle di un lupo, e gli sembrò giusto che fosse proprio quella coperta che lo aveva scaldato da bambino a benedire il suo matrimonio; Orchidea portò una piccola veste che sua madre le aveva confezionato quando era bambina, un suo regalo prima di lasciare quella terra per essere accolta tra le braccia del Creatore. L’unico ricordo che aveva di lei, la cosa più preziosa che aveva e che le aveva insegnato il significato della parola AMORE.
Si unirono davanti al fuoco che bruciava il loro sacrificio, il fumo si alzava alto nel cielo, le signore si asciugavano gli occhi e gli uomini commossi si soffiavano il naso per coprire il rumore dei loro singhiozzi. Un nastro di seta bianco univa i polsi dei due giovani che uno di frante all’altro si guardavano con l’amore negli occhi.
Il padre di Orchidea non aveva più avuto una donna dopo la morte della moglie, non poteva esserci nessun’altra perché il vuoto che aveva dentro non poteva essere colmato da nessuno se non dalle tre figlie che la defunta gli aveva donato: le sue lune, i suoi soli, il motivo per cui non eri era mai arreso e aveva combattuto per dare a loro un futuro migliore.
I genitori di entrambi gli sposi pregarono per la felicità dei giovani coniugi e quando la funzione si concluse tutti si sentirono sereni e gioiosi. Festeggiarono con un grande banchetto al quale invitarono tutte le persone che avevano conosciuto in vita: i bambini che Zon aveva consolato e che ormai erano dei giovani dalle braccia forti e dai fisici scolpiti dal lavoro e le rispettive famiglie. Accorsero tutti per omaggiare quell’unione così sperata perché tutti si erano accorti che Nerlupo e Orchidea erano nati per vivere assieme. Si completavano, erano le facce della stessa medaglia.
Trascorse meno di un anno dal loro matrimonio quando Orchidea diede alla luce un bel bambino che chiamarono Andru, ma la felicità durò ben poco.
La sofferenza si abbatté su di loro con un rombo di tuono che segnò la comparsa all’orizzonte di uomini a cavallo che galoppavano verso le fattorie radendole al suolo, incendiandole, uccidendo animali e uomini, approfittando delle donne e riducendole in schiavitù.
Nerorso, il padre e il suocero decisero di contrastare l’avanzata di quegli uomini e trovarono molti consensi dai proprietari delle fattorie limitrofe. Si organizzarono, si allenarono, c’era chi si dimostrò molto abile nell’arte della guerra, ma non avevano mai combattuto prima e sfidare una forza pari a quella degli uomini di Dakare era un suicidio. Lo sapevano bene, ma non per questo si fermarono, non avrebbero lasciato che fossero strappate loro le famiglie e le vite senza combattere.
Dakare era un uomo molto ricco e potente, al suo servizio aveva i guerrieri migliori, addestrati sin dalla più tenera età ad essere dei perfetti assassini, a non provare né paura e né pietà. Il dolore non era contemplato. Dovevano dare la morte nel modo più lento possibile per gustarsi il dolore delle vittime. Dovevano essere silenziosi e crudeli. Solo in quel modo avrebbero trovato la via della luce.
Contro questa forza il povero manipolo di uomini che seguivano fiduciosi Nerorso non poterono nulla.
I guerrieri contro cui combatterono non avevano nulla in comune con i semplici mortali, erano belve assetate di sangue.
Quello che avvenne alle altre fattorie accadde anche alla loro.
Il fuoco sibilò come serpi divorando tutto con famelica furia, il metallo scuro delle spade rifletterono i volti agonizzanti di uomini, donne e bambini. Pochi furono i sopravvissuti: Nerorso, il Suocero, Irve il Rosso, Denri il Mastro-fabbro, Jugo e Vega i Gemelli Cacciatori e un giovane ragazzo di nome Ommer, cugino di Orchidea da parte di madre.
Tutti e sette gli uomini erano feriti, la stanchezza li aveva portati al limite delle loro forze e scoprire che nessuno dei loro parenti era sopravvissuto, che i loro fratelli, i loro genitori, le loro donne e i figli erano morti fu straziante. I cuori erano stati strappati dai loro petti da mani fredde e scheletriche con dite di lame.
