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Autore: smarsties    19/10/2015    4 recensioni
Sequel de «La storia inversa: ovvero, come distruggersi in sette giorni»
Sei anni dopo gli eventi del prequel, mentre tutti sono impegnati a fare i conti col mondo degli adulti, Trent e Gwen decidono di compiere il grande passo, ma alcuni inviti vengono recapitati all'ultimo momento.
Ciò innescherà una folle corsa contro il tempo prima, e una serie di esilaranti imprevisti poi, fra regali di nozze, fedi smarrite e antichi sentimenti mai scomparsi, sino al finale più dolce che possa esistere.
• • •
Dal settimo capitolo:
Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e senza maglia. Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno, principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima volta» la derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire conciata così? C’è il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino, accennando al suo pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai forse perso la maglietta? In tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Nuovo Personaggio, Trent | Coppie: Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La storia inversa: quando tutto va come non dovrebbe'
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Ai miei tre anni sul sito. Grazie per il vostro continuo supporto, vi voglio bene.

 

 

 

 

La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 

 

 

Domenica«

 

Toronto, Ontario, Canada.
13 luglio, ore otto e trentotto di sera.

Per narrarvi questa storia al meglio, è necessario cominciare dal principio.
Come un’intrigante avventura iniziò. E per intrigante, intendo divertente ed esilarante. Per voi che leggete, ovvio.
Tutto cominciò in un salotto, quello di John.
La persona sopracitata era, come suo solito, seduta sul divano sgraziatamente mangiando un trancio di pizza fumante quattro stagioni. Nel frattempo guardava distrattamente una partita di basket in televisione.
Erano anni che, ormai, andava avanti così:
era rimasto a lavorare al bar, con la sua solita frequenza “un giorno sì, venti no”, per ancora qualche mesetto - dopo la fine delle vicende. Poi, dopo un incidente con la macchinetta del caffè, Daniel si è visto costretto a licenziarlo seduta stante - aveva un sorriso smagliate, in quel momento: finalmente si sarebbe liberato di quello scansafatiche per un motivo valido. Da allora, passò le sue giornate a poltrire, rompere le scatole a - quel poveraccio di - Duncan per puro divertimento e a pellegrinare da un impiego all’altro, col disperato intento di racimolare qualcosa - con scarso risultato.
Quindi quella era un’altra delle molteplici giornate passate nell’ozio più completo, l’ennesimo turno di lavoro saltato. Una domenica coi fiocchi, oserebbe dire. O, più precisamente, era stata una domenica coi fiocchi sino al momento in cui suonarono alla porta. E questa causa comprendeva l’effetto di doversi alzare dal divano per andare ad aprire.

