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Autore: Fenio394Sparrow    18/10/2015    3 recensioni
{Hunger Games!AU|| Leo Valdez|| Nuovo Personaggio|| Bromance|| Angst, Drammatico, Introspettivo}
Storia partecipante al contest Di AU!,OTP, Future Fic e tante belle cose!, indetto da Aturiel sul forum Efp
Le luci variopinte brillavano accecanti, le telecamere erano tutte puntate su di lui ed individuò Felix seduta su una tribuna vicino al palco, che gli faceva cenno di sorridere in modo piuttosto comico. Quella buffa espressione sul viso della ragazza riuscì a smuoverlo dalla momentanea paralisi in cui era precipitato e all’improvviso i suoni esplosero nei suoi timpani come proiettili, riempiendoli di brusii, fischi, applausi e urla. Sorrise con fare affascinante, regalando baci al pubblico e ampi inchini, anche se aveva appena iniziato. Raggiunse la poltrona accanto a quella di Chirone preceduto da un coro di ovazioni e fece l’occhiolino al pubblico, dove una ragazza svenne. Magari questo me lo risparmio, pensò leggermente stupito.
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I Giochi di Leo visti da lui, dalla sua Mentore, da una persona molto speciale e da chi non dovrebbe avere una coscienza per farlo.
{Death!Fic}
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leo Valdez, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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La Meccanica degli Scacchi



Felix si prese il tempo per osservare il proprio tributo, nonostante avesse già imparato a memoria ogni più piccolo dettaglio della sua fisionomia: un ragazzo mingherlino, poco più alto di lei, dai capelli ricci e neri e uno sguardo che le faceva venire voglia di dire “qualsiasi cosa tu stia pensando, levatela dalla testa.”  Era così dannatamente simile a lui.
Avevano gli stessi occhi vispi, lo stesso sorriso sghembo, lo stesso tic nervoso alle mani che non stavano mai ferme. Leo sembrava iperattivo, e nell’Arena gli avrebbe fatto comodo. Jack e Felix, invece, erano stati fin troppo prudenti, e le cose non erano andate come avrebbero dovuto. Quella sepolta sotto tre metri di terra doveva essere lei. Il dottor Aurelius, il suo analista, pensava che soffrisse di una cosa chiamata “disturbo da stress post-traumatico” e provasse un risentimento immotivato, riconducibile al “senso di colpa dei sopravvissuti.” Che stupidaggini.
Non provava senso di colpa. Provava dolore, tanto, tanto dolore…

In quel momento, Felix fece una promessa a sé stessa: a qualsiasi costo, il suo tributo avrebbe vinto i Settantesimi Hunger Games. Il Distretto 3, per la prima volta nella storia dei Giochi, avrebbe vinto per due edizioni di fila. Questo, però, significava che avrebbero dovuto eliminare la compagna di Leo, per lasciargli campo libero. Sollevò leggermente le spalle in segno di noncuranza. Dopotutto era quella la regola più importante degli scacchi: bisogna essere pronti a sacrificare qualcosa pur di vincere. I Giochi della Fame non erano differenti.

Ripensò alle Mietiture e ai ragazzi che, attraverso le parole di Leo, aveva imparato ad inquadrare.
La più piccola era del gruppo dei Favoriti, veniva proprio dal Distretto Uno ed era una ragazzina afroamericana di tredici anni che si chiamava Hazel Levesque. Non sarebbe stata un problema, anche se sentì una fitta di tristezza al pensiero del suo avvenire segnato. Tuttavia non poteva farsi prendere dai sentimentalismi, doveva osservare tutto con sguardo critico e non poteva mettere in gioco sentimenti come pietà o qualsiasi altra cosa che avrebbe potuto alterare la sua capacità di giudizio. Il compagno di Distretto, un ragazzone dai tratti orientali che guardava ovunque tranne che davanti a sé, non sembrava costituire una grande minaccia. I ragazzi del Due, Ottaviano e Reyna, non le piacevano per niente: Reyna ti scrutava con una fermezza strategica negli occhi di onice – era di una bellezza fredda e altera, incuteva un timore reverenziale solo a guardarla – mentre il ragazzo sembrava semplicemente folle. Era carino anche lui, ma guardarlo la metteva a disagio. Nonostante i ragazzi del Quattro non la impensierissero più di tanto, decise di tenerli d’occhio, visto che comunque erano molto più allenati di Leo. Il resto dei tributi era alquanto prevedibile, anche se Leo gli aveva riferito che la ragazza del 9 e quella dell’11 sembravano passare molto tempo assieme.

Leo le stava parlando, ma come al solito Felix si era estraniata e si era persa tutto il discorso del ragazzo; il fatto che parlasse dicendotuttotroppovelocementeperesserecompreso non migliorava le cose.
 «Come, scusa?» domandò quindi.
Leo provò ad allentarsi il papillon. «Ho detto che questo coso mi sta stringendo il collo e non riesco a respirare.»
«Risparmia il fiato per dopo, allora» rispose Felix, poggiando una mano sopra a quella di Leo per fermarlo. «Rischi di far venire una crisi al tuo stilista se ti vede conciato così.»
«Sai che me ne importa» borbottò il ragazzo, ma si risistemò il papillon come poteva.
Era davvero carino: indossava quello che una volta veniva chiamato smoking, nero e rosso, aveva i capelli in qualche modo sistemati e sembrava veramente un pesce fuor d’acqua. Felix trovava molto dolce quell’espressione imbarazzata sul suo viso, e non perché le ricordasse Jack, ma perché Leo aveva qualcosa di tutto suo, una sorta di ostinazione nello sguardo che non poteva fare a meno di ammirare.
«Sii te stesso» disse Felix, senza accennare alcuna emozione. «Sorridi tanto, due battute, qualche parolina in spagnolo e li conquisterai tutti.»
Leo ghignò. «Claro, mi querida.»
«Perfetto» Felix osservò il proprio operato soddisfatta. «Ora vai con gli altri e aspetta il tuo turno.»

