Ai miei tre anni sul sito. Grazie
per il vostro
continuo supporto, vi voglio bene.
La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili
complicazioni»
Domenica«
Toronto,
Ontario,
Canada.
13 luglio, ore otto e
trentotto di sera.
Per
narrarvi questa storia al meglio, è necessario
cominciare dal principio.
Come un’intrigante avventura
iniziò. E per intrigante,
intendo divertente ed
esilarante. Per voi che leggete, ovvio.
Tutto cominciò in un salotto, quello di John.
La persona sopracitata era, come suo solito, seduta sul
divano sgraziatamente mangiando un trancio di pizza fumante quattro
stagioni. Nel
frattempo guardava distrattamente una partita di basket in televisione.
Erano anni che, ormai, andava avanti così: era
rimasto a lavorare al bar, con la sua solita frequenza “un
giorno sì, venti
no”, per ancora qualche mesetto - dopo la fine delle vicende.
Poi, dopo un
incidente con la macchinetta del caffè, Daniel si
è visto costretto a
licenziarlo seduta stante - aveva un sorriso smagliate, in quel
momento:
finalmente si sarebbe liberato di quello scansafatiche per un motivo
valido. Da
allora, passò le sue giornate a poltrire, rompere le scatole
a - quel
poveraccio di - Duncan per puro divertimento e a pellegrinare da un
impiego
all’altro, col disperato intento di racimolare qualcosa - con
scarso risultato.
Quindi quella era un’altra delle molteplici giornate passate
nell’ozio più completo, l’ennesimo turno
di lavoro saltato. Una domenica coi
fiocchi, oserebbe dire. O, più precisamente, era stata una
domenica coi fiocchi
sino al momento in cui suonarono alla porta. E questa causa comprendeva
l’effetto di doversi alzare dal divano per andare ad aprire.
Chi è
il mentecatto che
viene a suonarmi alla porta in un’ordinaria domenica sera?
Spero almeno abbia
una buona ragione per disturbarmi.
Aprì
la porta con uno sbuffo. Si trattava del proprietario
del palazzo in cui abitava, affiancato da due suoi impiegati, che
tenevano in
braccio delle grosse scatole di cartone.
Questi ultimi lo superarono senza nemmeno guardarlo in
faccia e cominciarono, per qualche assurdo motivo, a riempire gli
scatoloni che
si erano portati con tutti i suoi beni personali.
«Signor Collins!» esclamò, con un
sorriso falsamente
mascherato, in direzione dell’uomo minuto e tutto vestito
perbene. «Prego, si
accomodi. Vuole qualcosa? Un caffè, da mangiare? E,
soprattutto, cosa stanno
facendo quei due con la mia
roba?»
Il suo indice sinistro indicò quelli, che continuavano ad
infilare oggetti nelle scatole, fino a riempirle del tutto e chiuderle
con
dello scotch spesso.
«Ehi tu, attento con quella cornice! E tu, invece, lascia
stare il mio orsacchiotto di peluche! E no, non è affatto
strano che un uomo
abbia ancora i peluche della sua infanzia!» Urlava loro di
mollare quella roba,
per lui, molto importante. I due si fermavano; poi, in seguito ad un
cenno
della mano del loro capo, continuavano a fare il loro lavoro
ignorandolo
completamente.
Prima che potesse sbraitare qualcosa sugl’ipoacusici e
l’importanza di curarsi l’udito - non che a lui,
quelle cose, interessassero
sul serio -, Collins prese la parola: «Già.
Immaginavo che lei non leggesse la
posta, signorino Gray» si limitò a dire,
sospirando e ripensando a tutti i suoi
arretrati - che, poi, era proprio quello il motivo per cui si trovava
lì.
John aveva il dannato vizio di bruciare - e dico in senso
letterale: accendeva il camino e ci buttava le lettere da lui ritenute
inutili
- tutto ciò riguardante “bollette” e
“pagamenti”, essendo, appunto, un gran
menefreghista.
Assunse un’espressione perplessa. Cosa c’entrava la
posta
con quella visita inaspettata?
«Mi scusi, ma, davvero, non capisco»
mormorò confuso.
«Se avesse aperto la busta rossa che le ho invitato tre
giorni fa, saprebbe benissimo che, entro quarantotto ore
dall’arrivo della
lettera, avrebbe dovuto sgomberare
l’appartamento»
Aggrottò le sopracciglia. Non ci arrivava!
