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Autore: Walpurgisnacht    27/10/2015    1 recensioni
In una delle linee temporali di Frequency, Max e Chloe fanno una bruttissima fine. Il testimone della loro indagine e della ricerca della verità passa all'ultima persona che vi potreste aspettare... che da bravo genio del male vi ho spoilerato nel titolo.
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"Signorina, gradisce qualcosa?".
Una lobotomia, per favore. Devo cancellare gli ultimi due giorni della mia vita.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Victoria Chase
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Frequencies'
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“Signorina, gradisce qualcosa?”.
Una lobotomia, per favore. Devo cancellare gli ultimi due giorni dalla mia vita.
“No grazie, a meno che non serviate qualcosa di alcolico e molto forte”.
“Mi spiace, ci limitiamo a bevande analcoliche”.
“Allora non mi può aiutare”.
“Come desidera”.
Neanche la guardo mentre passa a chiedere al prossimo passeggero.
Pianto gli occhi sul soffitto.
Sono esausta. Esausta.
E piena di domande.
Oltre al fatto che non sto esattamente bene, a livello fisico e a livello emotivo.
Diciamo che voglio dormire per i prossimi quindici anni per riprendermi.
Piacere, Victoria Chase. Diciotto anni. Reduce da circa ventiquattro ore di follia, morte e colpi apoplettici.
E no, non sto esagerando.
Tutto è cominciato ieri sera, alla festa del Vortex Club di cui sono -ero?- l'ape regina e signora incontrastata. Quel che dico è legge, gli altri sono miei sudditi fedeli e bla bla bla.
Solita festa da liceali. Musica alta, marijuana e birra a fiumi.
Poi la premiazione. C'era l'Everyday Heroes e, senza falsa modestia, mi sentivo in pole position. La mia foto era di un'altra qualità.
Sul palco sale il signor Jefferson, il professore più sexy e figo della storia dei professori. Vedi che non me ne fregava niente se ha più del doppio dei miei anni, se me lo avesse permesso me lo sarei ribaltato in ogni modo possibile e immaginabile. E non solo per averne degli ovvi vantaggi in primis col suddetto concorso, ma semplicemente perché mi faceva un sesso pazzesco.
Indovina? Vinco io. Il mio DILF preferito mi chiama per ritirare il premio, il discorso e tutta quella fuffa. Anche se la parte su Kate era sincera.
Fino a qui tutto bene. Oserei dire tutto perfetto.
Poi comincia la follia.
Una volta fuori dalle luci della ribalta, Jefferson attacca bottone con me. Ora non ricordo cosa mi possa aver detto, la mia unica intenzione era di buttarlo per terra e strappargli i vestiti.
Immaginatevi la mia sorpresa, e la mia gioia, quando dopo l'ennesima chiacchiera priva di senso si china su di me e mi bacia.
Evvai! Stasera finalmente me lo scopo!
Proprio mentre sto per fare la mia mossa spunta dal cilindro del prestigiatore Maxine Caulfield.
Maxine Caulfield era da me considerata, fino all'incirca all'altro ieri, la peggiore zecca che infestasse la Blackwell. Con quella sua maledetta aria da hipster impenitente, così fedele a se stessa e alla propria linea, menefreghista, senza un granello di gusto nel vestirsi e nel comportarsi. Brrr.
Bene, arriva questa e cosa fa? Si mette a piangere perché il mio adorabile fustaccione ultraquarantenne la sta tradendo con una sicuramente più bella di lei? Si butta pateticamente ai suoi piedi implorandolo di ignorarmi e di tornare da lei? Cerca di mettere le mani addosso a me, accecata dalla gelosia più becera?
Nossignore.
Costei arriva, lo afferra da dietro e con una forza sovrumana che mai avrei potuto sospettare lo scaraventa di peso nella piscina. Poi si improvvisa Ahnold e, con tanto di citazione presa pari pari da Terminator II, mi intima di seguirla se voglio vivere.
Ora, col senno di poi, quella frase suona terribilmente e brutalmente ironica.
Mi trascina fuori.
Lì, sulle prime, do giustamente fuori di matto per essermi vista rovinare il mio più fiammante sogno erotico da quando tenevo i poster di Kamina di Gurren Lagann in camera da letto a casa dei miei.
Lei va contro ogni mia aspettativa perché salta fuori che quella piazzata l'ha fatta sì a causa di Jefferson, ma non per i motivi che pensavo. Almeno stando a sentire quanto mi ha detto.
Ancora adesso faccio una gran fatica a non scaricare quanto ho sentito in quei momenti nel cestino della spazzatura. È troppo… insensato.
In pratica sostiene che il nostro beneamato professore sarebbe a capo di una specie di organizzazione criminale che rapisce ragazze, le droga, le lega e le sottopone a una distorta versione della nostra comune passione. Sì geni del male, la fotografia.
E che io sarei stata la prossima della lista.
Sul serio? Quindi io avrei dovuto pensare che uno stimato professionista come Mark Jefferson, conosciuto in ogni circolo artistico che si rispetti, ricco, affabile, bello e famoso… sarebbe una sorta di sociopatico senza inibizioni?
Se mi lasci l'indirizzo del tuo pusher magari un saltino ce lo faccio ogni tanto. Deve fornirti della candeggina sballantissima.
Eppure… eppure non ero incredula come avrei dovuto. Avete presente la classica vocina infida che sussurra piano all'orecchio? Ecco, la mia mi diceva di darle almeno una possibilità, di non bollare il suo racconto come il risultato di un bong caricato male e di fidarmi.