Non attese una risposta dal ragazzo, si girò e s’incamminò verso la tribuna riservata ai mentori, sicura di avergli dato tutti i consigli necessari per affrontare l’intervista. Non pensò nemmeno che Leo avrebbe potuto rimanerci male, o che potesse avere qualche altra domanda, o che magari avesse bisogno di un abbraccio portafortuna o di qualsiasi altra cosa, perché lei non ci pensava mai. Non le passava nemmeno per l’anticamera del cervello. Aveva fatto il proprio dovere, stava proteggendo il proprio tributo come meglio poteva e quello era il massimo che poteva fare per esprimere il proprio … affetto? Non sapeva nemmeno lei come chiamare il sentimento che provava per Leo: senso di protezione di sicuro, scattato dal primo istante in cui lo aveva visto e aveva rivendicato la propria autorità di mentore su di lui, e poteva anche affermare di … volergli bene? Di tenerci a lui?

Non ne era affatto certa, quindi non si poteva parlare di affetto. E dopo quello che c’era stato fra lei e Jack l’anno precedente mostrarsi troppo gentile con lui in pubblico non avrebbe giovato alla reputazione del ragazzo. Sarebbe passato come un usurpatore lui e una sgualdrina lei. Farsi vedere in atteggiamenti intimi – intimi per gli standard della ragazza – con qualcun altro che non fosse Jack avrebbe smentito la credibilità della storia, avrebbero pensato che l’amore della ragazza era tutta una facciata e addio sponsor. Avrebbero pensato che quello che aveva fatto, l’omicidio che aveva commesso – il modo in cui si era consumato- fosse stato solo una mossa ben architettata per vincere e basta, un atto di tale cattiveria mosso da un semplice ragionamento a sangue freddo, non dall’amore, dalla vendetta che era stata in grado di offuscare il giudizio di una mente matematica. Ed in parte era così.
Era così.

Che persona orribile era, che mostro: aveva messo in conto l’idea di dover uccidere qualcuno, lo aveva addirittura accettato. Tutto, tutto pur di risolvere il rompicapo. E alla fine Jack era morto,  lei aveva capito troppo tardi la soluzione, era dovuta passare al piano di riserva – ma non c’era un piano di riserva – e aveva cercato l’assassina e l’aveva uccisa perché non meritava di vivere, non dopo aver reciso il filo della vita di Jack. L’aveva uccisa, l’aveva uccisa, uccisa, mutilata, depredata, infierito sul suo corpo mentre i suoi occhi  inorriditi spiravano sotto il proprio sguardo e il terrore si sbriciolava nella muta indifferenza dei cadaveri. E il sangue, il sangue era ovunque: sulla gola della ragazza, sulla pietra, sul pugnale, sulle sue mani …
 
Che cosa sono diventata? Questo si era chiesta mentre urlava di terrore – cosa era diventata? L’aveva uccisa! Aveva … Lei … Un’assassina. Aveva assassinato una persona, una ragazza come lei, a sangue freddo, una ragazza che aveva famiglia, un padre, una madre, un fratello, qualcuno da cui tornare e che aveva implorato, pregato per ricevere misericordia e lei l’aveva guardata negli occhi quando aveva reciso la sua giugulare e  aveva rovesciato gli occhi, la vita che l’abbandonava…
All’improvviso le cedettero le gambe e cadde a terra, domandandosi se avesse davvero lasciato l’Arena.
Qualcuno si chinò per aiutarla e lei ringraziò con freddezza, dando la colpa ai tacchi alti che portava…
E’ molto meglio così, si disse. Il mio lavoro è aiutare Leo al massimo delle mie capacità. Non posso dimostrare di tenere a lui in nessun altro modo. Si domandava chi doveva essere convinto di questo, se lei o gli altri. Ma la vera domanda era un’altra. A volte le sembrava di aver perso ogni traccia di umanità. Dai Giochi, credeva di avere un buco al posto del cuore. Aveva perso la capacità di provare sentimenti?
Felix temeva la risposta. Perché se fosse stata affermativa, significava che la morte di Jack era stata vana ed era stato un automa a vincere gli Hunger Games. Se la risposta fosse stata negativa … Felix aveva imparato a sue spese che più profondi erano i sentimenti che provava, più il dolore sarebbe stato impietoso.

Arrivò alle tribune come in un sogno. Sedette accanto a Beetee, suo collega ed ex mentore, e aspettò l’inizio della festa. Caesar Flickerman, il presentatore, fece la propria entrata acclamato dalla folla, salutò la vincitrice dei Sessantanovesimi Hunger Games e le chiese che cosa ne pensasse dei tributi di quell’anno. «Lui è molto macho, Caesar. Non posso dirti di più.»
E per Leo, dovette concedere un sorriso alle telecamere. Tanto piccolo quanto sprezzante, tanto falso quanto freddo. Ma i capitolini non ci fecero caso, e il presentatore diede il via alla serata.