Chi è il mentecatto che viene a suonarmi alla porta in un’ordinaria domenica sera? Spero almeno abbia una buona ragione per disturbarmi.
Aprì la porta con uno sbuffo. Si trattava del proprietario del palazzo in cui abitava, affiancato da due suoi impiegati, che tenevano in braccio delle grosse scatole di cartone.
Questi ultimi lo superarono senza nemmeno guardarlo in faccia e cominciarono, per qualche assurdo motivo, a riempire gli scatoloni che si erano portati con tutti i suoi beni personali.
«Signor Collins!» esclamò, con un sorriso falsamente mascherato, in direzione dell’uomo minuto e tutto vestito perbene. «Prego, si accomodi. Vuole qualcosa? Un caffè, da mangiare? E, soprattutto, cosa stanno facendo quei due con la mia roba?»
Il suo indice sinistro indicò quelli, che continuavano ad infilare oggetti nelle scatole, fino a riempirle del tutto e chiuderle con dello scotch spesso.
«Ehi tu, attento con quella cornice! E tu, invece, lascia stare il mio orsacchiotto di peluche! E no, non è affatto strano che un uomo abbia ancora i peluche della sua infanzia!» Urlava loro di mollare quella roba, per lui, molto importante. I due si fermavano; poi, in seguito ad un cenno della mano del loro capo, continuavano a fare il loro lavoro ignorandolo completamente.
Prima che potesse sbraitare qualcosa sugl’ipoacusici e l’importanza di curarsi l’udito - non che a lui, quelle cose, interessassero sul serio -, Collins prese la parola: «Già. Immaginavo che lei non leggesse la posta, signorino Gray» si limitò a dire, sospirando e ripensando a tutti i suoi arretrati - che, poi, era proprio quello il motivo per cui si trovava lì.
John aveva il dannato vizio di bruciare - e dico in senso letterale: accendeva il camino e ci buttava le lettere da lui ritenute inutili - tutto ciò riguardante “bollette” e “pagamenti”, essendo, appunto, un gran menefreghista.
Assunse un’espressione perplessa. Cosa c’entrava la posta con quella visita inaspettata?
«Mi scusi, ma, davvero, non capisco» mormorò confuso.
«Se avesse aperto la busta rossa che le ho invitato tre giorni fa, saprebbe benissimo che, entro quarantotto ore dall’arrivo della lettera, avrebbe dovuto sgomberare  l’appartamento»
Aggrottò le sopracciglia. Non ci arrivava!
«È indietro di un anno con l’affitto e il contratto che ha firmato prima di venire ad abitare qui diceva chiaramente che, in caso di mancato pagamento di dodici o più mesi, si viene sfrattati. Ebbene, è quello che è appena successo a lei: la sto cacciando di casa»
Rimase attonito e quasi non si rese conto che i due operai avevano caricato sulle sue braccia il peso di ben tre scatoloni.
«Ma, io…» cercò di protestare, prima che potessero spingerlo con forza sino fuori dal cancello del palazzo.
Sentì il portone di ferraglia sbattere alle sue spalle e dei passi allontanarsi verso l’interno.
Era la terza volta nel giro di tre anni che veniva sfrattato, ormai ci stava facendo l’abitudine. Il problema era sostanzialmente un altro: i suoi non l’avrebbero mai e poi mai fatto tornare l’ennesima volta a casa.
Erano stati piuttosto chiari con l’ultima ramanzina: “Una volta va bene, due pure… ma alla terza, puoi scordarti di avere una famiglia!
Inoltre, dal momento che in tasca aveva a malapena i soldi per affittare un motel di periferia per due notti, la sua unica speranza era appoggiarsi su qualcuno per qualche tempo. Quello necessario per mettere da parte dei risparmi per affittare un appartamento… cioè, per l’eternità.
Afferrò il cellulare dalla tasca, per cercare una soluzione. O meglio, per cercare un poveraccio tra i suoi amici e parenti che potesse ospitarlo per un paio di mesi.
Dopo una lista infinita di nomi compresi tra la A e la C - la maggior parte di questi li detestava, l’altra parte comprendeva parecchi dei parenti serpenti e una ancora più piccola si trattava di compagni del liceo che non rivedeva da secoli -, quasi esultò, leggendo quel nome. Insomma, proprio la persona che faceva a caso suo.

Courtney.
Ci pensò sedici, forse diciassette volte, prima di premere il tasto di avvio della chiamata.
«Pronto?» Uno sbuffò non attardò ad arrivare dall’altro capo.
«Ehi, sono John. Senti, mi chiedevo se…»
«No» Lo interruppe.
«Ma se nemmeno ti ho esposto ciò di cui ho bisogno!» replicò. «Non essermi così tanto diffidente!
«
«
Diffidente?!» domandò come indignata. «L’ultima volta che mi hai chiesto un favore, sono rimasta sotto la pioggia battente, alla fermata dell’autobus, ad aspettare non si sa cosa, mentre tu te ne stavi beatamente nel suo appartamento».
Ricordava quel giorno. Quello che aveva mangiato quel pomeriggio, era forse il migliore hot-dog di sempre.
«Ecco, il problema è proprio casa mia… o dovrei forse dire la mia ex casa». Non sapeva come aveva trovato le parole giuste. Le aveva dette, e basta. E, forse, non erano proprio quelle giuste. «Mi hanno sfrattato e ora mi servirebbe un appoggio momentaneo. Ti giuro, un mese e sto fuori dai piedi».