«È indietro di un anno con l’affitto e
il contratto che ha
firmato prima di venire ad abitare qui diceva chiaramente che, in caso
di
mancato pagamento di dodici o più mesi, si viene sfrattati.
Ebbene, è quello
che è appena successo a lei: la sto cacciando di
casa»
Rimase attonito e quasi non si rese conto che i due operai
avevano caricato sulle sue braccia il peso di ben tre scatoloni.
«Ma, io…» cercò di
protestare, prima che potessero spingerlo
con forza sino fuori dal cancello del palazzo.
Sentì il portone di
ferraglia sbattere alle sue spalle e dei passi allontanarsi verso
l’interno.
Era la terza volta
nel giro di tre anni che veniva sfrattato, ormai ci stava facendo
l’abitudine.
Il problema era sostanzialmente un altro: i suoi non
l’avrebbero mai e poi mai
fatto tornare l’ennesima volta a casa.
Erano stati piuttosto
chiari con l’ultima ramanzina: “Una
volta
va bene, due pure… ma alla terza, puoi scordarti di avere
una famiglia!”
Inoltre, dal momento
che in tasca aveva a malapena i soldi per affittare un motel di
periferia per
due notti, la sua unica speranza era appoggiarsi su qualcuno per
qualche tempo.
Quello necessario per mettere da parte dei risparmi per affittare un
appartamento… cioè, per
l’eternità.
Afferrò il cellulare
dalla tasca, per cercare una soluzione. O meglio, per cercare un
poveraccio tra
i suoi amici e parenti che potesse ospitarlo per un paio di mesi.
Dopo una lista
infinita di nomi compresi tra la A e la C - la maggior parte di questi
li
detestava, l’altra parte comprendeva parecchi dei parenti
serpenti e una ancora
più piccola si trattava di compagni del liceo che non
rivedeva da secoli -,
quasi esultò, leggendo quel nome.
Insomma, proprio la persona che faceva a caso suo.
Courtney.
Ci
pensò sedici,
forse diciassette volte, prima di premere il tasto di avvio della
chiamata.
«Pronto?» Uno sbuffò
non attardò ad arrivare dall’altro capo.
«Ehi, sono John.
Senti, mi chiedevo se…»
«No» Lo interruppe.
«Ma se nemmeno ti ho
esposto ciò di cui ho bisogno!»
replicò. «Non essermi così tanto
diffidente!«
«Diffidente?!»
domandò come indignata. «L’ultima volta
che mi hai chiesto un favore, sono
rimasta sotto la pioggia battente, alla fermata dell’autobus,
ad aspettare non
si sa cosa, mentre tu te ne stavi beatamente nel suo
appartamento».
Ricordava quel giorno. Quello che aveva mangiato quel pomeriggio, era
forse
il migliore hot-dog di sempre.
«Ecco, il problema è
proprio casa mia… o dovrei forse dire la mia ex
casa». Non sapeva come aveva
trovato le parole giuste. Le aveva
dette, e basta. E, forse, non erano proprio quelle giuste.
«Mi hanno sfrattato e ora mi servirebbe un appoggio
momentaneo. Ti giuro, un mese e sto fuori dai piedi».
Come no.
«Il
tuo “appoggio
momentaneo”», già se la immaginava
mimare le virgolette con le dita della mano libera,
«va dai sei mesi ai cinque anni. Scordatelo!»
Stava per
riattaccare, quando…
«Aspetta!» esclamò il
ragazzo. «Non è che potresti darmi
l’indirizzo di un albergo, di un bed &
breakfast…»
«Oh, ti darò di
meglio!» esclamò maliziosa. Era ovvio che meditava
vendetta contro qualcuno.
«Stanford Avenue, numero 58B, decimo piano. La porta
è quella di fronte
all’ascensore».
«Grazie, sei
un’amica!» E, finalmente, riattaccò.
Già, provate ad
immaginare la felicità del proprietario di casa non appena
si ritroverà John
davanti. E provate ad immaginare chi sarà il proprietario di casa.
•
• •
Ore
ventuno e ventisette.
