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Autore: piccolo_uragano_    25/10/2015    0 recensioni
«Perché non resti?»
«Restare? E per quanto?»
«Per un po’. Magari, per sempre.»
«Nessuno resta per sempre, Marco.»
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Semplicemente, un pomeriggio d'ottobre mi sono chiesta per chi Marco Masini abbia scritto 'niente d'importante', e si sa, i miei viaggi mentali sono assurdi.
Genere: Sentimentale, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Irene poteva vantarsi di avere una vita assolutamente tranquilla.
Eppure ora, in piedi in un bar, le tremavano le gambe.
Aveva avuto spesso la sensazione che una canzone fosse stata scritta per lei. Le era successo da ragazza, le era successo prima di sposarsi, le era successo prima di diventare mamma. Ma era diverso. Era diverso perché adesso, in piedi in un bar, ascoltando quel nuovo pezzo, sapeva che quella canzone era stata scritta per lei, perché conosceva fin troppo bene gli occhi del cantante.
Pagò il caffè, sicura di avere una faccia sconvolta, solo quando fu certa che la canzone fosse finita. D’altra parte, lui glielo aveva sempre detto, lei aveva un’anima masochista. Cercò di sorridere al ragazzo del bar, poi uscì e si sedette nuovamente in auto.
Sapeva dove andare, sapeva dove trovarlo: lei sapeva sempre dove trovarlo.

«Hai scritto un nuova canzone?» disse, con le braccia incrociate sul petto, quando lui le aprì la porta.
«Può essere.» rispose lui, guardandola attraverso gli occhiali.
«Hai scritto una canzone su di noi
Lui si irrigidì. Lei non aveva mai osato parlare di loro due come ‘noi’.
«Può essere.» ripeté lui.  «Vuoi un caffè?»
«No.» rispose lei, secca. «Voglio sapere perché hai scritto una canzone su di noi.»
«Il motivo sta nei primi due versi, Irene.»

Non è niente d’importante
solo che mi sono innamorato di te


Irene gonfiò il petto, e senza pensarci, tornò sui suoi passi, tornando verso la macchina e mettendo in moto.
No,  si disse, non poteva essere vero.
Si erano conosciuti tre anni e mezzo prima, al matrimonio di una donna che Irene conosceva poco, ma sua sorella conosceva bene. Irene si era da poco separata, e aveva visto seduto al bar quell’uomo, con la barba e i capelli brizzolati, gli occhiali con la montatura scura e una voce profonda, rauca e rassicurante. Quasi per scherzo, si era avvicinata a lui, con la dannatissima convinzione di averlo già visto, da qualche parte. Avevano riso e scherzato fino a tarda notte, e lei si era resa conto che lui era un qualche cantante famoso, che quando lei se ne intendeva di cinema tutti avevano preso in giro.
Ed erano iniziati così. Senza che se ne rendessero conto, senza chiedere o dire niente a nessuno: una domenica Firenze con la neve era caduta ai loro piedi, e loro si erano ritrovati sotto le coperte a giocare a fare gli amanti. Ed era stato così, domenica dopo domenica. Ora dopo ora, come due ragazzini, a scoprire il corpo dell’altro in quanti più modi possibili.

Ma non è niente d’importante
una febbre lieve che poi passa da sé.


Lui la trovava bellissima: era bassina, con i capelli rosso fuoco sparati in aria, un sorriso che lo rapiva ogni dannata volta, gli occhi verdi come i prati d’estate, quel suo modo di essere cinica, ma di riuscire a trasmettergli comunque cose bellissime, soprattutto quando si aggirava per la casa con la camicia di lui e poi diceva «Perché amo avere il tuo odore addosso». Lei e i suoi baci leggeri, lei, lui, loro e il loro trovarsi, senza accordi e senza regole, semplicemente quando ne avevano voglia: lui era un vagabondo, girava di città in città ogni settimana, mentre lei aveva la sua vita abitudinaria a Firenze.
Prima di tutto, era una mamma: sette anni prima aveva avuto Arianna, una bambina bionda dolcissima che lui conosceva bene. Spesso, in una delle loro domeniche chiusi in casa, avevano tirato l’ora di cena, l’ora in cui suo padre la riportava a casa dopo il finesettimana. Lui rimaneva seduto in cucina, e la ascoltava parlare con tono freddo all’ex marito. Parlavano del saggio di danza di Arianna, del compito in classe di Arianna, del mal di pancia di Arianna. Irene usava un tono freddo, distante: niente a che vedere con il tono dolce e affettuoso che usava quando parlava con lui, pensò la prima volta che si trovò davanti la bambina. Arianna lo fissava curiosa, ma non intimorita. Irene era tornata in cucina e poi aveva detto «Amore, lui è il mio amico Marco» e la bambina gli aveva sorriso. Aveva cinque anni, e non si chiese nulla i più. Ma il tempo passava, Arianna cresceva, trovare Marco in casa la domenica sera era quasi abitudine e la piccola iniziava a fare domande.