Leo Valdez non era agitato. Leo Valdez era terrorizzato. E, strano a dirsi, era agitato non perché di lì a meno di ventiquattro ore sarebbe stato gettato in un’Arena a morire, ma perché la prospettiva di parlare davanti all’intero Paese e il rischio di fare la figura dello scemo lo spaventava molto di più. E poi, la sua filosofia di vita era semplice: un problema per volta. La sua filosofia di vita poteva benissimo essere “guarda il quadro generale”. Anche “zitto e nuota” non era male. Certo, era un’espressione tipica del Quattro, ma dopotutto, nel quadro generale, era un distretto di Panem, perciò poteva benissimo usarla anche lui. La verità era che l’unica filosofia di vita che Leo aveva era che si poteva essere molto elastici su ogni filosofia di vita da voler usare.
E poi, oltre all’agitazione, c’era anche il fattore Felix da tenere in conto, perché sì, esisteva un fattore Felix. L’incapacità di quella ragazza di relazionarsi con gli altri lo destabilizzava.

L’anno precedente, doveva ammetterlo, mentre  guardava i Giochi, aveva fatto il tifo per Jack. Ovviamente perché era il tributo del proprio distretto e perché, detto francamente, non metteva i brividi come Felix. Non sorrideva mai, era sempre accigliata e gli occhi, grigi ferro, erano di una durezza spaventosa. Nemmeno gli occhiali bianchi che portava riuscivano a mitigarne la freddezza. Si vedeva lontano un miglio quanto fosse innamorata del ragazzo. Leo non era un esperto di sentimenti, ma Felix lo era molto di meno. Lo aveva capito subito. Le si illuminava lo sguardo, quando lo vedeva, e quasi squittiva il suo nome, nel pronunciarlo. Come se ogni altra parola fosse vana, priva di significato. Nonostante ciò l’aveva ritenuta una persona fredda e lontana dai sentimenti umani, quasi fosse stata un computer intrappolato per sbaglio nel corpo di una ragazza.
Questo fino a che la ragazza del Distretto Nove non aveva ucciso Jack. Felix gli aveva tenuto la mano fino alla fine. E aveva ucciso la ragazza.
Leo preferì sorvolare. Alla fine aveva capito che Felix provava dei sentimenti, e molto più profondamente di altri. Ma era impossibile parlare con lei. Quel tono monocorde, quello sguardo accigliato, la completa assenza di contatto fisico – anche il più piccolo: una carezza sui capelli, un sorriso, qualcosa…  Nada.

Leo sospirò, cercando di concentrarsi sui lati positivi. Sorridere, fare battute, essere simpatico. Quello che faceva di solito. Osservò gli altri tributi  e lo rallegrò notare che non era l’unico ad essere agitato: la piccola Hazel Levesque si torturava nervosamente le mani e i gioielli appuntati sul vestito, troppo estroso per una bambina di tredici anni. Anche il ragazzone, Frank Zhang, era pallidino e guardava fisso davanti a sé. Perfino Reyna sembrava aver perso un po’ della sua compostezza, nonostante il viso ostentasse una tranquillità che non convinceva nessuno. L’unico che sembrava a proprio agio era Ottaviano. Questo lo infastidì non poco, ma dato che Caesar aveva chiamato Hazel sul palco, si concentrò sulla sua intervista. La strategia che stava usando era alquanto prevedibile nella sua originalità: una timida bambina dell’Uno, per la quale non c’erano stati volontari. Un fatto che non accadeva da tempo immemore in decadi di Giochi, da quando i Distretti Favoriti avevano deciso di allenare i propri tributi per non mandarli al macello impreparati.
«Come mai nessuno si è offerto?» chiese Caesar con dolcezza. «Di solito nel tuo distretto fate a botte per partecipare ai Giochi, come mai quest’anno è stato diverso?»
Hazel sembrava molto imbarazzata a riguardo, lanciò uno sguardo verso il suo mentore e sospirò, forse perché le aveva fatto cenno di assecondare la domanda. «Perché… perché mio padre è Ade Angstkönig.»

Un coro di “oooh” si levò dal pubblico, e perfino Leo spalancò la bocca, sorpreso. Ade Angstkönig era uno dei Vincitori più amati dal pubblico di Capitol, per la sua implacabilità nell’uccidere i tributi, e gli spettacoli che aveva offerto erano stati insanguinati  a dir poco. Nell’intervista successiva alla sua Vittoria, aveva affermato di considerarsi ambasciatore della morte, da qui il soprannome che lo aveva reso amatissimo nella Capitale. Forse lui lo considerava lusinghiero, visto che tutti avevano imparato a temerlo, e Leo aveva i brividi solo a pensare al suo viso. Ade era sposato. E, ufficialmente, non aveva figli.
 Leo aveva visto molte volte in TV quell’uomo e la tredicenne non aveva assolutamente niente in comune con lui. Hazel sembrava così tanto  una dolce ragazzina che aveva voglia di mangiarla, mentre Ade…  Se lui fosse stato una pietanza non l’avrebbe offerta nemmeno al suo peggior nemico. Ma poi pensò a zia Rosa e un ghigno gli arricciò le labbra, mentre pensava al detto: parenti serpenti… Per zia Rosa avrebbe fatto un’eccezione.