Chiuse
la chiamate e, con uno sbuffo, tornò
a chinarsi sul suo computer portatile, picchiettando rumorosamente
sulla
tastiera mentre decine di fogli di Word continuavano velocemente a
riempirsi.
Stava preparando un
paio di documenti per un imminente processo che si sarebbe tenuto di
lì a un
paio di giorni. Certo, c’era ancora parecchio tempo, ma
Courtney era quel tipo
di lavoratrice che - come penso ormai abbiate capito - si portava
sempre avanti
nei suoi impieghi.
Questo aveva sì i
suoi aspetti positivi, ma anche quelli negativi.
Ultimamente, essendo
una delle avvocatesse più gettonate, non aveva mai avuto un
secondo di pace.
Viveva ormai nel suo ufficio nel centro di Toronto ventiquattro ore al
giorno
e, anche quando era a casa, aveva sempre qualche incarico da completare
con la
massima urgenza. In pratica, era schiava del suo stesso mestiere.
La sua vita sociale
si era praticamente annullata nel giro di qualche mese e ciò
non era sfuggito a
Duncan, che pensava che riempirsi di lavoro fosse la sua ultima
innovazione per
evitarlo. Sì, esatto: suo malgrado, continuavano a
frequentarsi.
A distanza di ormai
sei anni, ancora si era
deciso ad arrendersi. E, ahimè, credo che mai
lo farà.
Si era
persino trovato un lavoro vicino alla sua sede lavorativa, pur di
tormentarla
in eterno. Era stato assunto in un’officina a pochi metri dal
suo ufficio da
circa un anno.
Nonostante tutto, erano
due settimane che non lo vedeva, né lui aveva dato segno di
vita. Non l’aveva
tempestata di chiamate, né aveva fatto irruzione nello
studio in modi irruenti
e poco garbati. Temeva il peggio. O forse aveva imparato a non
disturbarla
mentre lavorava.
Sbadigliando, si alzò
di scatto dalla scrivania e s’incamminò lungo il
corridoio. Non ne poteva più,
necessitava di una lunga pausa.
La cucina, quella
sera, le sembrava un posto dannatamente macabro e privo di qualsivoglia
rumore.
Nemmeno i passi sul pavimento freddo riecheggiavano.
Alle volte, pensava,
quell’appartamento pareva immenso per una sola persona.
Courtney mise a
preparare una caraffa di tè a fuoco lento sul piano cottura;
intanto si sedette
al tavolino della cucina.
Soltanto allora si
accorse che un mucchio di lettere giaceva al centro di questo. Era la
posta che
le era stata recapitata il giorno prima e che si era ripromessa di
aprire una
volta tornata a casa, di sera.
Dopo aver scartato
tutte le varie bollette, fu colpita da una busta candida chiusa con un
sigillo
di ceralacca rossa. La aprì e cacciò fuori la
lettera.
Lesse rapidamente le
righe, scritte in un impeccabile corsivo… e rimase scioccata
dal contenuto.
Trent McCord
&
Gwendolyn Fahlenbock
Sono lieti di
annunciare le loro nozze
il 19 luglio, nella
cattedrale di Vancouver.
La prima cosa che
riuscì a realizzare fu: «Il diciannove luglio?! E me lo dicono solo adesso?!»
Infuriata, si alzò di
scatto dalla sedia e si mise a frugare in ogni angolo
dell’appartamento alla
ricerca del suo fidato palmare, che, stranamente, finiva per smarrirsi
negli
angoli più assurdi ed impensabili. Quella volta, difatti, lo
trovò in salotto,
dietro il televisore.
Si mise a scorrere la
rubrica fino alla lettera G, fino al nome della sua migliore amica.
Esatto, lei
e Gwen erano tornate ad essere grandi amiche. Dopo che la seconda aveva
rotto
con Duncan, si era presentata seduta stante al bar - vi aveva
continuato a lavorare
per un altro mese, prima di cominciare il college e intraprendere il
suo sogno,
quello di divenire un avvocato - e, con gli occhi lucidi, le aveva
chiesto
scusa meglio che poteva. Inutile dire che non riuscì a
resisterle e, mezzo
secondo dopo, si stavano abbracciando.
Ricordava bene quando
le aveva comunicato che si sarebbe trasferita a Vancouver. Il giorno
della sua
partenza, sebbene si fosse psicologicamente preparata, aveva fatto una
scenata
assurda in aeroporto, pregandola di non andare via.