Come no.
«Il tuo “appoggio momentaneo”», già se la immaginava mimare le virgolette con le dita della mano libera, «va dai sei mesi ai cinque anni. Scordatelo!»
Stava per riattaccare, quando…
«Aspetta!» esclamò il ragazzo. «Non è che potresti darmi l’indirizzo di un albergo, di un bed & breakfast…»
«Oh, ti darò di meglio!» esclamò maliziosa. Era ovvio che meditava vendetta contro qualcuno. «Stanford Avenue, numero 58B, decimo piano. La porta è quella di fronte all’ascensore».
«Grazie, sei un’amica!» E, finalmente, riattaccò.
Già, provate ad immaginare la felicità del proprietario di casa non appena si ritroverà John davanti. E provate ad immaginare chi sarà il proprietario di casa.

 

• • •

 

Ore ventuno e ventisette.
Chiuse la chiamate e, con uno sbuffo, tornò a chinarsi sul suo computer portatile, picchiettando rumorosamente sulla tastiera mentre decine di fogli di Word continuavano velocemente a riempirsi.
Stava preparando un paio di documenti per un imminente processo che si sarebbe tenuto di lì a un paio di giorni. Certo, c’era ancora parecchio tempo, ma Courtney era quel tipo di lavoratrice che - come penso ormai abbiate capito - si portava sempre avanti nei suoi impieghi.
Questo aveva sì i suoi aspetti positivi, ma anche quelli negativi.
Ultimamente, essendo una delle avvocatesse più gettonate, non aveva mai avuto un secondo di pace. Viveva ormai nel suo ufficio nel centro di Toronto ventiquattro ore al giorno e, anche quando era a casa, aveva sempre qualche incarico da completare con la massima urgenza. In pratica, era schiava del suo stesso mestiere.
La sua vita sociale si era praticamente annullata nel giro di qualche mese e ciò non era sfuggito a Duncan, che pensava che riempirsi di lavoro fosse la sua ultima innovazione per evitarlo. Sì, esatto: suo malgrado, continuavano a frequentarsi.
A distanza di ormai sei anni,
ancora si era deciso ad arrendersi. E, ahimè, credo che mai lo farà.
Si era persino trovato un lavoro vicino alla sua sede lavorativa, pur di tormentarla in eterno. Era stato assunto in un’officina a pochi metri dal suo ufficio da circa un anno.

Nonostante tutto, erano due settimane che non lo vedeva, né lui aveva dato segno di vita. Non l’aveva tempestata di chiamate, né aveva fatto irruzione nello studio in modi irruenti e poco garbati. Temeva il peggio. O forse aveva imparato a non disturbarla mentre lavorava.
Sbadigliando, si alzò di scatto dalla scrivania e s’incamminò lungo il corridoio. Non ne poteva più, necessitava di una lunga pausa.
La cucina, quella sera, le sembrava un posto dannatamente macabro e privo di qualsivoglia rumore. Nemmeno i passi sul pavimento freddo riecheggiavano.
Alle volte, pensava, quell’appartamento pareva immenso per una sola persona.
Courtney mise a preparare una caraffa di tè a fuoco lento sul piano cottura; intanto si sedette al tavolino della cucina.
Soltanto allora si accorse che un mucchio di lettere giaceva al centro di questo. Era la posta che le era stata recapitata il giorno prima e che si era ripromessa di aprire una volta tornata a casa, di sera.
Dopo aver scartato tutte le varie bollette, fu colpita da una busta candida chiusa con un sigillo di ceralacca rossa. La aprì e cacciò fuori la lettera.
Lesse rapidamente le righe, scritte in un impeccabile corsivo… e rimase scioccata dal contenuto.
 

 

Trent McCord & Gwendolyn Fahlenbock
Sono lieti di annunciare le loro nozze
il 19 luglio, nella cattedrale di Vancouver.

 