Io. Fidarmi di Maxine Caulfield. Su una cosa del genere.
Il carretto passava e quell'uomo gridava “Marmotte che confezionano la cioccolata!”.
Le ho chiesto ulteriori lumi. Spiazzando lei e me tutte assieme.
Poi, al primo accenno di maretta alle nostre spalle -d'altronde cosa credevate, che un casino simile potesse passare inosservato?- si dilegua, non prima di aver ribadito la sua buffa storia dicendomi che lei è stata nella presunta sala degli orrori dove si consumerebbero queste sconcezze.
Per un attimo rimango impalata come uno stoccafisso, senza parole e senza pensieri coerenti. Sia perché tutta quella storia era veramente oltre ogni limite concepibile, sia perché non avevo ancora chiamato gli ometti in bianco per farle conoscere la sua nuova migliore amica Camicia di Forza.
Jefferson mi passa davanti.
E in quell'istante… no Victoria, non vergognartene. Non ce n'è motivo. Di' semplicemente la verità. Sei sola con te stessa, nessuno ti giudicherà.
In quell'istante Jefferson era spaventoso.
Grondava acqua per gentile intercessione di Max e della sua erculea forza nascosta. E fin qui, tutto sommato, niente di male. No, quello che mi ha sconvolta era il suo sguardo: come poi le ho anche scritto in un successivo SMS, sembrava posseduto o qualcosa del genere. Digrignava i denti, se non ho visto male perdeva un filo di bava da un angolo della bocca e più in generale aveva lasciato l'aura di Bello & Impossibile in qualche sgabuzzino.
Sembrava un animale selvatico e affamato che cercava cuccioli da sbranare.
Mi ha… fatto paura.
Non lo avrei mai creduto possibile, ma ho avuto paura di Mark Jefferson. Una paura fottuta.
Dopo quello spettacolo la storiella di Maxine Caulfield mi risultava un po' meno fantasiosa. Quantomeno aveva un parziale riscontro visivo.
L'ha inseguita fino alla macchina, che non è sua perché American Hipster Girl è sprovvista di mezzo di locomozione proprio, e ha preso a battere sui finestrini in maniera forsennata. Dalla mia distanza non sentivo tanto bene, ma non mi pareva stesse urlando per andare di pari passo con l'aspetto da Sasquatch furioso.
Oh beh, la mia serata è finita lì. E se il tutto si fosse concluso in quel momento, ammetto che non mi sentirei come mi sento ora. Incidente con Max a parte, anzi, è andata piuttosto bene. Inoltre: chi mi assicurava che lei, dietro al suo schermo di brava ragazza acqua e sapone, non si calasse di qualcosa di pesante e, in preda ai peggior fumi della peggior sbobba disponibile sul mercato, non fosse venuta a riversarmi addosso un trip particolarmente riuscito?
Quindi me ne sono andata a letto. Un po' frastornata ma globalmente a posto.
Il vero delirio è iniziato oggi.
Ed è iniziato col botto.
La mattina è andata tranquilla, seppur abbia deciso di dare un po' di credito alla mia acerrima nemica e che quindi abbia badato a tenere una certa distanza da Jefferson. Niente che potesse eventualmente farlo insospettire, solo che non l'ho soffocato di attenzioni e amore platonico.
E a proposito della mia acerrima nemica, per la scuola si era velocemente sparsa la voce che aveva passato la notte in ospedale in seguito a una copiosa perdita di sangue dal naso. Voce poi confermata da vari professori. Il che, volendo essere cattivi, poteva avvalorare l'ipotesi di una tentata overdose. Quando l'ho sentito da Courtney ho scrollato le spalle, fingendo indifferenza.
Perché no, devo essere onesta. Non ero del tutto indifferente, almeno non quanto volevo dare a vedere. Pur non struggendomi nella preoccupazione non ero indifferente.
Oh insomma Victoria, piantala di nasconderti dietro un dito. Sei stanca, provata e tutto il resto ma, di nuovo, sei al sicuro nella tua testa. Non hai nessun lupo cattivo che minaccia di sbranarti.
A me Maxine Caulfield non sta… stava poi così tanto sui coglioni alla fine. Certi suoi modi di fare mi irritano… irritavano, non lo nego, ma di lei apprezzo… apprezzavo lo spirito indomito, di quella che vuole sempre tenere la testa alta e non è disposta a farsi piegare da niente e da nessuno.
Siamo partite col piede sbagliato, io e lei. Ma ora che ho del tempo per rifletterci sopra, vorrei poter dire a mente lucida ma sarei bugiarda, penso che il nostro rapporto sarebbe potuto essere meno teso.
Io non mento quando dico che non voglio realmente rendere la vita impossibile per nessuno. A volte mi lascio andare un po' troppo, me ne rendo conto, e finisco col fare stronzate da bastarda, bastarda che in tutta onestà non penso di essere. Non ai livelli che probabilmente proietto all'esterno.
Prendiamo Kate. Adesso, solo adesso, capisco davvero che colpi bassi come lo scrivere l'indirizzo del suo video sul bagno del dormitorio e continuare a bullizzarla senza sosta hanno finito col rovinarle la vita. Al momento non me ne rendevo conto, ero trascinata dalla mentalità del branco che mi imponeva di comportarmi in quel modo per tenere alto lo stendardo di queen bitch. L'adorazione di Taylor, invece di farmi fermare a riflettere, alimentava questo brutto modo di pensare. Sua e di Courtney e di tutte le altre gallinelle che vedevano in me la regina del pollaio.