Una volta che trovò
il nome, avviò la chiamata senza pensarci due volte. Tre
squilli dopo, una voce
familiare le invase le orecchie: «Pronto?»
Ma non poté
aggiungere altro perché Courtney aveva già
cominciato a urlare: «Ti rendi conto
che hai intenzione di sposarti e
non hai
detto niente a me, che sono la tua migliore amica? Quando avevi
intenzione di
riferirmelo, dopo aver dato alla luce tre bambini? E ti rendo conto che
il
matrimonio è tra sette giorni e che l’invito è
arrivato ieri? E ti rendi
conto-»
«Ehi, calma» la
interruppe Gwen, prima che potesse aggiungere altro. «Sono
ancora a lavoro e
qui tutti mi guardano storto».
Si era laureata in
architettura, materia che l’aveva sempre affascinata sin da
bambina, e adesso
lavorava in un importante studio di Vancouver.
«Innanzitutto, ho
cercato di dirtelo tante volte, ma tu mi hai sempre interrotta con i
tuoi
problemi e con le tue lamentele. Devi sapere che sei… ehm, intrattabile, dopo
un’estenuante giornata di lavoro».
Ci fu un attimo di
silenzio.
Non era la prima
volta che qualcuno le diceva che con lei non si poteva parlare, una
volta
tornata dal tribunale. Duncan, addirittura, glielo ricordava tre volte
al
giorno come minimo.
«Poi,» riprese, «mi
dispiace tanto per l’invito, ma c’è
stato un problema con la spedizione e
alcune lettere sono arrivate estremamente in ritardo, specie quelle -
come la
tua - dirette a Toronto».
La bruna fece un
respiro profondo: «Scusa se ti ho aggredita in quel modo. Ci
tenevo soltanto ad
essere la prima cui avresti dato questa meravigliosa notizia».
Okay, potrete pensare
che Courtney sia impazzita per scusarsi di spontanea
volontà. Eppure, davanti a
Gwen, le veniva naturale gettare la maschera dell’acida
scorbutica per un po’ e
mostrare il lato più “umano”.
«Lo capisco» la
giustificò «Anch’io vorrei essere la
prima persona cui annuncerai del tuo
matrimonio».
«Be’, me ne ricorderò
in futuro» ridacchiò.
E poi si lanciarono
in una fitta, fittissima conversazione, quasi infinita.
•
• •
Ore
ventidue e undici.
John
guidava come un
pazzo nelle strade piuttosto tranquille della periferia di Toronto. Nel
frattempo, imprecava in turco contro il navigatore satellitare che, per
sei
volte, gli aveva fatto percorrere il tragitto più lungo.
Forse dovrei
ricomprarmene uno nuovo, questo è completamente
fuso.
«Arrivo
fra
cinquecento metri» annunciò la voce metallica del
navigatore.
Sperò con tutto se
stesso che, quella volta, aveva indovinato; altrimenti, tra cinquecento
metri,
quell’affare avrebbe fatto un volo di sola andata fuori dalla
macchina.
Con sua grande
felicità, notò all’inizio di un viale
un cartello scarsamente illuminato che
recitava “Stanford Avenue” e trovare
l’appartamento 58B non fu affatto
complicato.
Parcheggiato,
s’infilò nel portone socchiuso con tutti i bagagli
e poi dentro l’ascensore,
adocchiando il pulsante con numero dieci. Qualche istante dopo, le
porte si
riaprirono, mostrando una grande porta nera. Dall’altro lato
arrivava una
musica fastidiosa sparata a volume eccessivo.
Non gli restava altro
che suonare e conoscere il suo nuovo coinquilino.
Ma una volta che la
porta si aprì, il sorriso cordiale dipinto sulla sua faccia
e il bel
discorsetto che si era preparato andarono in fumo.
«Allora, cosa vuole
questa-»
Sul volto del
proprietario di casa comparve una smorfia.
«Cosa ci fai qui?!»
Penso abbiate capito
da chi Courtney lo abbia condotto. Esattamente, parlo proprio di Duncan.
«E come mai hai
quelle valige con te?» chiese, visibilmente preoccupato,
passandosi una mano
tra i capelli scompigliati completamente neri.