I nostri soliti incontri da amici speciali
i gesti sincronizzati dei nostri rituali


Arianna aveva iniziato a chiedersi qualcosa sul rapporto tra sua madre e Marco quando lui, convinto di fare una sorpresa a Irene, si era presentato un sabato sul tardo pomeriggio con due bottiglie di birra, ma ad aprire era stata la piccola, con addosso un vestito da principessa, una corona ed una strana bacchetta magica. 
«Marco, oggi è il mio compleanno!» aveva annunciato la piccola, e lui aveva notato, dietro di lei, una dozzina di bambine vestite nello stesso modo che lo fissavano curiose. Prima che potesse rispondere, Irene era apparsa dalla cucina.
«Maso?»  aveva chiesto stupita. «Benvenuto nel regno di ragazzine di sette anni urlanti!»
Lui l’aveva guardata, trovandola bellissima anche con quell’aria esausta. «Ti ho portato la birra, mamma della festeggiata!»
Lei aveva chinato indietro la testa e aveva riso. «Vieni, io posso offrire solo patatine e torta al cioccolato.»
«Oh, io amo la torta al cioccolato.» le aveva risposto, entrando in cucina.
Conosceva già la sorella di Irene, Sara: le somigliava in modo terrificante, ma i suoi capelli erano neri e lunghi. Sara lo scrutava con curiosità, ricordandosi più che chiaramente che era stata lei a trascinare Irene al matrimonio dove aveva conosciuto Marco, ed era più che consapevole che ormai fossero passati anni. Così, Marco era rimasto a scherzare con lei, Irene, e con tutti i genitori che, pian piano, erano passati a ritirare i figli. Alcuni gli chiedevano se lui fosse ‘quel cantante’, e lui rispondeva che ora era solo uno degli ospiti di Arianna. Nel giro di un paio d’ore, Sara aveva improvvisato alla piccola Arianna un invito al cinema, e Irene e Marco si erano ritrovati a fare l’amore tra i regali della piccola, senza smettere di ridere.

Ed è difficile poi fingere che sia tutto normale
riconoscere il confine tra sfogarsi e far l’amore
quando prendi le tue cose, mi sorridi,
dici “è tardi” e vai via.


Lei lavorava in una scuola elementare, e amava insegnare ai bambini cose che, lo sapeva, lei da piccola aveva odiato. Una volta gliene aveva parlato, di quando era piccola e odiava studiare, abbracciati nel letto a ridere e guardare l’alba. Poco dopo, Sara le aveva telefonato dicendo che quella mattina la loro madre era morta: Irene non aveva detto niente, non aveva pianto, non aveva mosso un muscolo. Era rimasta seduta sul letto e poi, con gli occhi vuoti, se n’era andata. Allora lui, il giorno dopo, si era fatto trovare all’uscita da scuola, in mezzo ai genitori. Lei gli aveva sorriso, scuotendo la testa. Poi lui l’aveva osservata fermarsi a parlare con i genitori di un ragazzino dall’aria pestifera, salutare le colleghe e poi si era avvicinata a lui con aria divertita. «Ciao, disperato» aveva scherzato «cosa ti porta da queste parti?»
«Il richiamo di una principessa.» le aveva fatto il verso lui, visto che lei per prima aveva citato una sua canzone. «Devi andare a prendere la principessina?»
«Sì»rispose lei, stupita che se ne ricordasse. «Tra due ore, a danza.»
Allora lui, senza pensarci, era saltato in macchina e le aveva fatto cenno di seguirla sulla sua Punto. Una volta a casa, si erano strappati i vestiti come se scottassero, e mai, mai Irene era stata tanto bene e male assieme.

Non è niente, d’importante
ma stanotte non mi basta averti così.
E forse pensi sia incoerente, disarmante,
ma questa volta avrei voluto restassi qui …
per sempre.