Desideravano vendetta. Ma come fare? E poi c’era il dolore, forte e corrosivo.
Tra tutti e sette, quello che accusò maggiormente la perdita delle persone amate fu Nerorso.
Rimase sette giorni e sette notti accanto alle salme del figlio e della moglie prima di seppellirli e anche dopo averlo fatto non ebbe il coraggio di abbandonare il luogo del loro riposo eterno.
Si sentiva in colpa per non essere riuscito a salvarli, non era stato abbastanza forte per vincere il nemico e solo la morte avrebbe cancellato il senso di colpa opprimente. Pensò al suicidio ognuno di quei giorni terribili, ma non riusciva a compiere il gesto finale, era considerato abominevole spezzare la propria vita.
Pianse ed urlò, si strappò gli abiti, si graffiò le spalle, inghiottì la terra nella speranza di soffocarsi. I suoi compagni non sapevano come alleviare il suo dolore e pregarono il Creatore affinché fosse lui a dare una mano al loro amico, a dargli la morte se era l’unica via per far cessare le sue sofferenze.
Privo oramai di forza mentale e fisica, Zon, che non si chiamava più così perché aveva ripudiato il suo stesso nome, giaceva a terra debole e infreddolito. Un pasto allettante per qualsiasi bestia selvaggia, fine a cui anelava speranzoso.
La luna era alta nel cielo e lui la guardava pensando a come fosse bella, come la sua defunta Orchidea. La luna si ingrandì fino a diventare enorme e nella sua testa risuonò la voce di una donna.
<>
Zon sussurrò il nome del figlio e della moglie alla luna, si disse che stava impazzendo e che forse era finalmente giunta l’ora della sua morte.
<>
Alcuni viaggiatori nomadi raccontarono in seguito di aver udito degli ululati che non erano però di lupo, sembravano lamenti carichi di tristezza e rabbia, una melodia dolente che faceva accantonare la pelle.
In quella notte di luna piena molti giurarono di aver visto delle creature metà uomo e metà lupo avanzare nella tenebre tagliando la nebbia come lame di spade, scivolavano sul terreno come spettri sanguinari.
Non furono delle voci che girarono solo fra i nomadi e fra le persone povere, anche i nobili e gli uomini di fede cominciarono a credere nell’esistenza di queste creature e dovunque rivolgessero lo sguardo incontravano i segni del loro passaggio, anche se molte volte si trattava solo del frutto della loro fervida immaginazione.
Nelle lune seguenti accaddero molte cose strane. Intere mandrie di mucche venivano trovate sterminate, pecore e maiali scomparivano nel nulla e tutto, si cominciò a vociferare, era dovuto per il passaggio di un lupo dal pelo nero seguito da uno dal vello brizzolato, uno fulvo, due castani, uno biondo e uno albino e presto si formularono ipotesi su quel branco.
C’era chi diceva che erano i cacciatori dell’Inferno che cercavano le anime dei colpevoli, chi asseriva che erano i figli di una meretrice che aveva giaciuto con il Diavolo in persona, altri dicevano che si trattava solo di lupi troppo cresciuti. Storie si susseguivano e tante altre si formavano, ma tutte concordavano su una cosa: il branco cacciava solo nelle notti di luna piena e il lupo dal pelo nero era senza ora di dubbio il maschio alfa.
Zon, il Suocero, il Mastro-fabbro, i Gemelli Cacciatori, il Rosso e l’Albino erano consci della mutazione che il loro corpo subiva nelle notti di luna piena. Erano spaventati da questa capacità, ma non si erano mai sentiti così liberi. Il dolore per le perdite subite era forte, ma non li accecava più, riuscivano a ragionare con mente lucida e fredda e organizzarono la loro vendetta.
Un mostro come Dakare andava eliminato e solo altri mostri potevano riuscire nell’impresa.
