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Autore: L o t t i e    20/10/2015    1 recensioni
Michael Meyer ha dodici anni quando viene adottato da una famiglia giapponese, i Fujiwara: nuovo paese, nuovi genitori, nuova casa... Non parla molto, non conoscendo una parola di giapponese, ma il suo nuovo fratello maggiore si impegna a fargli da insegnante nonostante non vadano molto d'accordo.
La quasi perfezione della sua nuova vita va in frantumi quando le conseguenze del suo passato vengono inevitabilmente notate, quando i suoi vuoti di memoria divengono più frequenti e, a seguito di una diagnosi, un nome dato a ciò che gli accade. Convivere con altre tre personalità come se il suo corpo fosse un appartamento non è facile e dopo sette anni di cure riesce a trovare un equilibrio stabile, vedendo finalmente la luce in fondo al tunnel.
Ma... come procederà la sua già incasinata vita dopo aver fatto la conoscenza di Hajime? Quando scoprirà che il ragazzo è innamorato di lui il suo equilibrio verra nuovamente spezzato, riuscirà a ricomporre i pezzi del proprio cuore?
Genere: Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 00.








10.05.2007

«Michael?»
Il dodicenne non aveva spiccicato neanche una parola durante il viaggio. Si limitava solo ad osservare, a tratti apatico, altri interessato o curioso i coniugi giapponesi. Arricciava il nasino quando la sua nuova mamma chiamava il suo nome, forse non gli piaceva la pronuncia distorta che somigliava più ad un “Mikaela”, chissà. Gli assistenti sociali avevano informato dettagliatamente Tomoko e Hideyoshi Fujiwara della precedente e delicata situazione che aveva coinvolto il ragazzino, Michael Meyer, prima di divenire orfano ed essere affidato al Orphanage of Innocents. Eppure, prima di partire, Michael era davvero entusiasta, conversava con i due coniugi e sembrava essersi già affezionato alla nuova mamma―non vedeva l'ora di incontrare il suo fratellone, Rei.
Tomoko scacciò gli orribili pensieri che le si erano formati in mente e si avvicinò al ragazzino, carezzandogli il capo color del carbone.
«Prima di arrivare a casa ti andrebbe un gelato?»
Lui la guardò, gli occhi celesti vispi, poi annuì con vigore.

L'abitazione dei Fujiwara era enorme, o almeno appariva così a Michael: avere già solo una stanza tutta per sé lo elettrizzava un sacco. Dopo aver visitato la struttura da cima a fondo, arrivò in casa Rei, reduce da una giornata all'università, non proprio elettrizzato all'idea di avere quel marmocchio per casa. Rei Fujiwara era un ragazzo alto, molto alto, di diciannove anni; capelli neri, taglio a spazzola e occhi marrone scuro. In primo luogo neanche ricordava che quel giorno i suoi genitori sarebbero tornati dall'America con il suo nuovo fratellino, poi notò l'euforia dei presenti in cucina. I nonni, zii e zie―perfino Ukyo, il gatto, erano tutti presi dal dodicenne.
La madre lo rimproverò del ritardo, poi lo presentò a Michael.
«Ehylà, piccoletto», lo apostrofò amichevolmente, guadagnandosi un'occhiata storta dal suddetto. Arcuò le sopracciglia riconoscendo il pessimo modo di salutare il nuovo arrivato che avrebbe vissuto da quel giorno con loro. Si piegò sulle ginocchia, per osservarlo direttamente in viso. «Michael, io sono Rei, spero diventeremo amici», gli sorrise.
Ancora una volta il dodicenne si limitò a fissarlo con quei occhi gelidi, mosse appena le labbra in un muto “I hate ya”.