Ma non sono qui per me. Chiedo scusa per la deviazione.
Max, dicevo. Max era all'ospedale.
Potete arrivare a capire perché la notizia mi abbia toccata, specie alla luce di quanto successo la sera prima.
E se avesse avuto davvero ragione? Se Jefferson l'avesse aggredita per metterla a tacere? Se quella che sapevamo essere una relativamente innocua emorragia fosse qualcosa di più grave?
Durante le lezioni, soprattutto quella di Fotografia, mi sono trovata più volte a mordicchiarmi le dita e a mostrare nervosismo. Tanto da attirare l'attenzione e lo spavento delle mie due fide scudiere, che a più riprese mi hanno chiesto se tutto andasse bene.
Tensione per la salute di Max Caulfield. Questa giornata era iniziata in modo a dir poco anomalo.
Ed è proseguita con una piccola apocalisse tutta per noi frequentatori/abitanti di Arcadia Bay.
Verso le tre del pomeriggio, infatti, si è palesato praticamente dal nulla un cazzo di tornado.
Sì, sono seria.
Un. Cazzo. Di. Tornado.
Dal niente. È venuto fuori davvero dal niente.
Prima ce ne stavamo tranquille nel cortile del campus a farci i fatti nostri, io e la mia cricca di amiche. Poi ci siamo viste 'sta roba piombarci addosso, portandosi dietro macchine e frammenti di muro e pali della luce e quant'altro.
È stato il panico. Totale. La gente ha cominciato a scappare senza una meta, chi calpestando gli sfortunati caduti per terra e chi venendo calpestato.
Ho preso per la collottola Courtney e Taylor e le ho trascinate dentro la mia macchina.
Siamo partite in sesta cercando di allontanarci il più possibile.
Terrore. Eravamo tre maschere di terrore. Specie quando ci è caduto qualcosa sul parabrezza, qualcosa che Taylor ha poi identificato come un corpo.
“Merda! Così non riesco a guidare! Scendete, presto!” ho urlato, con la pioggia e il vento che mi bruciavano la faccia. Sai, col vetro sfondato è difficile.
Ci siamo rifugiate nel primo posto non ancora crollato, ad occhio una tavola calda. Ovviamente mezza diroccata, ma al momento andava bene.
Abbiamo evitato macerie di varia natura entrando, a Courtney è quasi caduta un'asse in testa.
“Joyce! C'è altra gente! Delle ragazze!”. Una voce alla nostra sinistra.
Voltandoci ci siamo trovate davanti David Madsen, il responsabile della sicurezza della Blackwell.
Una faccia conosciuta. Non la più raccomandabile forse, ma ci si sa accontentare data la situazione delicata.
“Falle venire di qua!”.
Ci ha sbrigativamente fatto cenno di andare verso il retro. Noi abbiamo ubbidito come brave pecorelle.
Davanti a noi un gruppetto di circa sei persone, tutte schierate contro la parete che forse sarebbe venuta giù per ultima. Ho riconosciuto giusto Frank Bowers e solo perché ogni tanto l'ho visto in compagnia di Nathan.
La signora che ci ha fatte sdraiare… credo fosse la madre di Chloe Price, l'amica del cuore di Max. Non ne sono sicura, ma ho vaghi ricordi di lei che in passato veniva a scuola per farsi raccontare dal preside Wells l'ennesima bravata della figlia quando ancora frequentava da noi.
E no, piano con le malelingue. Ho solo sentito questa cosa, del rapporto fra Max e questa Chloe, dai resoconti delle mie spie disseminate in giro per l'accademia. Come ogni buona persona di potere ho una rete informativa molto fitta.
Sono state le tre ore più misere, più buie, più cupe della mia vita.
Credo di aver creduto di stare per morire almeno sessanta volte.
A Courtney, fatalmente, qualcosa è davvero caduto addosso. Ma per fortuna si è trattato solo di un piccolo sasso e solo sulla gamba. L'ematoma le passerà presto.
In quel lungo, lunghissimo istante di stasi, in bilico fra l'aldiqua e l'aldilà, ho trovato il tempo di riflettere.
Su di me. Sull'inverosimile racconto di Maxine. Su Kate Marsh.
Meglio approfittarne finché si è in tempo, no? E visto che potevo rimanerci secca… beh, l'incentivo ha funzionato alla grande.
A tempesta finita, quando abbiamo potuto abbandonare l'edificio con la sicurezza di non venir risucchiate da qualcosa di grande e cattivo, ho preso delle decisioni.
Avrei sinceramente provato a comportarmi come una persona normale. So che avrei fatto fatica, le vecchie abitudini sono dure a morire. Ma so anche che non volevo più sentirmi una merda come dopo quanto successo a Kate. Successo per causa mia.
E avrei teso la mano a Max. Magari non saremmo diventate amiche, quello probabilmente sarebbe rimasto off-limits come obiettivo. Diciamo solo che da parte mia non ci sarebbe stata l'intenzione di rendersi ostile apposta. Se poi me le avesse fatte girare comunque… me le avrebbe fatte girare comunque. Per quello ci posso far poco.
D'altro canto lei ha cercato di farmi un favore, ieri sera. Anche dando per scontato che fosse sotto l'influsso di roba chimica forte, ha fatto quella che inevitabilmente va classificata come una buona azione. Perché poco importa che il pericolo da lei paventato fosse vero o no, ha comunque ritenuto opportuno mettermene al corrente.