Aveva, difatti, deciso
di eliminare la sua amata cresta qualche anno prima, spinto da una
ventata di
maturità improvvisa, assieme a qualche piercing - rimanevano
soltanto quello
sul naso e un orecchino sul lobo sinistro.
«Un anonimo
benefattore mi ha consigliato di venire a domandare alloggio in questo
appartamento, quindi ora mi lasci entrare, senza se e senza
ma».
Egli, che
evidentemente aveva capito chi fosse l’anonimo
benefattore e che stava escogitando vendetta contro quello,
si preparò a
ribattere… ma troppo tardi.
John lo aveva
superato ed era entrato in casa, dove si ritrovò davanti lo
scenario più
confusionario che avesse mai visto dai tempi del liceo: cartoni di
piazza e
bottiglie di birra gettate al suolo, mobili rovesciati e devastati e un
gruppo
di persone che ballavano a ritmo di qualche canzone heavy-metal di
pessimo
gusto.
Aveva pur sempre una
laurea in meccanica - era stata Courtney a spingerlo
affinché riprendesse gli
studi, dopo aver riposato sugli allori per circa due anni; nel giro di
un
annetto e mezzo, era riuscito a laurearsi sempre con l’aiuto
di quest’ultima -
e un lavoro redditizio, ma le buone e vecchie abitudini non muoiono mai.
«Ehi amico, chi è
questo essere?» chiese
un tipo che si
era accorto della presenza di John.
«Nessuno» ringhiò
Duncan in direzione del bruno, come se quel gesto stesse a significare
che
dovesse sparire dalla circolazione entro pochissimi secondi.
«Be’, visto che ora
sono qui,» disse John, fulminando il suo coinquilino con lo
sguardo, «perché
non movimentiamo un po’ la festa?»
Il moro non osava
chiedere quale fosse la sua idea, poiché sapeva che non le
sarebbe piaciuta
affatto.
Dai, magari ti
sbagli, lo
cercò di convincere una vocina
nella sua testa - che aveva imparato ad identificare come la sua
coscienza. Sì,
la sua coscienza parlava. Magari ha
davvero un’idea geniale per rendere la serata ancora
più memorabile.
Ma l’affermazione
dell’altro andò ben oltre le poche aspettative che
nutriva.
«Che ne dite del gioco della
bottiglia?»
Ogni speranza andò a
farsi benedire nel giro di tre secondi e la sua coscienza si
zittì di colpo.
«Sei serio?» chiese
una voce indefinita.
Ma John già aveva
recuperato una bottiglia e si era seduto per terra, facendo cenno di
imitarlo.
Cosa che, molto svogliatamente, fecero.
«Siccome l’idea è
stata mia, io deciderò la prima penitenza».
Nessuno osò
contestare. Prima quello strazio cominciava, prima finiva.
Così fece roteare la
bottiglia e il suo collo, dopo alcuni vorticosi giri, si
fermò puntando verso…
«Duncan!» esclamò con
un sorrisetto, trattenendo più che poteva le risate.
Lui, tirando giù
qualche Santo dal cielo, prese un respiro profondo:
«Sentiamo: cos’hai in
mente?»
Si sfregò le mani
soddisfatto e, dopo averci pensato un po’ su, rispose:
«Dovrai ascoltare Nyan Cat.
Per dieci ore. Se non lo
farai, io entrerò in possesso della tua camera».
Cercò di fare mente
locale, per ricordare dove avesse già sentito quel nome. E
poi, sotterrato nei
meandri della memoria, eccolo.
Era stato Geoff a
parlargliene, un paio di anni prima. In pratica si trattava di una
musichetta
veramente idiota ed indecifrabile accompagnata dal video di una specie
di
gatto-biscotto che sparava da dietro arcobaleni.
«Spero tu stia
scherzando» fu l’unica cosa che riuscì a
sillabare, sbiancando di colpo.
Quella volta era
riuscito a resistere per sì e no due minuti - poi, si era
precipitato a
spegnere il computer per la sua sanità mentale -, figurati
resistere per dieci lunghe ore!
«Scusa, dovresti
cambiare penitenza» disse un tipo biondo, alzando la mano per
farsi notare «Non
possiamo aspettare che Duncan crolli, prima di continuare il
gioco».
O potremmo
proprio cambiare gioco, disse la
coscienza
del moro. Non sarebbe male, dopotutto.