 
La prima cosa che riuscì a realizzare fu: «Il diciannove luglio?! E me lo dicono solo adesso?!»
Infuriata, si alzò di scatto dalla sedia e si mise a frugare in ogni angolo dell’appartamento alla ricerca del suo fidato palmare, che, stranamente, finiva per smarrirsi negli angoli più assurdi ed impensabili. Quella volta, difatti, lo trovò in salotto, dietro il televisore.
Si mise a scorrere la rubrica fino alla lettera G, fino al nome della sua migliore amica. Esatto, lei e Gwen erano tornate ad essere grandi amiche. Dopo che la seconda aveva rotto con Duncan, si era presentata seduta stante al bar - vi aveva continuato a lavorare per un altro mese, prima di cominciare il college e intraprendere il suo sogno, quello di divenire un avvocato - e, con gli occhi lucidi, le aveva chiesto scusa meglio che poteva. Inutile dire che non riuscì a resisterle e, mezzo secondo dopo, si stavano abbracciando.
Ricordava bene quando le aveva comunicato che si sarebbe trasferita a Vancouver. Il giorno della sua partenza, sebbene si fosse psicologicamente preparata, aveva fatto una scenata assurda in aeroporto, pregandola di non andare via.
Una volta che trovò il nome, avviò la chiamata senza pensarci due volte. Tre squilli dopo, una voce familiare le invase le orecchie: «Pronto?»
Ma non poté aggiungere altro perché Courtney aveva già cominciato a urlare: «Ti rendi conto che hai intenzione di sposarti  e non hai detto niente a me, che sono la tua migliore amica? Quando avevi intenzione di riferirmelo, dopo aver dato alla luce tre bambini? E ti rendo conto che il matrimonio è tra sette giorni e che l’invito è arrivato ieri? E ti rendi conto-»
«Ehi, calma» la interruppe Gwen, prima che potesse aggiungere altro. «Sono ancora a lavoro e qui tutti mi guardano storto».
Si era laureata in architettura, materia che l’aveva sempre affascinata sin da bambina, e adesso lavorava in un importante studio di Vancouver.
«Innanzitutto, ho cercato di dirtelo tante volte, ma tu mi hai sempre interrotta con i tuoi problemi e con le tue lamentele. Devi sapere che sei… ehm, intrattabile, dopo un’estenuante giornata di lavoro».
Ci fu un attimo di silenzio.
Non era la prima volta che qualcuno le diceva che con lei non si poteva parlare, una volta tornata dal tribunale. Duncan, addirittura, glielo ricordava tre volte al giorno come minimo.
«Poi,» riprese, «mi dispiace tanto per l’invito, ma c’è stato un problema con la spedizione e alcune lettere sono arrivate estremamente in ritardo, specie quelle - come la tua - dirette a Toronto».
La bruna fece un respiro profondo: «Scusa se ti ho aggredita in quel modo. Ci tenevo soltanto ad essere la prima cui avresti dato questa meravigliosa notizia».
Okay, potrete pensare che Courtney sia impazzita per scusarsi di spontanea volontà. Eppure, davanti a Gwen, le veniva naturale gettare la maschera dell’acida scorbutica per un po’ e mostrare il lato più “umano”.
«Lo capisco» la giustificò «Anch’io vorrei essere la prima persona cui annuncerai del tuo matrimonio».
«Be’, me ne ricorderò in futuro» ridacchiò.
E poi si lanciarono in una fitta, fittissima conversazione, quasi infinita.

 

• • •

 