E questa, visto il nostro rapporto, è una cosa bella.
Insomma, io al posto suo non l'avrei fatto. Avrei lasciato la mia rivale a macerare nel suo brodo e tanti saluti.
Almeno un gesto di buona volontà glielo dovevo.
Solo che…
“David! David!”.
“Joyce, che c'è? Stai bene?”.
“Io sì, sto bene. Ma alla radio...”.
“Cosa è successo?”.
“Alla radio… hanno appena detto… santo cielo, è terribile...”.
“Cosa? Che c'è, per l'amor del cielo? Parla!”.
“Hanno… hanno trovato Max...”.
“Sta bene?”.
“È… non riesco a dirlo...”.
“Stai forse lasciando intendere...”.
“Sì...”.
“Maledizione. Monta in macchina! Sai dov'è successo?”.
“S-Sì, credo di sì...”.
Il sangue mi si è gelato nelle vene.
Il tono lasciava poco spazio a dubbi.
Mi sono avvicinata a loro.
“Scusate, vi ho sentiti e vorrei… poter venire con voi...”.
“Tu chi sei?” mi ha chiesto la donna.
“Mi… mi chiamo Victoria, sono una compagna di classe di Max...”.
Senza dire una parola mi si è avventata addosso abbracciandomi.
“Mi dispiace… mi dispiace così tanto...”.
Non ho ricambiato.
Purtroppo la macchina era ridotta a un catorcio, centrata da un pino. Ci siamo avviati a piedi, non prima che io dessi istruzioni a Taylor e Courtney di cercare soccorso medico.
Giuro che potevamo sembrare un corteo funebre.
La camminata è stata lunga. Quasi un'ora.
Siamo praticamente usciti dalla città, o da quel poco che ne rimane.
Era una zona che onestamente non conosco, mai frequentata. Capirai, niente negozi nel raggio di miglia.
Finalmente c'eravamo. A giudicare da quel poco che restava del posto in questione, prima di 'sto macello dev'essere stato un fienile.
Ovviamente era venuto giù come un castello di carte.
E per terra…
Cazzo cazzo cazzo.
Un cadavere.
C'era già la polizia coi cordoni e tutto quanto. Me ne sono fregata, ho preso a gomitate gente a caso e mi sono fatta largo.
Quel che ho visto è stato agghiacciante.
Max Caulfield. Morta.
Morta a causa di una trave che le era caduta sopra e che nemmeno le avevano tolto di dosso.
Aveva la faccia spappolata.
E poi… e poi…
Una macchia rossa sulla maglietta, all'altezza dello stomaco.
Non mi si chieda come, non lo so. Esattamente in quell'attimo, con l'adrenalina a mille, il sudore sovrabbondante e un inizio di crisi isterica… esattamente lì ho capito che la cosa puzzava di marcio come una triglia andata a male da sei mesi.
Perché un tornado può farti del male in tanti modi, ma quella… quella sembrava tanto una ferita da arma da fuoco.
Non lo so come posso essere arrivata a una simile conclusione, non sono esperta di pistole e non ho mai visto neanche un animale preso a colpi di fucile da un bracconiere.
So solo che mi si è scolpita in testa l'idea che le avessero sparato.
Una parte di me, quella più cialtrona, voleva a tutti i costi che mi buttassi per terra cominciando a piangere e a strapparmi i capelli.
Un'altra, quella che rappresenta l'anima da ape regina del Vortex, mi imponeva invece un silenzioso ritegno e una faccia marmorea.
Indecisa su come reagire, non sono riuscita a impedire a bruti senza volto di afferrarmi e trascinarmi via mentre mi minacciavano di incriminazioni per ostacolo alla giustizia e balle di quel genere.
Sono tornata verso Madsen e la signora, i quali mi guardavano come se fossi figlia loro e avessi appena assistito al peggiore spettacolo della mia vita. Che, pur con tutte le dovute distinzioni, non era mica poi così lontano dalla verità.
Era la prima volta che vedevo un morto. Un morto che conoscevo.
Pesa. Fa male. Ti fa venire in mente domande scomode.
“Victoria...”.
“Che tragedia, santo cielo che tragedia… non si meritava una fine del genere...”.
“Chi se la merita, Joyce?”.
“Hai *sniff* ragione...”.
“Andiamo, su. Restare qui fa solo danni. Dobbiamo ancora trovare quella scapestrata di Chloe. Vieni con noi, Chase?”.
Ho scosso la testa. Volevo restare da sola.
Al loro cenno di assenso mi sono allontanata, finendo col sedermi per terra e osservando superficialmente le forze dell'ordine che facevano il loro dovere attorno al povero guscio vuoto di Max.
Dunque. Tieni al guinzaglio ogni possibile fattore di disturbo, Victoria. Hai bisogno di pensare.
Hai bisogno di pensare perché un dubbio ti sta rosicchiando il cervello.
Se davvero la tua intuizione è giusta e le hanno sparato… come dicevo prima non è stato il tornado.
E adesso, se fosse così, mi viene in mente una sola persona. Un solo candidato al ruolo di assassino.
Non può essere altrimenti.
È stato Jefferson.
Il che si ricollega al bordello di ieri sera, al fatto che mi ha implorata di crederle e ci mancava giusto si buttasse in ginocchio, alla faccia da bestia di lui quando me lo sono visto sfrecciare davanti, alla degenza notturna di lei.