«Allora,
eclissatevi!» esclamò il bruno
«Continueremo il gioco un’altra volta».
E prima che qualcuno
potesse aprire bocca per ribattere, li trascinò tutti fuori
dall’appartamento,
sbattendo la porta rumorosamente.
«Spero tu sia felice,
hai appena mandato all’aria la festa» disse Duncan
senza nascondere un pizzico
di rabbia.
«Ti ricordo che tu
devi ancora scontare la tua “punizione”»
cambiò discorso l’altro.
«Nemmeno se mi
paghi!» rispose con indignazione.
Ma John si era già
avvicinato al computer dell’altro, appoggiato al tavolo della
cucina, lo aveva
accesso e, qualche attimo dopo, si era lanciato alla frenetica ricerca
del
video desiderato.
Qualche attimo dopo
si diffuse per la stanza una musica patetica, infantile e soprattutto
fastidiosa. Una di quelle melodie che ti fanno venire un mal di testa
allucinante e la voglia di prendere la prima cosa che capiti sotto tiro
e
schiantarla contro il muro.
Senza pensarci due
volte, Duncan gli strappò di mano il computer e lo spense di
colpo, mentre gli
si formò una ruga fra le sopracciglia. Non
poteva sopportarlo.
«Tu sei pazzo»
bofonchiò, senza degnarlo di uno sguardo.
«Può essere, ma
siccome non hai superato la prova…»
Lasciò la frase in
sospeso e, prima che chiunque potesse accorgersene, aveva recuperato i
bagagli
e aveva spiccato una corsa disperata verso la camera da letto, con il
coinquilino alle calcagna, che cercò di buttarsi addosso a
lui per fermarlo. E
mentre il primo diede una botta violenta contro il pavimento, il
secondo riuscì
a buttarvisi all’interno e, con insistenza, a sigillare sotto
chiave la porta.
«Apri questa dannata
porta, altrimenti ti giuro che la butto giù!»
urlò il moro dall’altra parte,
cominciando a tirare pugni dall’altro lato.
Ma le sue
imprecazioni furono vane, poiché bellamente ignorate da
John, che nel frattempo
aveva già colonizzato la stanza.
•
• •
Ore
ventitré e quattro.
«Ecco
fatto!»
Courtney, pienamente soddisfatta del lavoro svolto, chiuse con un
leggero tonfo il portatile sulla sua scrivania.
Evidentemente la tazza di tè che si era concessa e la
piacevole
chiacchierata con Gwen l’avevano visibilmente rilassata.
Gwen. E chi se
l’aspettava che, da un giorno all’altro, avrebbe
preso
l’importante decisione di metter su famiglia con Trent?
Non poteva che esserne felice. Insomma, non capita mica tutti i giorni
che la propria migliore amica si sposi!
Inoltre, durante la conversazione, si era lasciata sfuggire anche un
piccolissimo dettaglio, che avrebbe dovuto essere una gradita sorpresa:
sarebbe
stata la sua testimone. Era stato uno dei momenti migliori della sua
vita,
probabilmente.
Alle volte le sembrava strano, pensare che erano ormai quattro anni che
era andata a vivere a Vancouver. Sembrava ieri quando l’aveva
abbracciata più
forte che poteva in aeroporto, inchiodandola a terra e impedendole di
prendere
il volo, fino a quando una hostess l’aveva dovuta spingere
fuori.
Tante volte si ritrovava a fare il percorso verso
l’appartamento dove
aveva abitato - inizialmente da sola; poi, dopo essersi chiariti, con
Trent -
per un po’, per poi ricordarsi che lei non era più
lì, ma a migliaia di
chilometri di distanza.
Sebbene si organizzassero e si vedessero molto spesso, non riusciva
ancora a realizzare di non averla più accanto. Le mancava
terribilmente.
E ora si sposava.
Già,
ne era passato di tempo, da quando avevano fatto pace, in quel
vecchio bar.
Aveva un disperato bisogno di dormire. Dopo aver lavorato
ininterrottamente per ore, la stanchezza cominciava a farsi sentire.
Inoltre,
era solita anche lavorare di notte, quando non terminava una pratica o
essa era
estremamente lunga, perciò le ore di veglia erano molto
spesso maggiori
rispetto a quelle di sonno.