Non si erano mai dati delle regole, pensava Irene in macchina, ma, qualche settimana prima, lui per la prima volta le aveva chiesto di restare. Restare. Le sembrava una parola davvero strana, nuova. «Perché non resti?» le aveva chiesto, mentre lei si rivestiva.
«Restare? E per quanto?» aveva domandato lei in risposta, infilandosi la maglietta.
«Per un po’. Magari, per sempre.» lui si era avvicinato a lei e l’aveva quasi supplicata con lo sguardo.
«Nessuno resta per sempre, Marco.» gli aveva risposto, posandogli un leggero bacio sulle labbra. «Ci vediamo presto, okay?»
E se n’era andata: aveva recuperato Arianna da sua sorella Sara, che si divertiva moltissimo a stare con lei. Sara, vedendola entrare, aveva sorriso, e mentre l’abbracciava le aveva sussurrato «Hai la maglietta a rovescio.» Irene, con il panico nello sguardo, aveva trattenuto sua sorella e aveva risposto «Mi ha chiesto di restare …»
Sara si era allontanata da lei quel tanto che bastava per guardarla negli occhi, e Irene si rese conto che, per la prima volta in tre anni, aveva parlato con qualcuno di quel strano rapporto che la teneva incatenata a Marco. «Vieni, ti faccio un tè.» l’aveva rassicurata Sara, che, in cuor suo, sapeva già tutto.
 
E non mi basta esser quello che ti da una mano,
quando non parte la macchina o fai qualche casino,
sempre lì se ti serve un consiglio, e non so darne a me, mai!

Erano passati due settimane da quel ‘per sempre’ negato, quando lei si era ritrovata in mezzo alla strada a cercare di non imprecare davanti alla bambina, perché la macchina si era fermata in mezzo al nulla e lei di macchine non ci capiva proprio niente. Sara era a Roma per lavoro, e Irene e suo cognato non andavano per niente d’accordo. «Mamma, chiedi a papà.» aveva suggerito Arianna.
«Papà è al lavoro.» aveva replicato lei, senza pensarci. La verità, era che il suo orgoglio non le permetteva nemmeno di pensare di chiamare l’ex marito.
«Allora chiama il tuo amico Marco, mamma.»
A questo, Irene non era stata in grado di replicare. Appoggiata contro la portiera chiusa della macchina, aveva scrutato sua figlia, con i capelli mossi dal vento. Si stava facendo buio, quella era una strada isolata, e, soprattutto, la bambina aveva il carattere irascibile del padre. «Okay, passami il telefono.»
Arianna aveva eseguito, sorridendo: non si rendeva conto della gravità della situazione, e Marco le stava simpatico: le sembrava dolce, e più volte aveva chiesto a sua mamma di poterlo vedere più spesso. Lei aveva sempre cambiato argomento.
Irene aveva premuto il dito su ‘M’, perché Marco era registrato solo ‘M’, perché le sembrava di essere ancora ragazzina quando scriveva le iniziali del ragazzo che le piaceva su ogni quaderno.
«Marco, ho fatto un casino.» aveva detto, quando lui aveva risposto.
Lui, senza fare troppe domande, l’aveva ascoltata e poi le aveva detto: «Sto arrivando, principessa, tranquilla.»
Quando era arrivato, sfrecciando su quella macchina nera opaca, Arianna era sull’orlo di una crisi di nervi e Irene stava seduta per  terra, con la testa tra le mani. Lui era sceso dalla macchina e l’aveva guardata per qualche secondo, poi si era chinato davanti a lei. «Va tutto bene.» aveva provato a dirle.
Lei aveva alzato gli occhi. «Sono un disastro.» aveva replicato. «Porta via Arianna, ti prego.»
Lui, in risposta, aveva scosso la testa. «Io e Arianna non andiamo da nessuna parte, senza di te.»
Lei, commossa da quel gesto, gli aveva accarezzato il viso, e Arianna, guardandoli, non aveva potuto fare a meno di paragonarli a un principe e una principessa delle fiabe. Lui si era alzato e aveva guardato la bambina. «Principessina, ti piace la pizza?»
Così, ignorando ogni protesta di Irene, Marco le aveva portate a mangiare la pizza a casa sua. Arianna aveva mangiato una ‘pizza gigante con sopra tutte le patatine del mondo’, che puntualmente era stata finita da Marco e Irene, perché lei aveva scoperto che nell’enorme salotto dell’attico di Marco c’era un cagnolino con cui giocare, e si era addormentata sul divano poco dopo.
Irene la guardava dormire con le braccia incrociate sul petto, una felpa di Marco addosso e una tazza con una camomilla in mano.
«Arianna è bellissima.» le aveva detto Marco, guardando la piccola addormentata.
Irene sorrise. «Si, lo è.» poi si girò verso di lui. «Mi dispiace per  non essere rimasta, due settimane fa, davvero. E grazie per oggi, non ce l’avrei fatta, senza di te.»
Lui le posò una mano sulla spalla. «Vai a dormire anche tu, dai.» Lei aveva provato a dire che no, sarebbero tornate a casa, in qualche modo, perché l’indomani mattina presto sarebbero dovute andare a recuperare la macchina dal meccanico. Marco aveva obbiettato facendole notare che pioveva fortissimo e non avrebbe smesso prima dell’indomani pomeriggio, ma lei continuava ad essere categorica. No.
E, per la prima volta, quasi litigarono. Ma lui le disse «Fatti aiutare, per una volta.»
In quel momento, le fu tutto chiaro: Marco aveva imparato a conoscerla, e questo le faceva paura. Così, senza aggiungere nulla, si era avviata verso la zona notte e si era seduta sul letto della camera degli ospiti, sorseggiando la tisana con aria pensierosa. Marco le aveva fatto notare che quella era la stanza in cui avrebbe voluto portare la piccola addormentata, ma lei rispose che avrebbe fatto da sola, di non preoccuparsi. E così fece: posò la tazza sul comò e tornò in salotto, dunque si avvicinò al divano e raccolse la piccola, addormentata, e Marco, guardandola, si rese conto che, probabilmente lo aveva già fatto mille altre volte nel corso degli anni che aveva passato da sola. Senza dire una parola l’aveva portata nella camera degli ospiti e l’aveva adagiata sul letto, le aveva rimboccato le coperte e le aveva baciato la fronte. Conscia del fatto che lui fosse poggiato allo stipite della porta ad osservarla, si era levata i jeans, e con addosso quella felpa che sapeva di lui, si era addentrata nel piumone azzurro accanto a sua figlia.
Lui le aveva sorriso e poi se n’era andato, scuotendo la testa. Era dannatamente testarda, e non sarebbe cambiata mai, ma a lui piaceva proprio così. Non si stupì quando, poche ore dopo, la sentì entrare nel suo letto. Lasciò che si adagiasse sul suo petto, e per la prima volta dormirono insieme senza aver fatto sesso, o l’amore, dipende dai momenti, quella notte dormirono insieme perché avevano bisogno di sentire l’altro accanto.
 