Un quadro si è stagliato di fronte ai miei occhi: Max Caulfield aveva ragione su tutto ed è venuta ad avvisare me, la stronza suprema, del pericolo incombente; Jefferson, vistosi smascherato, l'ha inseguita e attaccata facendola finire all'ospedale, forse sparandole o forse no; oggi ha trovato l'apertura necessaria a finire il lavoro, approfittando anche del pessimo tempo atmosferico che gli ha fornito il giusto alibi (“No, non le hanno sparato. È deceduta per l'impatto con la trave e il susseguente trauma”).
Filava. Era uno scenario non supportato da alcuna prova ma filava.
C'era sempre la possibilità che il colpo di pistola fosse sopraggiunto dopo, ma che senso avrebbe avuto? Perché andare a implicarsi in una morte altrimenti fortuita rischiando di lasciare tracce sul corpo o nei paraggi?
A rigor di logica l'ordine ha visto prima la pistola e poi la trave. Magari ha pensato di lasciar che fosse la furia degli elementi a chiudere i conti in sospeso al posto suo.
Più ci pensavo e più me ne convincevo. La morte di Max Caulfield non è stata accidentale.
Poi, tutto ad un tratto, ho dato uno strappo. Mi sono alzata in piedi, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca e ho chiamato il mio fidato servizio di taxi.
Volevo, dovevo andarmene da lì. L'aria si era fatta irrespirabile nell'intera città.
Subito dopo mi sono messa in contatto con i miei.
“Pronto?”.
“Ehi papà, ciao”.
“Vicky! Era un po' che non ti facevi sentire! Tutto bene lì nell'Oregon?”.
“No, non va per niente bene”.
“Victoria? Cos'è successo? Tutto ok, piccola?”.
“Io sì, sto bene. Solo che su Arcadia Bay si è appena abbattuto un tifone che ha raso al suolo quasi tutto. C'è l'isteria collettiva”.
“O porca vacca!”.
“Per questo sto tornando a casa. Tanto anche la Blackwell è stata danneggiata, probabilmente ci vorrà qualche mese prima che le lezioni ripartano”.
“Capisco, sì. Non appena finiamo avviso tua madre. Quando arrivi?”.
“Parto fra poco da qui. Dovrei essere a Portland fra un paio d'ore, di conseguenza penso di toccare terra a Seattle… toh, verso sera”.
“Ricevuto. Veniamo a prenderti all'aeroporto”.
“Grazie papà”.
“Ci vediamo più tardi, allora”.
“Sì. A stasera”.
CLICK.
Ed eccomi al momento presente.
Naturalmente ho trovato opportuno omettere la parte su Max. I miei genitori sono persone di mondo ma avrebbero comunque molte difficoltà a credere a una storia così campata per aria. Figurati, in certi momenti di debolezza estrema sono io la prima a dubitarne.
Guardo fuori dal finestrino dell'aereo. Ormai è buio e i miei occhi vengono attirati dalle luci sull'ala.
Stanchezza. Tanta stanchezza. Il tornado, quello che credo sia un omicidio in piena regola, danni mentali e fisici assortiti…
Onestamente non vedo l'ora di buttarmi sul letto e dormire come un sasso.

*


Sabato 12 ottobre 2013. Seattle, la Città di Smeraldo. Casa Chase.
Non so perché sto facendo quel che sto facendo. È un gesto insensato da parte mia.
Voglio farlo comunque.
Rigenerata da un lungo sonno ristoratore, la mia ristabilita genialità ha ben pensato di farmi buttare sul computer dopo aver rifiutato offerte tentatrici da parte di mamma. Voleva trascinarmi in giro per spese pazze, lei che come me è malata di shopping compulsivo.
Ho dovuto contare fino a trecentomila per non cedere alla tentazione.
C'è una cosa più importante che sento di dover fare.
Ed è stupida. Inspiegabile. Irragionevole.
Non importa.
Sto googlando l'indirizzo o il numero di telefono dei Caulfield. So per certo che abitano qui, una volta con Max le ho detto di andare a frignare da mamma e papà ricevendo come risposta “Stanno a Seattle, per mia somma sfortuna”.
Un'informazione talmente superflua che dieci secondi dopo l'avevo rimossa. E che ora è tornata prepotentemente in primo piano.
Uhm. Escono un po' di voci.
Vediamo se mi viene in mente qualcosa che mi permetta di stringere il campo.



No, temo di no.
Forza, prenditi le metaforiche palle in mano e comincia a telefonare mettendo in conto stratosferiche figure di merda.
Ok. Non è il caso di Virginia Caulfield, vedova ottantaseienne.
Nemmeno è il caso di Thomas e Trent Caulfield, coppia sposata con un'insana passione per gli alligatori.
E neanche di Bernadette Caulfield detta Bernie, donna di mezz'età con l'assoluto bisogno di un amico o di un'amica disposto o disposta a sentirla parlare per sedici ore filate.
Ryan Caulfield? Boh. Proviamo.
“Pronto?”. Interlocutore maschile.
“Salve. Parlo con il signor Ryan Caulfield?”.
“Sì, sono io. Con chi ho il piacere? Sta forse chiamando per mia figlia Maxine?”.
Bingo.
Per un attimo preferisco stare in silenzio, raccogliendo idee e coraggio. Sarà dura.
“Signorina?”.
“Mi scusi. Sì, la sto chiamando per Max. Il mio nome è Victoria Chase, sono una sua compagna di classe. Da come ha parlato mi sembra di capire che sappia cos'è successo ieri ad Arcadia Bay...”.