Ore ventidue e undici.
John guidava come un pazzo nelle strade piuttosto tranquille della periferia di Toronto. Nel frattempo, imprecava in turco contro il navigatore satellitare che, per sei volte, gli aveva fatto percorrere il tragitto più lungo.
Forse dovrei ricomprarmene uno nuovo, questo è completamente fuso.
«Arrivo fra cinquecento metri» annunciò la voce metallica del navigatore.
Sperò con tutto se stesso che, quella volta, aveva indovinato; altrimenti, tra cinquecento metri, quell’affare avrebbe fatto un volo di sola andata fuori dalla macchina.
Con sua grande felicità, notò all’inizio di un viale un cartello scarsamente illuminato che recitava “Stanford Avenue” e trovare l’appartamento 58B non fu affatto complicato.
Parcheggiato, s’infilò nel portone socchiuso con tutti i bagagli e poi dentro l’ascensore, adocchiando il pulsante con numero dieci. Qualche istante dopo, le porte si riaprirono, mostrando una grande porta nera. Dall’altro lato arrivava una musica fastidiosa sparata a volume eccessivo.
Non gli restava altro che suonare e conoscere il suo nuovo coinquilino.
Ma una volta che la porta si aprì, il sorriso cordiale dipinto sulla sua faccia e il bel discorsetto che si era preparato andarono in fumo.
«Allora, cosa vuole questa-»
Sul volto del proprietario di casa comparve una smorfia.
«Cosa ci fai qui?!»
Penso abbiate capito da chi Courtney lo abbia condotto. Esattamente, parlo proprio di Duncan.
«E come mai hai quelle valige con te?» chiese, visibilmente preoccupato, passandosi una mano tra i capelli scompigliati completamente neri.
Aveva, difatti, deciso di eliminare la sua amata cresta qualche anno prima, spinto da una ventata di maturità improvvisa, assieme a qualche piercing - rimanevano soltanto quello sul naso e un orecchino sul lobo sinistro.
«Un anonimo benefattore mi ha consigliato di venire a domandare alloggio in questo appartamento, quindi ora mi lasci entrare, senza se e senza ma».
Egli, che evidentemente aveva capito chi fosse l’anonimo benefattore e che stava escogitando vendetta contro quello, si preparò a ribattere… ma troppo tardi.
John lo aveva superato ed era entrato in casa, dove si ritrovò davanti lo scenario più confusionario che avesse mai visto dai tempi del liceo: cartoni di piazza e bottiglie di birra gettate al suolo, mobili rovesciati e devastati e un gruppo di persone che ballavano a ritmo di qualche canzone heavy-metal di pessimo gusto.
Aveva pur sempre una laurea in meccanica - era stata Courtney a spingerlo affinché riprendesse gli studi, dopo aver riposato sugli allori per circa due anni; nel giro di un annetto e mezzo, era riuscito a laurearsi sempre con l’aiuto di quest’ultima - e un lavoro redditizio, ma le buone e vecchie abitudini non muoiono mai.
«Ehi amico, chi è questo essere?»  chiese un tipo che si era accorto della presenza di John.
«Nessuno» ringhiò Duncan in direzione del bruno, come se quel gesto stesse a significare che dovesse sparire dalla circolazione entro pochissimi secondi.
«Be’, visto che ora sono qui,» disse John, fulminando il suo coinquilino con lo sguardo, «perché non movimentiamo un po’ la festa?»
Il moro non osava chiedere quale fosse la sua idea, poiché sapeva che non le sarebbe piaciuta affatto.

Dai, magari ti sbagli, lo cercò di convincere una vocina nella sua testa - che aveva imparato ad identificare come la sua coscienza. Sì, la sua coscienza parlava. Magari ha davvero un’idea geniale per rendere la serata ancora più memorabile.
Ma l’affermazione dell’altro andò ben oltre le poche aspettative che nutriva.
«Che ne dite del gioco della bottiglia
Ogni speranza andò a farsi benedire nel giro di tre secondi e la sua coscienza si zittì di colpo.
«Sei serio?» chiese una voce indefinita.
Ma John già aveva recuperato una bottiglia e si era seduto per terra, facendo cenno di imitarlo. Cosa che, molto svogliatamente, fecero.
«Siccome l’idea è stata mia, io deciderò la prima penitenza».
Nessuno osò contestare. Prima quello strazio cominciava, prima finiva.
Così fece roteare la bottiglia e il suo collo, dopo alcuni vorticosi giri, si fermò puntando verso…
«Duncan!» esclamò con un sorrisetto, trattenendo più che poteva le risate.
Lui, tirando giù qualche Santo dal cielo, prese un respiro profondo: «Sentiamo: cos’hai in mente?»
Si sfregò le mani soddisfatto e, dopo averci pensato un po’ su, rispose: «Dovrai ascoltare Nyan Cat. Per dieci ore. Se non lo farai, io entrerò in possesso della tua camera».
Cercò di fare mente locale, per ricordare dove avesse già sentito quel nome. E poi, sotterrato nei meandri della memoria, eccolo.
Era stato Geoff a parlargliene, un paio di anni prima. In pratica si trattava di una musichetta veramente idiota ed indecifrabile accompagnata dal video di una specie di gatto-biscotto che sparava da dietro arcobaleni.
«Spero tu stia scherzando» fu l’unica cosa che riuscì a sillabare, sbiancando di colpo.
Quella volta era riuscito a resistere per sì e no due minuti - poi, si era precipitato a spegnere il computer per la sua sanità mentale -, figurati resistere per dieci lunghe ore!
«Scusa, dovresti cambiare penitenza» disse un tipo biondo, alzando la mano per farsi notare «Non possiamo aspettare che Duncan crolli, prima di continuare il gioco».