Stava già iniziando a mettersi sotto le coperte, quando il
palmare,
poggiato sopra il comodino, cominciò a squillare
ininterrottamente. Chiedendosi
chi potesse chiamare a quell’ora così assurda,
sbloccò la chiamata e si portò
il cellulare all’orecchio.
«Pronto?» chiese sbuffando.
«È questo il modo di salutare un vecchio amico che
non si fa sentire da
un pezzo?» rispose il suo interlocutore, avente una voce
molto familiare. «Mi
aspettavo quantomeno un’accoglienza calorosa»
Sospirò: «Senti non ho tempo da perdere con i tuoi
giochetti idioti, Duncan. Dimmi
subito cosa vuoi e
facciamola finita».
«Come siamo acidi, oggi!»
E a quel punto non poté evitare di ridacchiare, anche se
cercò di
mascherarlo al meglio. Non l’avrebbe mai ammesso ma, dopo
tutto, parlare con
lui le faceva veramente bene. Era capace di strapparle una risata anche
se era
stressata o triste.
«Ad ogni modo, John ha deciso di trasferirsi qui da me e ha
preso
possesso della mia camera; adesso sono fuori, lungo il corridoio,
seduto per
terra, con la schiena poggiata al muro e, mentre ti sto parlando, sto
escogitando
un modo per fartela pagare. Perché sì, lo so che
sei stata tu a mandarmelo qui.
Per esempio, che ne dici se venissi sotto il tuo ufficio e ti cantassi
una
serenata? Ho già in mente un bel po’ di
versi».
«Non osare nemmeno pensarci, ti denuncio per
molestie» rispose, con tono
falsamente isterico. «E questa è la mia personale
vendetta per avermi
infastidito tutti i giorni, da circa sei anni a questa parte. Te lo sei
meritato».
«Sì, sono una persona ignobile, lo
ammetto» disse, roteando gli occhi.
«Come seconda cosa, volevo solo darti la buonanotte. Potrebbe
diventare una
specie di rituale».
«Okay» disse semplicemente, con un sorriso sincero
che le spuntava sulle
labbra. Dopo un po’ di silenzio, aggiunse:
«Buonanotte, Duncan».
«’Notte, principessa».
Hayle’s
wall
Ehm, salve gente.
Probabilmente, non avrete la minima idea di chi io
sia, ma alcuni di voi, se c’è ancora gente che
frequentava il fandom circa due
anni fa, mi conoscono… solo che con un altro nome.
Vi ricordate di Solluxy? Ebbene, sono io. Ho avuto una crisi
d’identità
e ho deciso di cambiare nome, esatto. E no, non sono un miraggio. Sono
veramente tornata nel fandom; per giunta, l’ho fatto
pubblicando il sequel di
una fan fiction che scrissi nel luglio 2013 - «La storia
inversa ~ Ovvero, come
distruggersi in sette giorni», “famosissima”,
si fa per dire, fan fiction Duncney. Quindi, se siete arrivati qui e
siete un
po’ confusi, vi consiglio di dare una letta veloce - per
quanto possa fare
pietà - al prequel. Giusto per chiarirvi le idee.
Era da secoli che volevo pubblicare questo sequel; ora, a distanza di
due anni, ho finalmente trovato l’ispirazione necessaria per
portarla avanti.
Spero che possa essere di vostro gradimento e, come il suo prequel,
conterrà sette capitoli, uno per ogni giorno della
settimana, fino ad arrivare
al finale più dolce di tutti. Lo giuro, questa volta
sarà definitivo.
L’aggiornamento dovrebbe essere abbastanza veloce,
poiché ho molte idee
per questa storia - devo solo metterle per iscritto - e il secondo
capitolo è
quasi completo. Inoltre, vorrei anche pubblicare una one shot/song-fic
Duncney:
non appena troverò un modo quantomeno decente per
continuarla e concluderla, la
pubblicherò.
Se trovate qualche errore, fatemelo sapere. Io ho ricontrollato ma
è
probabile che mi sia sfuggito qualcosa.
Angolino uno di sette completato, non mi resta che salutarvi. Ci
vediamo
nel prossimo capitolo e nelle recensioni.
Hayle xx
P.S. Vi consiglio, per vostra
sanità mentale, di non andare a cercare Nyan Cat su
Youtube. Fidatevi.