Come un pupazzo dentro un gioco a premi tiro a indovinare
in quale vita, in quale letto ti risvegli e vai a dormire

Irene, in macchina, si coprì il volto con una mano, costringendosi ad accostare. Perché stava così? Che potere aveva quell’uomo su di lei, per poterla fare stare così? Non stavano insieme, non erano amici, probabilmente si, erano solo amanti, ma non lo aveva scelto, non lo avevano deciso. Guardando i suoi occhi gonfi nello specchietto retrovisore, si maledisse: perché, perché stava piangendo? Non aveva pianto neanche al funerale di sua madre, un anno prima, non aveva pianto quando suo marito se ne era andato di casa, perché piangeva adesso? Perché piangeva per Marco?
 
Studio bene le mie carte, punto sempre tutto
e non vinco mai.

«Perché hai detto ‘per sempre’?» le sembrava ancora di sentire l’eco della sua voce, sul pianerottolo della casa di Marco, un lunedì mattina, cinque giorni dopo l’incidente della macchina. Lui era in pigiama, assonnato e senza occhiali, ma anche un cieco avrebbe visto la confusione nei suoi occhi.
«Perché in quel momento mi sentivo di dirtelo.»
«E non hai pensato che mi avresti spaventata?»
«E tu non hai pensato che è ora di smetterla?»
Lui rientrò in casa con fare assonnato. Lei lo seguì, chiudendosi la porta alle spalle.
«Smetterla di fare che cosa, esattamente?» allargò le braccia. «Smetterla di vederci?»
«Non ho detto questo, Irene, questo lo stai dicendo tu.»Quel dito puntato verso di lei le fece tremendamente male. «Vuoi che smettiamo di vederci?»
Lei era rimasta a fissare quel dito puntato contro il suo petto. «No.» aveva sussurrato, poi. «E tu?»
«No.» lui aveva risposto in modo più serio, e aveva risposto subito. «Non credo che ce la farei, senza te.»
«A me piace cosa siamo, Maso. Mi piace davvero.» gli confessò.
Lui amava quando lo chiamava così, mischiando nome e cognome, sacro e profano. Allora l’aveva baciata, le aveva sorriso e poi si erano baciati di nuovo, ancora e ancora.
 