O potremmo proprio cambiare gioco, disse la coscienza del moro. Non sarebbe male, dopotutto.
«Allora, eclissatevi!» esclamò il bruno «Continueremo il gioco un’altra volta».
E prima che qualcuno potesse aprire bocca per ribattere, li trascinò tutti fuori dall’appartamento, sbattendo la porta rumorosamente.
«Spero tu sia felice, hai appena mandato all’aria la festa» disse Duncan senza nascondere un pizzico di rabbia.
«Ti ricordo che tu devi ancora scontare la tua “punizione”» cambiò discorso l’altro.
«Nemmeno se mi paghi!» rispose con indignazione.
Ma John si era già avvicinato al computer dell’altro, appoggiato al tavolo della cucina, lo aveva accesso e, qualche attimo dopo, si era lanciato alla frenetica ricerca del video desiderato.
Qualche attimo dopo si diffuse per la stanza una musica patetica, infantile e soprattutto fastidiosa. Una di quelle melodie che ti fanno venire un mal di testa allucinante e la voglia di prendere la prima cosa che capiti sotto tiro e schiantarla contro il muro.
Senza pensarci due volte, Duncan gli strappò di mano il computer e lo spense di colpo, mentre gli si formò una ruga fra le sopracciglia. Non poteva sopportarlo.
«Tu sei pazzo» bofonchiò, senza degnarlo di uno sguardo.
«Può essere, ma siccome non hai superato la prova…»
Lasciò la frase in sospeso e, prima che chiunque potesse accorgersene, aveva recuperato i bagagli e aveva spiccato una corsa disperata verso la camera da letto, con il coinquilino alle calcagna, che cercò di buttarsi addosso a lui per fermarlo. E mentre il primo diede una botta violenta contro il pavimento, il secondo riuscì a buttarvisi all’interno e, con insistenza, a sigillare sotto chiave la porta.
«Apri questa dannata porta, altrimenti ti giuro che la butto giù!
» urlò il moro dall’altra parte, cominciando a tirare pugni dall’altro lato.
Ma le sue imprecazioni furono vane, poiché bellamente ignorate da John, che nel frattempo aveva già colonizzato la stanza.

 

• • •

 

Ore ventitré e quattro.
«Ecco fatto!»
Courtney, pienamente soddisfatta del lavoro svolto, chiuse con un leggero tonfo il portatile sulla sua scrivania.
Evidentemente la tazza di tè che si era concessa e la piacevole chiacchierata con Gwen l’avevano visibilmente rilassata.

Gwen. E chi se l’aspettava che, da un giorno all’altro, avrebbe preso l’importante decisione di metter su famiglia con Trent?
Non poteva che esserne felice. Insomma, non capita mica tutti i giorni che la propria migliore amica si sposi!
Inoltre, durante la conversazione, si era lasciata sfuggire anche un piccolissimo dettaglio, che avrebbe dovuto essere una gradita sorpresa: sarebbe stata la sua testimone. Era stato uno dei momenti migliori della sua vita, probabilmente.
Alle volte le sembrava strano, pensare che erano ormai quattro anni che era andata a vivere a Vancouver. Sembrava ieri quando l’aveva abbracciata più forte che poteva in aeroporto, inchiodandola a terra e impedendole di prendere il volo, fino a quando una hostess l’aveva dovuta spingere fuori.
Tante volte si ritrovava a fare il percorso verso l’appartamento dove aveva abitato - inizialmente da sola; poi, dopo essersi chiariti, con Trent - per un po’, per poi ricordarsi che lei non era più lì, ma a migliaia di chilometri di distanza.
Sebbene si organizzassero e si vedessero molto spesso, non riusciva ancora a realizzare di non averla più accanto. Le mancava terribilmente.