11.03.2008

Non era passato neanche un anno e Michael era già diventato a tutti gli effetti Mika o Mikaela, quel nomignolo, pensava ogni tanto, sembrava inevitabile, meglio quindi farsene una ragione. In famiglia erano diventati tipici i cambi d'umore dell'ormai tredicenne, accompagnati sempre dalla solita frase «non mi ricordo»―con Rei aveva instaurato una sorta di rapporto amore-odio, come prevedibile. La maggior parte delle volte entrambi passavano il tempo a lanciarsi frecciatine o solamente Rei scimmiottava Mika e allora lui correva da Tomoko a singhiozzare «come una femminuccia». Nelle altre rare volte, il ragazzo più grande si sedeva in compagnia del più piccolo, in quei momenti quasi sempre caratterizzato da un forte cinismo e lo aiutava a mettersi in pari con gli studi e gli insegnava la lingua per permettergli di frequentare la scuola. Imparava velocemente, nonostante a volte si ostinava a parlare inglese, con un bizzarro accento britannico.
Fin lì nulla di troppo strano.
Ma la preoccupazione di Tomoko arrivò alle stelle un mese dopo, quando una sera, in seguito ad una piccola discussione con Hideyoshi, Mika divenne improvvisamente cupo e silenzioso. Ciò che fece accapponare la pelle alla madre fu il soffocato rantolio del marito che provava a togliersi di dosso il ragazzino intento a strozzarlo.
«Non è normale per un ragazzino avere tutta quella forza!», sbottava, «abbiamo adottato un bambino malato!», urlava ancora.
«È colpa di Shidu!», si difendeva Mika in lacrime, rifiutandosi categoricamente di scollarsi dalla madre adottiva. Quest'ultima non sapeva come comportarsi: conscia del rancore che portava il ragazzo verso gli uomini in seguito ai maltrattamenti del padre biologico, Tomoko suppose che, vedendola discutere con Hideyoshi, Mika avesse voluto solamente difenderla, a modo suo. Dall'altra parte non poteva accettare questo gesto così violento, ma nemmeno cedere alle disperate proposte del marito per riportare il ragazzo all'orfanotrofio, appoggiato in parte da Rei.
«Non è un oggetto!», s'infuriò a quel punto, rossa in viso. Strinse a sé Mikaela, che tremava, poi lo prese per le spalle, osservandolo dritto negli occhi. «Mika, perché hai fatto male al papà?»
«I-io non mi ricordo!», singhiozzò ancora lui. «È stato Shidu!»
«Bugiardo cronico», sogghignò Rei.
«Mika, non... si... dicono... le... bugie!», scandì bene la donna con esasperazione.
Il pianto del tredicenne si interruppe di colpo. Michael chinò il capo in avanti per qualche attimo, scosso nel frattempo per le spalle da Tomoko, quando poi lo risollevò, parve intontito: si guardandò intorno come chi si è appena svegliato da una lunga dormita, battendo lentamente le palpebre. «Mamma, perché sei arrabbiata?», domandò accorgendosi inseguito di avere le guance rigate dalle lacrime.
Tomoko si pietrificò, portando una mano alle labbra. Rei si limitò al silenzio, impallidendo di colpo, Hideyoshi aggrottò la fronte con aria perplessa.

22.04.2008

Finalmente, i due coniugi si decisero a portare il ragazzo da uno psicologo loro amico per accertarsi delle condizioni mentali di Mika, nonostante al momento - e anche prima - dell'adozione era stato dichiarato che il ragazzo fosse sano.
Arata Kiyomizu era un uomo sulla quarantina con i capelli brizzolati, alto all'incirca un metro e settantacinque. Appena vide Tomoko e Hideyoshi accompagnati dal figlio adottivo sorrise salutandoli. Chiacchierarono per qualche minuto del più e del meno prima di arrivare dritti al punto. Michael nel frattempo sembrava tranquillo, seduto sul divano in pelle nera vicino ad una ragazza intenta a controllare il suo profilo di twitter. Ogni tanto lo si vedeva muovere le labbra, come se stesse conversando con qualcuno.
«Ha subìto maltrattamenti da suo padre e forse anche abusi, poi la madre a chiesto il divorzio, ma è caduta in depressione. Arata, quel bambino ha visto la madre suicidarsi», raccontò con angoscia Tomoko, «è stato già seguito da uno psicologo prima dell'adozione, ma pensiamo che Mika abbia bisogno di un aiuto. Ti sto parlando da madre», la donna strinse la mano del marito, «oltre che da amica.»
Arata annuì comprensivo. «Capisco, gli farò qualche domanda. Vi ammiro molto», proseguì, «molto probabilmente qualche altra coppia lo avrebbe rispedito in orfanotrofio.»
Hideyoshi strinse le labbra.