«Mio padre … ecco, i figli illegittimi dei Vincitori non danno fastidio a nessuno, in linea di massima. Ho scoperto solo qualche settimana fa di avere un fratellastro e una sorellastra, però quando è uscito il mio nome alla Mietitura avranno pensato che liberarsi di me non avrebbe fatto poi così tanta differenza.» Hazel mormorava tenendo lo sguardo basso. «Mio padre però è venuto a salutarmi, dicendo di non mollare. Non mi farò abbattere facilmente.»
«Certo che no» rispose dolcemente Caesar. Il segnale acustico annunciò la fine del tempo concesso alla bambina, e Hazel se ne andò facendo un grazioso inchino. Non prestò molta attenzione all’intervista di Frank, né a quella di Reyna – anche se non poté fare a meno di restare incantato dalla sua bellezza – e quando venne il turno di Ottaviano, un’orribile stretta allo stomaco cominciò a rendergli impossibile concentrarsi su ciò che stava accadendo. Si torturava le mani canticchiando una canzoncina che gli aveva insegnato sua madre; la sentì in qualche modo vicina, anche se erano anni che Esperanza Valdez non c’era più. Le fiamme brillarono davanti ai suoi occhi, mentre le urla di sua madre risuonarono ancora e ancora, senza che lui potesse fare niente per aiutarla, per domare quell’incendio…

«Eres un pequeño  mijo/ luz de mi corazòn/ mi familia y mi alegrìa ...»
Esperanza era sempre così dolce, il ragazzo aveva così tanti ricordi felici di lei…
Uno in particolare era il più caro, quello che avrebbe preso d’esempio per spiegare ad una persona cosa sia la felicità. Erano nell’officina della madre, entrambi con le mani e i vestiti sporchi di grasso ed olio per motori, reduci di una giornata particolarmente impegnativa, e lei lo teneva seduto sulle ginocchia e lo abbracciava, cullandolo e accarezzandogli i capelli, sorridendo orgogliosa per il suo primo dentino caduto. Esperanza Valdez non era una di quelle donne che si notano per la bellezza, ma per il bambino la sua mamma era la più bella di tutte, perché sorrideva sempre e aveva i capelli spettinati anche quando provava a legarli in una treccia, ed ogni sorriso che aveva era per lui. Gli stava facendo il solletico e il piccolo bambino rideva senza fiato, pregandola di fermarsi e tentando di rispondere all’attacco…

Leo si trastullò in quella dolce sensazione di casa, provando a creare una bolla tutta per lui, quando qualcuno lo spintonò verso il palco e gli fece segno di salire. Il calore e la pace che era riuscito a creare scoppiarono con un sonoro pop!  Quella sensazione di gelo spazzò via tutti i pensieri positivi e l’unica cosa che riuscì ad udire fu il rumore sordo di qualcosa che batteva a tempo. Solo dopo un paio di secondi realizzò che era il suo cuore. Luci variopinte brillarono accecanti: le telecamere erano tutte puntate su di lui.
 Individuò Felix seduta su una tribuna vicino al palco:  gli faceva cenno di sorridere in modo piuttosto comico. Quella buffa espressione sul viso della ragazza riuscì a smuoverlo dalla momentanea paralisi in cui era precipitato e all’improvviso i suoni esplosero nei suoi timpani come proiettili riempiendoli di brusii, fischi, applausi, urla...
Sorrise con fare affascinante, regalando baci al pubblico e ampi inchini. Raggiunse la poltrona accanto a quella di Caesar preceduto da un coro di ovazioni e fece l’occhiolino al pubblico, dove una ragazza svenne. Magari questo me lo risparmio, pensò leggermente stupito.

Caesar gli strinse la mano con calore. «Ah, Leo! Benvenuto, benvenuto! Come stai?»
Leo rispose alla stretta, accomodandosi con simulata nonchalance. «Alla grande, amico, alla grande! Ma non quanto te, davvero. Che cosa hai fatto alla barba, un nuovo taglio?»
«Hai notato, vedo!»
«Amico, io sono Leo Valdez, mica il primo che passa! Io sono il primo che nota le cose.» Sottolineò il concetto con una faccia che sperava dicesse “Hai capito, ciccio?”
Caesar rise. «Non ne dubitavo! Ma Leo, dimmi. Vogliamo saziare la nostra curiosità. Com’è essere il primo tributo della nostra algida Vincitrice dell’anno passato?»
Sorvolando sul fatto che Caesar conoscesse la parola “algida” e la sapesse usare in un contesto in cui la definizione era più che calzante, non poté far a meno di pensare che la domanda fosse pericolosa.
 E’ strano, pensò immediatamente, è l’esperienza più strana che io abbia mai vissuto. E’ terrificante come lei. Voglio tornare a casa.

«Una cosa magnifica» rispose invece. «E’ curioso avere una persona della mia età come mentore e guida, ma Felix sa quello che fa e mi fido di lei. Il Distretto Tre la ama – la prima vincitrice dopo più di dieci anni! – quindi abbiamo deciso di fare una gara.» Tacque per un istante, per creare un po’ di suspance. «Chi è amato di più vince! Ovviamente vincerò io perché qui siamo tutti Tem Leo, vero?» Un coro di “Sì!” si levò dal pubblico.
Era facile farli cadere ai propri piedi.