E ora si sposava.
Già, ne era passato di tempo, da quando avevano fatto pace, in quel vecchio bar.
Aveva un disperato bisogno di dormire. Dopo aver lavorato ininterrottamente per ore, la stanchezza cominciava a farsi sentire. Inoltre, era solita anche lavorare di notte, quando non terminava una pratica o essa era estremamente lunga, perciò le ore di veglia erano molto spesso maggiori rispetto a quelle di sonno.
Stava già iniziando a mettersi sotto le coperte, quando il palmare, poggiato sopra il comodino, cominciò a squillare ininterrottamente. Chiedendosi chi potesse chiamare a quell’ora così assurda, sbloccò la chiamata e si portò il cellulare all’orecchio.
«Pronto?» chiese sbuffando.
«È questo il modo di salutare un vecchio amico che non si fa sentire da un pezzo?» rispose il suo interlocutore, avente una voce molto familiare. «Mi aspettavo quantomeno un’accoglienza calorosa»
Sospirò: «Senti non ho tempo da perdere con i tuoi giochetti idioti, Duncan. Dimmi subito cosa vuoi e facciamola finita».
«Come siamo acidi, oggi!»
E a quel punto non poté evitare di ridacchiare, anche se cercò di mascherarlo al meglio. Non l’avrebbe mai ammesso ma, dopo tutto, parlare con lui le faceva veramente bene. Era capace di strapparle una risata anche se era stressata o triste.
«Ad ogni modo, John ha deciso di trasferirsi qui da me e ha preso possesso della mia camera; adesso sono fuori, lungo il corridoio, seduto per terra, con la schiena poggiata al muro e, mentre ti sto parlando, sto escogitando un modo per fartela pagare. Perché sì, lo so che sei stata tu a mandarmelo qui. Per esempio, che ne dici se venissi sotto il tuo ufficio e ti cantassi una serenata? Ho già in mente un bel po’ di versi».
«Non osare nemmeno pensarci, ti denuncio per molestie» rispose, con tono falsamente isterico. «E questa è la mia personale vendetta per avermi infastidito tutti i giorni, da circa sei anni a questa parte. Te lo sei meritato».
«Sì, sono una persona ignobile, lo ammetto» disse, roteando gli occhi. «Come seconda cosa, volevo solo darti la buonanotte. Potrebbe diventare una specie di rituale».
«Okay» disse semplicemente, con un sorriso sincero che le spuntava sulle labbra. Dopo un po’ di silenzio, aggiunse: «Buonanotte, Duncan».
«’Notte, principessa».
 

 

 

 

Hayle’s wall

Ehm, salve gente.
Probabilmente, non avrete la minima idea di chi io sia, ma alcuni di voi, se c’è ancora gente che frequentava il fandom circa due anni fa, mi conoscono… solo che con un altro nome.
Vi ricordate di Solluxy? Ebbene, sono io. Ho avuto una crisi d’identità e ho deciso di cambiare nome, esatto. E no, non sono un miraggio. Sono veramente tornata nel fandom; per giunta, l’ho fatto pubblicando il sequel di una fan fiction che scrissi nel luglio 2013 - «La storia inversa ~ Ovvero, come distruggersi in sette giorni», “famosissima”, si fa per dire, fan fiction Duncney. Quindi, se siete arrivati qui e siete un po’ confusi, vi consiglio di dare una letta veloce - per quanto possa fare pietà - al prequel. Giusto per chiarirvi le idee.
Era da secoli che volevo pubblicare questo sequel; ora, a distanza di due anni, ho finalmente trovato l’ispirazione necessaria per portarla avanti.
Spero che possa essere di vostro gradimento e, come il suo prequel, conterrà sette capitoli, uno per ogni giorno della settimana, fino ad arrivare al finale più dolce di tutti. Lo giuro, questa volta sarà definitivo.
L’aggiornamento dovrebbe essere abbastanza veloce, poiché ho molte idee per questa storia - devo solo metterle per iscritto - e il secondo capitolo è quasi completo. Inoltre, vorrei anche pubblicare una one shot/song-fic Duncney: non appena troverò un modo quantomeno decente per continuarla e concluderla, la pubblicherò.
Se trovate qualche errore, fatemelo sapere. Io ho ricontrollato ma è probabile che mi sia sfuggito qualcosa.
Angolino uno di sette completato, non mi resta che salutarvi. Ci vediamo nel prossimo capitolo e nelle recensioni.

Hayle xx

 

P.S. Vi consiglio, per vostra sanità mentale, di non andare a cercare Nyan Cat su Youtube. Fidatevi.

  
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