Non aveva senso essere troppo formale con un ragazzino di tredici anni, pensò Arata, quando accompagnò Michael nel suo studio. Gli si sedette vicino.
«Perché sono qui?», domandò il tredicenne.
«Solo per capire come stai», fu la semplice risposta di Arata, noncurante dell'accento inglese dell'altro―dopotutto Mika fino all'anno scorso aveva vissuto in America.
Per tutta risposta il ragazzino aggrottò la fronte, «Signore, non sono certo nato ieri. Cosa vuole sapere?», sbottò.
Arata rimase per un attimo interdetto. «Ovviamente», scherzò, «ti va di parlarmi della tua nuova famiglia?»
Il tredicenne sbuffò seccato, poi roteò lo sguardo, fissandolo sulla scrivania che vi era nella stanza. «Il gatto è affascinante, mi piacciono i gatti: Ukyo è davvero intelligente, al contrario degli altri. Tomoko è definibile come la madre perfetta, ma non ci ho mai parlato molto... Rei mi ha insegnato il giapponese, quindi è okay, mentre lui non mi piace e neanche lei, signore, mi va a genio.»
«Però tua madre mi ha detto che l'aiuti molto in casa e tuo―»
«Mittsu aiuta quella donna», sussurrò, stringendo le mani in grembo. «Lei non è nostra madre.»
Arata si passò una mano tra i capelli: il modo di dialogare di quel ragazzo lo incuriosiva. «Mittsu? È una tua amica?», gli arrivò un'occhiata torva, poi Mika annuì.
«Credo si possa considerare “mia amica”, sì.»
«E potrei incontrarla?»
«Magari la prossima volta», ironizzò.
«Invece chi è Shidu?»
«Chi ha parlato di lui?»
«Non sei stato tu, Michael?»

Dopo un'ora abbondante di conversazione, Arada aveva finito con l'appuntarsi alcune cose su carta. Mika alla fine si era chiuso in se stesso e si rifiutava di aprire ancora bocca. Aveva già compreso bene o male cosa avesse il ragazzino e sapeva anche a chi indirizzare Tomoko e Hideyoshi per risolvere il problema. «Mia figlia Shiraki», li informò, «è una psichiatra specializzata nei disturbi della personalità. Sono abbastanza sicuro che si tratti di questo. La chiamerò per informarla del caso di Mika, non preoccupatevi.»

02.05.2008

«Ciao, come ti chiami?»
«Michael Me―Fujiwara», mugugnò il ragazzino, osservando di sottecchi la ragazza dai lunghi capelli castani e gli occhi da cerbiatto dello stesso colore. «Ma tutti mi chiamano Mika.»
«Piacere di conoscerti, Mika. Io mi chiamo Shiraki», sorrise l'altra. «Mi hanno detto che a volte non ricordi delle cose e dicono che dici le bugie.»
«Ma io dico la verità! Non sono stato io a far male a..!», scattò il ragazzo.
«Ti credo, ti credo», intervenne immediatamente Shiraki, «puoi dirmi chi è stato? Posso parlare con lui?»
Mika si strinse nelle spalle, come se sentisse freddo. «Shidu», sussurrò solamente. «Sta sempre con me, a volte dice che devo andare a dormire perché deve proteggere Tomoko o lei andrà via come la mamma. Ma... N-non vuole che ne parli...» il ragazzino si sfregò gli occhi, con fastidio.
«Anche ora è qui? Ti sta parlando?»
Michael socchiuse gli occhi, stringendo le labbra, stette in silenzio per qualche attimo, poi rilassò i muscoli delle spalle, alzando lo sguardo torvo sulla ragazza. «Ci stai dando fastidio», ringhiò.
Shiraki rimase impassibile al cambio di personalità, si limito solamente a chinare il capo d'un lato, portandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Tu sei Shidu?»
«Probabile.»
«Sai cosa sta accadendo?»
«Certo.»
«Quindi tu e Mika condividete i stessi ricordi.»
«Non sempre.»
«C'è qualcun altro? Puoi parlarmene?»
«Perché dovrei?», la sfidò lui.
Shiraki continuò ad osservarlo, composta, fin quando non lo costrinse ad abbassare lo sguardo. A quel punto Shidu sbuffò, evidentemente seccato.
«Sì, io li conosco. C'è il tipo di londra e la coreana, ma lei è nuova. Una rompi palle. Michael non li conosce, solo io posso parlare con tutti. A volte loro si intromettono nei discorsi, ma Michael non capisce, non è tanto sveglio il ragazzo», ridacchiò.
«Hai tentato tu di strangolare il padre di Mika?»
«Io e il londinese non li consideriamo nostri genitori, comunque sì. Quel tipo ha urlato contro la donna e io non sopporto queste cose, qualcosa dovevo pur fare», parlava quasi con disinteresse, picchiettando le dita sulla coscia. «Vorrei andarmene ora, mi stai scocciando.»
«Prima che tu vada, posso conoscere gli altri?»
Shidu aggrottò la fronte. «Per chi mi hai preso? Non decidiamo mica noi quando uscire!»
«Ah, no?» Incalzò Shiraki.
«No! Ma sei troppo stupida per capirlo.»
«Ehy, si parla così a una ragazza?»
Shidu ghignò, «ma tu sei un dottore, non una ragazza.»






  
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