 
Abbastanza soddisfatta del risultato, la ragazza si diresse verso gli ascensori, dove un Leo silenzioso ­­­­– un Leo silenzioso? -  l’aspettava. Questo fece squillare un campanello di allarme nella sua testa. Sapeva di dover dire qualcosa, forse di dovergli posare una mano sulla spalla, ma non sapeva come. Sospirò mentalmente ed entrarono in ascensore, fermandosi al loro piano. Senza dire una parola Leo si diresse verso la propria camera e si chiuse dentro sbattendo la porta. Felix invece andò al buffet e cominciò a servirsi di roast-beef. Salutò con la mano Beetee e l’altro tributo e continuò a mangiare anche quando chiesero dove fosse Leo. «A metabolizzare che i Giochi iniziano domani, immagino.»

Seduto sul letto con il capo fra le mani, Leo piangeva tutte le lacrime che gli erano rimaste. Si odiava per essersi lasciato andare così, soprattutto perché non sarebbe dovuto accadere a lui.
Perché perché perché? Si ripeteva, mentre tentava di soffocare i singhiozzi.
Perché? Non è giusto, non è giusto … Aveva una vita davanti a sé, una vita povera, fatta di olio per motori, duro lavoro, anni pesanti passati a sbarcare il lunario, ma era pur sempre una vita. Poteva viverla, poteva ridere, scherzare, avere i suoi amici accanto a sé e invece … Cosa ne sarebbe stato di lui? Un singhiozzo più forte degli altri lo costringeva a tapparsi la bocca con le mani, pensando al viso di suo padre, di Piper, dei suoi amici. Non sarebbe mai più tornato a casa. Non da vivo. Come sarebbe morto? Non voleva pensarci. Doveva svuotare la mente. Si asciugò le guance dalle lacrime con rabbia facendo un respiro profondo. Non c’era niente che poteva fare se non quello che faceva sempre, perciò  lo fece.
Sorrise. Tristemente, con fatica. Ma era in quei momenti che sorridere gli veniva meglio, perciò continuò, pensando a tutte le cose belle che conosceva. Il viso di sua madre gli apparve immediatamente davanti agli occhi, così come la sensazione delle sue braccia che lo avvolgevano in un abbraccio, il suo posto preferito. Quella era casa. Si trastullò un po’ in quella sensazione di calore, immaginando di riuscire a toccarla sul serio, e un pensiero gli attraversò la mente: almeno ti rivedrò di nuovo.
, constatò con un inspiegabile sollievo, quello che era un buon motivo per sorridere anche se solo per un po’. Il rumore di nocche contro il legno lo riportò alla realtà: toc toc.
Felix stava bussando. Non rispose, temendo che la propria voce fosse ancora troppo incrinata, nonostante le lacrime si fossero già asciugate.
«Leo? Sto entrando» La maniglia si abbassò e la figura minuta di Felix fece capolino dalla porta. Se rimase interdetta nel trovarlo così non lo diede a vedere. Avanzò verso di lui restando in piedi e incrociò le braccia al petto «Come mai ti sei rinchiuso qui? La tua intervista è andata piuttosto bene»

Ah, beh, grazie dell’informazione, pensò con sarcasmo Leo, senza parlare. Non ne aveva voglia. Non con lei. Sentiva una strana sensazione montargli dentro, qualche cosa che lo faceva sentire ostile maldisposto nei suoi confronti. Rabbia, realizzò con sorpresa, rabbia cocente e velenosa, anche se non capiva da dove venisse o perché la provasse. Felix non gli aveva fatto niente, non stava facendo niente, lo guardava con un’ espressione indecifrabile sul viso e non parlava, lo guardava e basta. Non faceva niente, ecco perché era arrabbiato.
Riuscì a chiederle perché fosse lì, riabbassando il capo fra le mani. Vedeva solo le proprie ginocchia, dove erano poggiati i gomiti. Il pavimento aveva una moquette cremisi, il suo colore preferito, e si ritrovò a domandarsi se anche il suo sangue avrebbe avuto quel colore, una volta versato.
«Volevo vedere se stessi bene» la sua voce giunse priva di inflessione, come al solito. «Evidentemente non è così.»
«Già» rispose sorridendole ironico. «Evidentemente» Non voleva fare il gentile.
«Ti ho detto che hai fatto una buona intervista» ripeté con fastidio «Non devi stare così.»
«Giusto» la propria voce trasudava sarcasmo. «Dopotutto domani verrò solo gettato in un Arena a morire.»
«So cosa accadrà domani.» Felix sospirò e per la prima volta un’emozione guizzò sul viso giovane della ragazza. «Ci sono passata anche io, esattamente un anno fa.»

Leo tacque, alzando lo sguardo sulla Mentore.  Era appena più bassa di lui – e già era bassino – ma emanava così tanta autorevolezza che ci si dimenticava che avesse appena sedici anni. Quando aveva vinto i Giochi, l’anno precedente, aveva la sua stessa età. Sentì la rabbia scemare poco a poco.
Era solo una ragazza strappata alla adolescenza, esattamente come lui. Solo che era così irritante, fredda, seria …
«Potresti anche non morire, forse.»
Confortante, davvero confortante. «Beh, grazie.»
«Voglio dire che non sei un disastro totale. Non sei senza speranza. Con un po’ di fortuna potresti farcela.»
«Fortuna» ripetè stupidamente Leo. «Sempre stata dalla mia parte, eh sì.»