Non risponde. Pover'uomo.
“Le vorrei porgere le mie più sentite condoglianze per il lutto suo e di sua moglie”.
Scoppia a piangere.
Non potevo pretendere nulla di meno.
“Signore, signore! La prego di scusarmi, forse non avrei dovuto fare questa telefonata. È che ci sarebbero delle cose che vorrei comunicarvi. Riguardano Max”.
In mezzo a una giungla di rumori inconsulti, nasi tirati su e fruscii di quello che presumo sia un fazzoletto sento un “Cosa?”.
“Mi rendo conto che il momento è il peggiore possibile, ma si tratta di una faccenda molto seria. Ora mi trovo a Seattle come voi, pertanto volevo chiederle se fosse possibile incontrarci prima o poi per un caffè. Naturalmente quando lei e la sua signora ve la sentirete, non ho la minima intenzione di farvi fretta. Tanto io credo che rimarrò in città per ancora parecchio tempo”.
Più che altro non ho intenzione di andare da nessuna parte almeno finché non li avrò messi al corrente dei miei sospetti. Alla peggio mi ritiro dalla Blackwell e prendo a frequentare qui. Tra la Cornish, la Gage e l'Art Institute ho solo l'imbarazzo della scelta. Fra parentesi non ci tengo poi così tanto a tornare in una scuola dove insegna Jefferson.
“La prego di non considerarmi una mitomane, è una questione davvero importante. Ora il mio numero ce l'ha, quindi può contattarmi quando si sentirà pronto. Vorrei solo avvisarla di prendersi il suo tempo, quanto le devo dire non è nulla di allegro”.
Singhiozzi all'altro capo.
“Ora la saluto, scusandomi di nuovo per averle riaperto una ferita ancora fresca. Mi creda, mi dispiace immensamente”.
CLICK.
La telefonata più difficile della mia vita.
No, ehi… aspetta… che cos'è… questo?
Mi tocco la guancia. C'è qualcosa di liquido.
Io… sto piangendo… per Max?
Va bene Victoria, ora hai proprio superato te stessa. Che non mi si dia mai più della baldracca.
Mi asciugo col mio fazzoletto di seta con tanto di iniziali ricamate.
Comunque non ho ancora finito.
Vediamo cosa dice l'Arcadia Bay Beacon online sul caos di ieri.
Dai connessione, sei lenta. I miei non ti pagano duecento dollari al mese per poltrire.
Ecco, ci siamo.
Spulcio un po' l'homepage, che ovviamente è dedicata nella sua interezza al tornado. Poi una notizia secondaria coglie la mia attenzione.

Rinvenuto ieri in serata, nella zona della discarica American Rust, il corpo senza vita di una ragazza. Presentava un foro di proiettile nella tempia sinistra. Successivi accertamenti hanno poi permesso di identificarla come Chloe Price, diciannove anni, originaria di Arcadia Bay. Al momento si esclude un collegamento con il tifone che nella stessa giornata di ieri ha devastato la nostra amena cittadina.


Mi porto una mano alla bocca, sconvolta.
Hanno ammazzato… anche Chloe Price?
Il contraccolpo, più morale che fisico, mi porta a perdere l'equilibrio e a cadere dalla sedia.
Ho ancora la mano sulla bocca.
Non ci posso credere. Non ci posso credere!
Non scollo lo sguardo dallo schermo.
L'articolo parla chiaramente di un foro di proiettile come causa, quindi pare evidente che si tratta di un omicidio. Un altro.
Perché a questo punto basta fare due più due: dalle mie informazioni risulta che Max e questa Chloe erano diventate inseparabili negli ultimi giorni, praticamente vivevano in simbiosi.
Se le hanno uccise entrambe…
Quel che mi ha detto Max è la pura e semplice verità.
E quindi le mani di Jefferson sono sporche del sangue non di una, bensì di due persone. Se non di più.
Forse… a 'sto punto si può arrivare a pensare che…
Sì, lei l'aveva citata.
Rachel Amber.
Jefferson è dentro fino alla punta dei capelli nella sua sparizione. Potrebbe… potrebbe aver fatto fuori anche lei.
O santa madonna che veglia su noi peccatori.
Senza nemmeno accorgermene ho preso a tremare. Sto scoperchiando il pentolone satanico.
Che cosa cazzo è diventata Arcadia Bay, una succursale dell'Inferno?
“Che tu ci creda o meno Mark Jefferson è un uomo pericoloso, molto pericoloso. Ha le mani in pasta in alcune delle attività più squallide e illegali che si sono consumate e si consumano in questa città”.
Ora ci credo tantissimo, Max. Temo che tu te ne sia accorta sulla tua stessa pelle.
Di scatto mi alzo e afferro il cellulare. Chiamo Courtney, Taylor e tutte coloro che fanno parte del nostro piccolo circolo magico per assicurarmi che stiano bene.
Per fortuna non una di loro mi dà cattive notizie.
Perché se sto così di merda per una persona che non mi era proprio simpaticissima e per un'altra che conoscevo a malapena… non voglio neanche provare a sospettare il mio stato d'animo scoprendo qualcosa di brutto sulle mie più care amiche.
Dopo aver interrotto l'ultima telefonata una realizzazione mi colpisce in faccia: oltre al colpevole, o colpevoli nel caso ci siano dei complici, io sono l'unica che sa.