Erano più muscolosi e scattanti, veloci e forti, le ferite si rimarginavano in fretta, i loro sensi si erano acuiti, soprattutto la vista, l’udito e l’olfatto. Le tracce delle prede erano semplici da seguire. Pure i loro modi di fare erano mutati. Avevano completamente perso il senso del pudore e questo li portava a muoversi nudi nella foresta e a rivestirsi solo quando entravano nei centri abitati. Erano molto più uniti fra di loro e riuscivano a comunicare senza parlare, bastava uno sguardo o un ringhio.
Un giorno, mentre seguivano le tracce di un cervo, si scontrarono con quelle di una donna e le cominciarono a seguire aiutati dalla scia di odore dolce che si era lasciata alle spalle, la trovarono serenamente appollaiata ai piedi di un enorme pino. Li stava aspettando.
Indossava una mantella rossa che le copriva il volto con un cappuccio, vestiva una maglia bianca e un paio di pantaloni di pelle sue degli stivali bordeaux.
<> disse ferma, quasi imperante. Altre si sarebbero spaventate alla vista di quegli uomini grossi come armadi, ma lei no.
<> disse L’Albino per poi ringhiarle contro, non gli era mai andato a genio prendere ordini da qualcun altro, soprattutto poi da una donna. Gofiò il torace mostrando i muscoli possenti, le vene sul collo pulsarono forti.
<> intimò Zon mostrandogli i denti, bianchissimi contro la pelle scura, in un cupo ringhio.
Quella voce, quell’odore, li aveva già sentiti… tempo addietro, in una notte di luna piena. Un ricordo che aleggiava confuso nella sua mente ma sempre presente.
<>
<>
La donna sorrise e abbassò il cappuccio.
Era una giovane donna, aveva gli occhi di un azzurro glaciale dal taglio esotico, i capelli neri e ricci le ricadevano lunghi e morbidi sulle spalle, sembravano spire di fumo intangibile.
<> ripeté quasi offesa <>
<> chiesero i gemelli che come al solito parlavano all’unisono. <>
<>
La donna li guardò uno per uno. Conosceva bene quello che avevano sofferto; lo stesso essere a cui davano la caccia aveva stuprato sua madre davanti ai suoi occhi, aveva visto il fratello morire sgozzato e appeso per i piedi per drenare più velocemente il sangue dal corpo. Proprio come si faceva con i maiali e le lepri. Ma non riuscì a torcere un capello a lui, aveva trovato pane per i suoi denti. All’epoca era una bambina, ma era più forte della madre e la rabbia fu sufficiente per far soffrire il sudicio omuncolo che aveva distrutto la sua famiglia, lo torturò col fuoco e con l’acqua, ascoltò le minacce di morte che le scivolarono addosso come vento ma quando fu il momento di ucciderlo non se la sent. Non si era mai macchiata di omicidio e la cosa la spaventò. Lo lasciò vivere con la promessa che sarebbe tornata per finire il lavoro.
Ed ora era il momento di tener fede alla promessa.
<> le chiese Zon.
La donna in rosso lo guardò negli occhi. <>
<>
<>
<> disse il Suocero <>
<>
Tutti e sette gli uomini risero. <> disse il maschio alfa.
Il branco viaggiò molto prima di incontrare Dakare e i suoi uomini, arrivarono quasi in prossimità delle radici dei grandi monti innevati. Li trovarono intenti a fare quello che sapevano fare meglio: uccidere e distruggere.
A distanza di due giorni la luna piena sarebbe stata alta nel cielo a guidare i loro passi, dovevano solo aspettare e nel frattempo decisero di raccogliere informazioni su Dakare e sul suo esercito.
Scoprirono che il Sovrano non usciva mai dalla sua tenda posta al centro dell’accampamento militare e che era sorvegliata da una decina di guardie. In totale c’erano duecento soldati e gli Uomini – Lupo espressero il loro dubbio al riguardo della loro inferiorità numerica, ma Redhat usò parole persuasive. Sarebbero stati loro a vincere e con il suo aiuto come strega l’impresa sarebbe stata semplice, fino a quando non si sarebbero trovati faccia a faccia con Dakare.