Le narici di Felix fremettero. «Forse crederai di essere solo, Leo. Non è così. Tu devi credere in te stesso, nelle tue capacità. Non ti illuderò, non posso assicurarti che ce la farai, ma ti giuro che farò di tutto per farti vincere. Tu sei il mio tributo, il mio tributo, e io non avrò pace fino a che non ce la farai. Tutto ciò che è in mio potere per farti uscire vivo da quell’Arena, io lo farò.»
 E fece una cosa che non aveva mai fatto prima.
Si sedette accanto a lui.
Vicina.
Così vicina che le loro gambe si toccavano.
 Stupito, la guardò in faccia e fece una considerazione che non lo aveva mai sfiorato prima di allora. Felix era bella. Aveva occhi verdi e brillanti, vividi, con sfumature grigie. Freddi, taglienti, ma soprattutto tristi, e gli occhiali non riuscivano a nasconderlo. Aveva mai sorriso? Mai conosciuto la felicità?

«Leo …» forse fu solo un’impressione, ma gli parve di sentire la sua voce tremare. «Lo so che posso sembrare apatica e disinteressata, lo so. Ma non è così.» Parve lei stessa dubbiosa di ciò, ma continuò, guardandolo negli occhi. «Io … sì. Mi interessa. Mi interessi tu. Ti voglio aiutare davvero. Ognuno ha una percezione di sé diversa da quella che hanno gli altri e io … questo dolore … questo…»
Gli occhi divennero lucidi, ma andò avanti lo stesso. «Preferirei non sentire niente piuttosto che provare questo dolore. Tu sei l’occasione per non sentire… Per non sentirlo.»
Leo la fissò allibito. Felix si riscosse e recuperò una certa sicurezza. Leo non potè far altro che guardarla e dire una cosa intelligente come: «Ehm … sì, okay.»
«Dovresti stenderti, domani sveglia presto.»
«Non ho sonno» rispose Leo. «Ho paura.»

Non sapeva perché glielo stesse dicendo. Forse perché Felix non era stupida e lo sapeva, forse perché anche lei si era aperta con lui, nella sua maniera goffa ed impacciata e sincera. Nonostante avesse visto la sua disperazione quando Jack era morto, non aveva realizzato quanto le facesse ancora male. Così tanto da preferire il non provar niente. Leo non avrebbe mai voluto provare niente – nonostante la morte di sua madre non lo avesse mai abbandonato, piuttosto che non provar niente e rendere l’esistenza di Esperanza Valdez nulla, Leo preferiva mille volte consumersi nel dolore e soffrire, piuttosto che dimenticarla. Felix era una ragazza, una povera e fragile ragazza che aveva vinto i Giochi e perso il ragazzo che amava.

«Lo so che hai paura» e la sua voce non era saccente, irritata o brusca, era dolce, e gli parve di cogliere una punta di morbidezza – di ghiaccio, non di pietra. Che Leo avesse sciolto il suo cuore di ghiaccio, anche se in minima parte?
«Ti racconterò una storia. Una storia breve e probabilmente inutile, ma Beetee mi ha detto che per risollevare il morale di una persona si fa così.»
Ah, ecco perché, pensò divertito. Però lo riempiva di tenerezza il fatto che almeno ci provasse, a parlare con lui. A relazionarsi come un essere umano.

«Tantissimo tempo fa, prima che gli uomini abitassero la Terra, il mondo viveva nella pace più assoluta. Nulla si muoveva, niente era fuori posto, e tutto accadeva con la stessa identica regolarità. Il vento non soffiava, il sole non sorgeva, la luna e le stelle non compivano il loro arco nel cielo. Quella era l’armonia del mondo.»

Il modo in cui parlava lo spaventava. Sembrava uno di quei narratori dei programmi statali che Capitol City passava per ravvivare il loro spirito nazionale: con calma e chiarezza, e nonostante parlasse con voce neutra, si percepiva una nota stonata nella sua voce. Desiderio, realizzò con un brivido. Come se volesse che fosse così di nuovo.
«A governare il mondo c’era un monarca bianco e la sua regina, con le loro torri, i loro alfieri, i loro cavalli… erano lì da migliaia di anni, più di quanti fossero quantificabili, e sarebbero rimasti lì altrettanto. O almeno così credevano.»

Leo sentiva le palpebre calare, ma si sforzò di restare sveglio, perché la storia gli interessava. Si lasciò trasportare dalla voce di Felix, tranquilla e chiara.

«Nel mezzo della notte, quando l’aria era più buia e gli alberi fremevano, un altro re si fece avanti, con la sua corte al seguito. Avanzò tenendo la consorte per mano, un Re e una Regina neri, il colore più intenso e oscuro che si fosse mai visto: chi erano costoro, e perché avanzavano nel loro mondo?»
Felix lasciò la frase in sospeso, scrutandolo da sotto gli occhiali.
«Perché?» riuscì a mormorare Leo, scuotendosi dal suo torpore: forse fu la sua immaginazione, ma gli parve di vedere l’ombra di un sorriso sul volto della propria mentore. «Perché?»

«Volevano la guerra. Volevano vincere e spodestare il Re dal proprio trono. E guerra fu. Si scontrarono nel mezzo del nulla, esattamente dove non accadeva mai niente, dove il vento non soffiava mai e nessun suono si librava nell’aria, dove nemmeno gli animali più arditi avevano il coraggio di andare. In quelle piane, il luogo più grigio e solitario di quel mondo grigio e solitario, lasciarono liberi i propri fanti, sguinzagliarono i propri cavalli, misero in campo gli alfieri e restarono a guardare, al sicuro nella propria retroguardia, e la lotta iniziò. Non era una di quelle battaglie sanguinose e terribili, animate dalle urla dei feriti e dei lamenti di moribondi, ma ciò non significa che non fu violenta. Ogni mossa era studiata a tavolino, volta a trovare il punto debole dell’avversario, ma nonostante la situazione fosse di parità assoluta una cosa incredibile accadde.»