Ma non è niente d’importante
solo che non ho il coraggio di dirti addio
e tu lo trovi divertente,eccitante,
una grande attrice, la comparsa devo farla io!

La sera stessa, Irene si recò al saggio di Arianna. E non lo seppe mai, ma Marco guardò fiero quella bambina ballare, dal fondo del teatro. Aveva cercato la testa di Irene tra quelle dei genitori, e l’aveva trovata in prima fila, accanto all’ex marito con la freddezza di due sconosciuti. Arianna era davvero bravissima, sembrava che volasse, e il tutù le stava d’incanto. Sorrise a una delle insegnanti e riuscì ad entrare dietro le quinte, prima della fine dello spettacolo, mentre si esibivano le ragazzine più grandi. Lei lo aveva notato subito e aveva esclamato «Marco Maso!» ridendo, ed era corsa ad abbracciarlo.
Lui si era chinato e l’aveva stretta forte a sé. «Sei bravissima, principessa.» le aveva sussurrato, schiacciandogli l’indice sul naso.
«Andiamo a mangiare ancora tutti insieme?» chiese la piccola, speranzosa.
«No, non credo proprio. La mamma non sa che sono qui.» le confessò. «E non lo deve sapere. Sarà il nostro segreto, intesi?»
Lei annuì, alzò il pugno e tirò fuori il mignolo, e lui ci mise qualche secondo per capire che doveva fare la stessa cosa. «Intesi, Marco Maso.» gli disse, mentre la sua manina scompariva accanto a quella dell’uomo. Lui le baciò la fronte, e, incurante di tutto, uscì dal retro, sentendosi improvvisamente soffocare quando si rese conto di essersi affezionato alla bambina.
 
Sempre in guerra col dio dell’amore non ti arrenderai,
perché amare è un dolore dolcissimo che tu non proverai.
E vorrei tanto lasciarti e salvarmi la vita,
ma come faccio a lasciarti se io non ti ho avuto mai?

Irene era scesa dalla macchina. Si era permessa di piangere, poggiata con la schiena alla portiera chiusa. Poi, lentamente, era rientrata in auto ed era andata a casa di sua sorella, rendendosi conto di essere dannatamente sola. Era rimasta lì per delle ore, poi aveva chiamato il padre di Arianna, chiedendo di poterla passare a prendere prima dell’ora prestabilita, giustificandosi dicendo di avere bisogno della sua bambina. Lui capì che doveva essere successo qualcosa, perché non obbiettò e spiegò ad Arianna che probabilmente la mamma era triste, e così la bambina l’aveva trovata. Con gli occhi gonfi, le mani tremanti e lo sguardo perso. Le aveva preparato la cena, mentre la piccola le raccontava la storia di quel cartone animato che era andata a vedere al cinema.
Improvvisamente, suonò il campanello, ma Irene non si stupì. «Tua zia è troppo apprensiva, Arianna.» disse, scuotendo la testa. «Valle ad aprire, per favore.»
Arianna aveva eseguito, ma dietro la porta, anziché trovare sua zia Sara, trovò Marco con due birre in mano e una barbie nell’altra. «Ciao, principessina.» la salutò, sussurrando, portandosi il dito sul viso facendole segno di stare in silenzio. Si era avviato verso la cucina, e si era appoggiata con la spalla allo stipite della porta. «Ho scritto una nuova canzone.» esordì.
Lei si voltò, e lasciò che lui notasse i suoi occhi gonfi e il suo sguardo perso. «Può essere.» rispose, decidendo anche lei di riutilizzare le battute di quella mattina.
«Ho scritto una canzone su di noi, Irene. Ed il motivo è che sono innamorato di te.»
 
E adesso torna pure a recitare il tuo film
E se per te non sono niente d’importante
Almeno un graffio sulla pelle ti lascerò
per sempre, per sempre. 




 
Semplicemente, dopo il concerto del Maso, mi sono chiesta a chi fosse dedicata 'niente d'importante'.
Ho chiesto aiuto alla mia piccola serpe Flavia, che mi ha riempita di idee, e dopo un pomeriggio davanti al computer, pubblico subito.
Ho scelto in nome Irene perchè mi piace immaginare come suona con l'accento fiorentino di Marco, e il nome Arianna perchè richiamava Anna, nome della mamma di Marco che lui ha tatuato sul braccio.
Grazie a chi c'è e anche a chi non c'è. 

C
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