Dovevano prestare attenzione a lui, non era un uomo comune, era un mostro che il mondo raramente aveva visto in precedenza.
Zon le assicurò che non doveva preoccuparsi, se fosse stato necessario lo avrebbero attaccato tutti insieme, lui desiderava il privilegio di dargli il colpo finale. La donna fu contenta di sentire queste parole uscire dalla bocca dell’Uomo – Lupo e gli chiese un favore: avrebbe dovuto profanare il suo teschio, non le importava sapere come, lo doveva fare.
I due giorni trascorsero veloci e finalmente giunse la notte di luna piena.
I sette uomini si trasformarono in lupi umanoidi, si gettarono sui soldati che no  li videro nemmeno arrivare. Un tempo i servi di Dakare erano sembrati invincibili, mentre adesso cadevano uno dietro l’altro macchiando il terreno con il loro sangue. La Strega copriva i movimenti dei lupi con una fitta nebbia con la quale inondò l’interno accampamento.
La furia degli Uomini – Lupo era impressionante e la loro avanzata inarrestabile e in poco più di venti minuti si lasciarono alle spalle i cadaveri dei duecento soldati che si trasformarono in cenere diventando un tutt’uno con la terra nera e umida impregnata di sangue del quale sentivano l’inconfondibile odore e il sapore ferroso sulla lingua.
Avevano lasciato per ultimo Dakare.
Il Re uscì dalla sua tenda, non si spaventò alla vista dei sette mostri e della strega che impugnava una spada dalla lama sporca di sangue e dalla forma di una piuma.
<> disse Dakare storcendo il naso per il disgusto di trovarsi davanti quegli insulsi esseri.
<>
<>
<>
<> prese una pausa di qualche secondo in cui li guardò uno per uno: il viso odiato della ragazza, colei che lo aveva torturato fino alla pazzia, ma che non era stata capace di dargli la morte perché ancora innocente nell’animo; fissò il viso peloso e allungato delle creature che, come lui, erano state risvegliate dal mondo delle ombre, un mondo alimentato dai sogni e dagli incubi dei poveri mortali e in cui si attorcigliavano su sé stesse le essenze di cui i mostri erano fatti <>
<> urlò la strega con gli occhi che sprizzavano fiamme, lasciò la spada che toccò il suolo, dalle sue mani scaturirono due folgori rosse e gli Uomini – Lupo scattarono all’attacco.
Le saette colpirono l’uomo costringendolo in ginocchio, i lupi gemelli lo afferrarono per le spalle stringendole fra i denti, il suo sangue inondò caldo le loro gole alimentando la fame che provavano.
Un’onda nera esplose intorno al corpo di Dakare colpendo le due creature e sbalzandole in aria, piombarono sulla tenda che cadde in pezzo sotto il loro peso e la forza dell’onda che avrebbe investito anche gli altri Uomini – Lupo se non fosse stato per la Strega che prontamente eresse una barriera azzurra tra loro e l’avversario.
Il Sovrano si alzò, dalla sua schiena spuntarono due paia di ali formate da ossa e fumo nero, dalla fronte emersero due corna curve ai lati del cranio e dalle dita uscirono artigli ricurvi.
<> urlò rabbioso e si lanciò all’attacco.
Suocero uscì dalla protezione di Redhat e andò incontro al Demone che sibilò, si scontrarono a mezz’aria e il loro incontro fu annunciato da un rombo assordante che distorse l’aria con talmente tanta forza da distruggere anche la barriera della Strega.
Denti e artigli brillavano nella luce lunare, squame e pelo venivano strappate e gocce di sangue cadevano sul terreno. Gli Uomini – Lupo rimanevano in attesa, pronti a colpire alla prima occasione, a stento trattenevano la forza sotto la pelle tesa per i muscoli che fremevano. Con gli occhi seguivano ogni mossa delle due creature.
Il suocero di Nerolupo afferrò per la gola Dakare che però non si fece immobilizzare, il Demone tirò un pugno al petto del lupo brizzolato incrinandogli tre costole e ne fratturo altre due. L’Uomo – Lupo lo lasciò e cacciò un ululato di dolore che rimase sospeso nell’aria, il Sovrano gli aveva arpionato la gola smorzando il suo lamento e lo scagliò lontano da lui.