«Per ogni posizione conquistata dalle armate nere, la terra si scuriva, si solidificava, diventava un quadrato nero. E questa cosa, all’inizio, spaventò il niveo sire: “Che stregoneria è mai questa?” pensava inquieto, mentre dall’altro capo del campo il Re Nero e la sua Regina ridevano beffardi, tenendosi per mano. Non era mai accaduto che qualcosa nel reame si opponesse al quieto grigiore di cui solo la propria candida corte godeva. Un evento incredibile, un evento che tuttavia non eguagliava ciò che sconvolse l’intero essere del Re Bianco. Il Re Nero scese in campo. E l’intero cielo esplose. Il Sole vibrò in tutta la sua prepotente violenza e riempì con i suoi raggi l’intera volta celeste – l’avremmo chiamata volta gialla se avessimo potuto assistervi – e poi il Bianco Re si sentì in dovere di scendere in battaglia anch’egli. Una casella bianca spuntò dove lui posò i piedi, e il Sole rimpicciolì, venendo avvolto dal dolce abbraccio del cielo turchese.»

«Il Re Nero si sorprese – non si aspettava che il Re sarebbe entrato in campo sul serio – ma gli concesse  un cenno di burbero rispetto e ordinò ad un cavallo di muoversi. Nitrendo, mangiò un alfiere. Il rosso, frutto del sangue versato dalla povera anima, bagnò il terreno, dove fiorirono rose spinate e marmo bianco. Per la prima volta in vita sua, il Re Bianco sperimentò la rabbia, e la vera battaglia ebbe inizio. Non vi era esclusione di colpi, trasformatisi in una lenta danza di vedo e non vedo, di ci sono e non ci sono, di posso muovermi lì, non posso andare là, posso fare questa mossa. Fino a che non si aggiunsero anche le graziose Regine. Ed erano le più cattive di tutti.»

«C’era morte ovunque, perché loro erano ovunque. Ai Re era permesso muoversi con cautela, ponderando ogni singola mossa, mandando avanti gli altri a sacrificarsi per loro. Le Regine erano donne, e le donne fanno come pare a loro: si muovevano con grazia, dando il loro bacio di morte ai soldati avversari, che morivano con le loro labbra in volto. Sul campo restarono solo i Re e le Regine, qualche cavallo, due torri e un alfiere duramente combattuto. L’atto finale stava per compiersi. E nonostante i Sovrani dei Neri continuassero a sogghignare, ben sapevano che la loro ora fosse giunta. Ma non potevano lasciare che l’antica quieta, l’apatico grigiore, ricoprissero il mondo ancora una volta. Lo Scacco era Matto, ma la partita era ancora da giocare. Piuttosto che lasciare che vincesse, piuttosto che arrendersi e dire è finita, non c’è una via d’uscita” preferì farla finita a modo suo. Il Re Nero mandò un ultimo bacio alla propria Regina, e lei, comprendendo, raccolse in lacrime la rosa più bella che spuntava dal terreno, quella dalle spine più appuntite. Perché ogni petalo ha la propria spina, così come ognuno può sempre fuggire e trovare una via d’uscita. Trafisse il Re Bianco, e il Nero Re con egli. Morirono guardandosi negli occhi, consci che quella partita si sarebbe dibattuta ancora per molto, molto tempo.»

Felix lasciò che le proprie parole vagassero nell’aria, e Leo le percepì quasi insinuarsi dentro di lui, sussurranti, antiche quanto il mondo. «Qual è la morale?» riuscì a chiedere, tentando di scacciare la sonnolenza.
«Non c’è una morale.» Felix si alzò e gli sorrise.
Gli sorrise veramente.
«Buonanotte, Leo Valdez.»
 
Felix si accasciò lungo la porta chiusa, sospirando sonoramente. Sperava solo che la storia avesse raggiunto l’obiettivo designato. Un altro sorriso le incurvò le labbra dopo tanto, tanto tempo. Leo Valdez è sveglio, capirà. Sì, ne sono sicura.

 
Leo Valdez era terrorizzato.
 Ottaviano e Reyna avanzavano verso di lui, brandendo minacciosi le lame che brillavano, spietate, alla luce del sole. Lo sapeva che sarebbe finita. Aveva davvero osato sperare che ce l’avrebbe fatta? Che sarebbe tornato a casa vittorioso, da suo padre e i suoi amici? Che sciocco era stato. Perché non sorrideva? Perché tutto ciò che riusciva a fare non era che starsene immobile, cercando una soluzione, un’alternativa all’oblio? Non voleva morire per mano di un assassino, di un altro ragazzo che come lui doveva scegliere fra la propria vita e quella di qualcun altro! Hazel accanto a lui tremava come una foglia, e guardava i ragazzi del Due piangendo. Non era stato nemmeno in grado di salvare lei. Che ironia, nemmeno Felix era riuscita a salvare Jack.
Felix! Lei avrebbe saputo cosa fare.
Ottaviano sghignazzava, pronto ad ucciderlo, pregustando il momento in cui avrebbe infilzato le sue carni con la sua arma nuova di zecca. Nonostante Felix fosse riuscita a racimolare provviste e un pugnale per Leo, lui sapeva di essere spacciato. Non poteva fare niente per evitare di morire.
Poi una vocetta gli parlò.  Morto sì, ma assassinato no.
Stava per morire. Doveva morire. Dopotutto, il Distretto Tre non avrebbe vinto gli Hunger Games per due volte di fila. Aveva capito cosa il proprio mentore gli voleva dire.
«Grazie, Felix.» disse, conscio che le telecamere lo avrebbero ripreso in diretta nazionale. Prese la mano di Hazel, e la guardò negli occhi, stringendogliela con dolcezza. L’Arena era strutturata come un enorme labirinto, che ogni notte cambiava, seguendo però uno schema preciso, diviso in dodici sezioni equivalenti ai dodici distretti, ed ogni sezione era delimitata da muri altissimi, enormi, coperti di rampicanti e grandi abbastanza da poterci camminare e combattere. Loro erano arrivati al confine, sopra il muro più alto che erano stati in grado di scalare.  Oltre, il baratro di cemento si estendeva, profondo e crudele. Non poteva offrirle più di quello.