Max Caulfield e probabilmente Chloe Price sapevano, ma ora non possono dirlo più a nessuno.
Mi sento incredibilmente speciale, unica. E con un gigantesco mirino sulla nuca.
Con calma, con calma. Jefferson è a parecchie miglia di distanza da me e non dovrebbe sospettare un mio coinvolgimento. Penso non ne abbia motivo.
L'unica è che abbia sentito il discorso fra me e Max dell'altro ieri. Ma se lo avesse fatto dubito sarei qui ora. Facile che sarei stata trovata di fianco a Chloe, a mia volta con la tempia bucata.
Dovrei essere al sicuro.
Un secondo.
Complici… complici…
“Jefferson e i suoi complici, tra cui c’è sicuramente il tuo amicone Nathan...”.

Chiamalo. Istantaneamente.
Suona a vuoto.
Entra la segreteria.
Quasi lascio cadere l'apparecchio per terra, rischiando di sfasciarlo.
Non è un bel segno. Non è per nulla un bel segno.
Ho appena scoperto una caterva di cadaveri disseminati per tutta Arcadia Bay, cosa mi garantisce che non ci sia anche il suo nel mucchio?
Merdamerdamerdamerdamerdamerdamerda.
Jefferson, giuro che se hai fatto del male a Nathan ti strangolo con le mie mani. E poi finisco in galera per necrofilia.
Sto impalata a osservare il display quando…
BEEP BEEP.
Un messaggio.

Signorina… Chase, giusto? Mi scusi, non ricordo bene il suo cognome. Comunque volevo informarla che è invitata al funerale di Maxine, che si terrà fra tre giorni ad Arcadia Bay.

Oh.

*


Martedì 15 ottobre 2013. Arcadia Bay. Cimitero.
Mi sento un po' fuori posto. Preferisco tenermi nelle retrovie mentre portano la bara verso il suo ultimo luogo di riposo.
Fra gli altri presenti riconosco Kate, Warren, Dana, Alyssa e tutta la manica di sfigati che frequentava. Ci sono pure Madsen con consorte, la quale è un fiume di lacrime. A quanto ho recepito i Price e i Caulfield erano pappa e ciccia quando quest'ultimi abitavano qui.
Nessuna traccia di Nathan. È anche vero che non so quanto sia disposto a essere qui ora, dopotutto Max l'aveva denunciato davanti a Wells dicendogli che l'aveva visto maneggiare una pistola. Ma è lo stesso un brutto segno.
In cima al corteo, ovviamente, i suoi genitori. Ho scoperto che sua madre si chiama Vanessa, è una bella signora ed è perfin superfluo star qui a dire com'è conciata. Lo stesso vale per il signor Ryan.
Victoria Chase è al servizio funebre di Max Caulfield. Neanche ci è stata trascinata in catene, ci è venuta di sua volontà. Ridicolo, vero?
L'ironia della mia situazione cozza in maniera mostruosa contro un'altra ironia di segno diametralmente opposto: c'è anche Jefferson.
Ormai ho dimenticato ogni proposito pseudo-romantico nei suoi confronti e il solo doverlo guardare in faccia mi provoca un conato di vomito. Ringrazio le mie doti di attrice per avermi permesso di non sputargli in un occhio.
Uomo di merda, te la faccio pagare la faccia come il culo. Contaci.
Trattieniti Victoria, trattieniti. Non fare la piazzata.
Per sentirmi meno isolata ho provato a esercitare la mia autorità di queen bitch con Taylor e Courtney, ma mi rendo conto di aver spinto un po' troppo. Nemmeno io posso obbligarle a un passo del genere.
Quindi sono qui, da sola.
La cerimonia… beh, sarà brutto da dire ma è un normalissimo funerale. Non succede niente fuori dai limiti della convivenza civile.
Nell'istante in cui stanno calando il feretro…
Mi avvedo distrattamente di un cervo. Se ne sta lontano da noi e sembra… sembra guardare me.
Hai le allucinazioni. È solo un cavolo di cervo. Fra l'altro che ci fa qui? Sarà mica scappato dalle macerie dello zoo?
Se ne va dopo qualche minuto, senza aver nemmeno tentato di avvicinarsi.
Continuo a essere abbastanza a disagio.
Ok, stiamo per chiudere. Credo che mi defilerò con eleganza e…
“Signorina Chase”.
Come non detto.
Mi volto e mi trovo davanti il signor Caulfield, spalleggiato dalla moglie.
“Finalmente la vediamo dal vivo. Nonostante la circostanza è un piacere” dice allungando la mano nella mia direzione.
Gliela stringo e faccio lo stesso con lei.
“Spero di non suonare scortese” esordisco “ma non penso di potermi trattenere per molto. Fra poche ore ho il volo di ritorno per Seattle e...”.
“Quello delle cinque? Lo stesso nostro”.
Ouch.
“Sta bene? Mi sembra sia… impacciata”.
Sapessi quel che so io. Altro che impacciato, staresti commettendo un Jeffersoncidio.
“No, ecco… vede...”.
“Ha forse a che fare con quanto mi ha detto al telefono l'altro giorno?”.
Ci puoi scommettere. Solo che se ne parlo ora posso far che ordinarmi la cassa. Farebbero anche meno fatica a seppellirmi.
Guardalo, è a meno di tre metri e sembra ci osservi come un avvoltoio che si sta per avventare sull'ultima carogna.
No, è fuori discussione. Non con lui così vicino.