I Cacciatori Gemelli approfittarono di quel momento per artigliarlo per le ali, Dakare si sbilanciò all’indietro e la Strega lo colpì con tutta la forza che aveva in corpo concentrata in un unico punto, un pugno all’addome per il quale usò la maggior parte della sua energia magica.
Dakare si piegò in due, la terra incontrò le sue ginocchia.
I lupi fulvo e albino lo afferrarono per le corna e quello biondo gli spezzò le braccia.
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Il lupo nero si avvicinò a Darak e gli piantò una mano nel petto mentre l’Uomo – Lupo dal pelo brizzolato azzannò il Demone alla gola, era ancora debole, le ferite sanguinante e il torace bruciava, ma non si sarebbe mai permesso di dimostrarsi debole in questo momento, in questo momento che poteva finalmente dare la morte a chi gli aveva strappato le sue figlie e il suo adorato nipote.
<> disse agonizzante l’uomo <> la voce gorgogliante per il sangue che la inondava.
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Zon estrasse la mano strappando dal petto di Dakare il cuore ancora pulsante. Il corpo del Demone si dissolse lasciando solo uno scheletro informe.
< Davanti gli occhi della Strega, Zon orinò sul cranio del demone segnandolo come sua proprietà.
Quando sorse il sole, la battaglia era ormai finita da un pezzo, si era sentito solo un sordo clangore confuso di spade e poi più nulla. La Strega e gli Uomini – Lupo erano spariti.
Nessun viandante, nessun agricoltore, nessun allevatore scoprì mai cosa quel luogo aveva visto. Trovarono solo cenere e i resti di quello che assomigliava ad un accampamento, tutto il sangue era evaporato e orma confuse impiastricciavano il terreno. I giorni passarono e in quel luogo di sterminio lentamente venne costruito un sanatorio.
Redhat e i sette uomini viaggiarono molto e in lungo e in largo prima di fermarsi in un villaggio in cui ancora non era giunta la voce dei lupi enormi che accompagnavano una donna che indossava una mantellina rossa nelle notti di luna piena.
Redhat e l’Albino si sposarono qualche tempo dopo ed ebbero due bambini: un maschio col potere della madre e una femmina che seguiva il padre nelle notti di plenilunio.
Iluan, il Suocero, morì dopo due inverni col sorriso sulle labbra; le ferite erano troppo gravi e profonde per guarire, nemmeno la Strega riuscì a fare qualcosa se non solo alleviare il dolore che provava. Ai suoi funerali Zon disse che era felice per lui, era stato un compagno degno di fiducia, gli aveva coperto le spalle in ogni momento e lo ringraziava per avergli permesso di prendere sua figlia in moglie. Era felice per lui perché adesso poteva finalmente riabbracciare le figlia, la moglie e il nipotino e prendersi cura di loro e prima o poi lo avrebbe riabbracciato insieme alla sua famiglia. Avrebbe raccontato a loro come la vendetta era servita anche per eliminare il male dai villaggi, che i bambini avrebbero potuto giocare ancora una volta per le strade senza preoccuparsi della cattiveria delle creature contenenti il potere delle tenebre.
Zon e il Mastro-fabbro avevano perso le loro famiglie e sembrò giusto per loro preservare il lutto e la memoria dei defunti.
Irve il Rosso, Jugo e Vega i Gemelli Cacciatori trovarono l’amore ed ebbero prole che ereditò il loro straordinario talento, le loro mogli seppero mantenere il segreto mosse da infinito amore.
Sapevano che prima o poi una nuova minaccia si sarebbe presentata alle porte delle loro case, lo sapevano ed erano pronti ad affrontarla. Ma, fino a quel momento, si impegnarono a vivere felici e contenti.
 
Il branco crebbe e si divise nei secoli che vennero, varie dinastie si incrociarono e quella che era stata la prima alleanza si arricchì di nuovi elementi per sconfiggere il nemico di turno.
 
Chi sei tu? Cosa sei?
   
 
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