Hazel parve capire ciò che le stesse dicendo, e annuì, rinforzando la presa sulla sua mano.
«TRE!» urlò Leo, e si precipitarono dove Ottaviano e Reyna meno se l’aspettavano, ossia proprio su di loro. Li evitarono spostandosi, ma capirono troppo tardi il loro gioco. Reyna urlò NO! Proprio quando la terra mancò sotto i loro piedi. Si librarono in aria per un istante, completamente senza peso e con il vento fra i capelli, tutto al rallentatore, gli urli, la paura, l’adrenalina. Ma poi quello stato di grazia finì e caddero al suolo, dove i loro corpi si schiantarono e giacquero immobili, gli occhi vuoti e le bocce spalancate nel muto urlo dei defunti. Un solo rivolo di sangue scivolò fuori dalla narice di Leo e due cannoni suonarono, cantando la morte di Hazel Levesque e Leo Valdez.
Un istante prima che la morte lo rapisse, vide sua madre sorridergli e tendergli la mano.
 
E’ una mattina nebbiosa, quella che fa da cornice alla vicenda che vado narrando. Una giovane donna, non più che venticinquenne, cammina mano nella mano con una bambina, che trotterella allegramente al suo fianco, un coniglietto di peluche in un braccio. Si dirigono verso una parte del Distretto che non conosce, sua madre non l’ha mai portata lì. E’ un posto strano, erboso, punteggiato di lastre di pietra verticali con croci e segni incisi sopra, e non capisce cosa siano. «Mamma, ma cosa sono quelle? A cosa servono?»
La mamma sorride e le accarezza i capelli, ma non è un sorriso vero, di quelli che vede che gli innamorati si fanno l’un l’altro, è un sorriso triste, di quelli che purtroppo adornano il suo viso con regolarità. A sentire il nonno, lei non sorrideva proprio, prima. Prima di che cosa, poi? Nessuno, nemmeno la mamma, glielo spiega bene. Ha capito che c’è stato qualcosa di importante, qualcosa di grosso, ma non scendono mai nei particolari. Sa solo che è stato per colpa di quella cosa importante che la mamma ha deciso di prenderla dal posto in cui stava e accoglierla nella sua famiglia, perché lei, come tanti altri bambini, ha perso la vera mamma e il  vero papà. Ma a lei ava benissimo così.
Sua mamma, Felix, la figlia dell’Orologiaio e la Vincitrice dei Sessantanovesimi Hunger Games, è una mamma fantastica. Tutti i suoi sorrisi, i suoi sorrisi veri, sono per lei.
«Si chiamano lapidi, tesoro» le disse. «Servono a far capire il nome di chi è morto ed è seppellito lì. Oggi andiamo a trovare una persona speciale.»
Camminano per un po’, finché non entrano in uno spazio delimitato da dei cancelli neri con su scritto qualcosa, ma lei è piccola, e ancora non sa leggere. Ci sono tante – com’è che le ha chiamate mamma? Lipidi? Lapidi? -  tante lapidi qui, e un sacco di statue.

«Sono i monumenti per i caduti, tesoro. Qui ci sono i tributi morti negli Hunger Games, i Giochi che mamma ha vinto.» mormora, e il suo volto si fa triste di nuovo. Non le piace quando la mamma piange o è triste. E’ sempre bella, ma anche a lei viene da piangere. Non possono piangere in due, no?
«Vieni, siamo arrivate.»
 A lei sembra un’altra lipide come le altre, ma annuisce, eccitata. «Che c’è scritto, mamma?»
La sua voce trema. «Leo Valdez.»
«Quasi come me!» esclama deliziata. «Si chiama quasi come me! Io mi chiamo Leah e lui Leo, mamma! Siamo quasi uguali!»
La mamma ride, ma Leah non capisce se rida davvero o no, stavolta. Strano, di solito lo capisce alla perfezione. Come sono strani, i grandi. «Hai ragione, tesoro, quasi come te.»
«Perché è speciale, mamma? Perché si chiama quasi come me?»
«Perché lui ha capito le regole del Gioco, amore.»
Ogni tanto mamma se ne esce con queste risposte difficili. «Ha capito le regole del Gioco?»
«Sì» mormora, guardando il cielo, e le sembra di udire una risata familiare. «Lui le ha proprio capite.»





Testo editato in data 16/09/2019
   
 
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