Faccio loro cenno di allontanarci e per fortuna non protestano.
Quando siamo più al riparo provvedo a rispondere: “Dunque, come spiegarmi… sì, in realtà sì… ha a che fare con quello… solo che in questo momento non posso proprio spiegarvi, la situazione mi costringe al silenzio...”.
“Lei è spaventata, signorina Chase”.
“Per favore, mi chiami Victoria. Sennò mi fa sentire vecchia”. Un risolino strozzato.
“Victoria, lo ribadisco: nei suoi occhi leggo paura”.
Alzo le mani di fronte a me come a imporre l'alt: “La scongiuro signor Caulfield, non mi metta in una posizione scomoda”.
“Senta, non può lanciare il sasso e poi ritirare la mano in questo modo”.
Mi avvicino più che posso alla sua faccia e sussurro: “Vuole la verità? Bene. Se ne parlo adesso… sono morta”.
“C-Cosa?” balbetta, preso in evidente contropiede.
“Lo prometto, non appena saremo a Seattle glielo spiegherò se sarà ancora tanto insistente. Solo non ora”.
“Vanessa, di' qualcosa!”.
Oh già, c'è anche lei. Donna di poche parole.
Quando finalmente apre bocca è per dire qualcosa di inaspettato: “Victoria, si è accorta di avere una farfalla sulla sua spalla?”.
Eh?
Cacchio, è vero. C'è una farfalla blu sulla mia spalla.
È davvero graziosa. Quando però provo a offrirle il dito se ne scappa via.
Che peccato.
“Lo posso considerare un giuramento da girlscout, signorina Victoria?”. Di nuovo Ryan. Insistente come un'altra Caulfield di mia conoscenza. Buon sangue non mente.
Sempre buttando un occhio sui paraggi gli rispondo affermativamente. Ti pare che mi prenderei la briga di dirlo senza poi arrivare fino in fondo? E poi voglio che quel bastardo marcisca nelle viscere di Alcatraz per il resto della sua meschina, insignificante vita di assassino. Resto che spero sia il più breve e sgradevole possibile.
Incredibile. Sto pensando questo di Jefferson, l'uomo che sino alla settimana scorsa mi sembrava una specie di dio greco della fotografia e dell'amore sceso in terra per deliziare noi comuni mortali.
La vita è davvero assurda.
“Va bene, ho idea di dovermi arrendere”. Era ora, testone.
“Per dimostrarle che non intendo prenderla in giro: domani alle due del pomeriggio, alla Grande Ruota. Glielo giuro sulla mia collezione di abiti di Gucci”.
“Mh. Mi chiedo come facevate lei e Max ad andare d'accordo”. Un padre che conosce sua figlia.
Decido di dargli una breve anteprima: “Non lo facevamo, difatti”.
“Prego?”.
“Domani signor Caulfield, domani”.
“Sa che in questo momento sembra un agente cinquantenne dell'MI6 in un film di James Bond?”.
Mi rifiuto di rispondere alla battuta, anche se internamente rido.

*


Mercoledì 16 ottobre 2013. Seattle. Grande Ruota Panoramica.
Avanti gente, avanti. Fa freschetto, non fatemi diventare un ghiacciolo.
Eccoli. Non cominciamo proprio col piede migliore.
Feh. Tale figlia, tali genitori. Non me ne dovrei meravigliare.
Ma ora ho sale in zucca sufficiente per non andare fuori strada.
Ci salutiamo e butto lì l'idea di salire, alla quale acconsentono di buon grado.
Paghiamo. Saliamo.
“Va bene Victoria, siamo dove voleva che fossimo. Ora si può degnare di spiegarci, per favore?”. Lui, chiaramente. Tua moglie è un soprammobile?
Respira. Respira. È una delle cose più ansiogene che abbia mai fatto in vita mia.
“Signor Ryan, signora Vanessa. Quel che sto per dirvi è scioccante e molto, molto crudo. Mi spiace essere latrice di simili notizie, ma sono convinta che ne dobbiate essere a conoscenza. Come ho accennato l'altro giorno al telefono… riguardano Max”.
“Sì, lo sappiamo. Prego”.
È l'ora fatale, Victoria Maribeth Chase. Non puoi più tirarti indietro. Max, Chloe… datemi la forza.
“Non c'è un modo semplice per dirlo. Pertanto sarò diretta: ho la forte, fortissima convinzione che vostra figlia Max… sia stata uccisa”.
Andato. Il primo ascesso è andato.
“Maxine… sarebbe stata uccisa?”.
“Sì. Almeno lo credo, ma ho dei solidi motivi per farlo”.
“E, di grazia, quali sono questi motivi?”.
“I sospetti che lei stessa mi ha comunicato il giorno prima di morire”.
“Sospetti? In cosa si era invischiata quella ragazza?”.
Uff.
“Temo di dover partire dal principio, quindi mi scuso se corro il rischio di annoiarvi. Tutto è cominciato circa sei mesi fa, quando ad Arcadia Bay è sparita una mia coetanea. Una certa Rachel Amber. L'unica che si è presa a cuore la faccenda è stata Chloe Price, immagino la conosciate molto meglio di me”.
La ruota gira.
“Sì, certamente. Lei e Max erano inseparabili da piccole, poi purtroppo mi sono dovuto trasferire per lavoro e non potevo di certo lasciare mia moglie e mia figlia da sole”.
“Chiaro, capisco. Chloe era molto amica di questa Rachel ed è rimasta ovviamente sconvolta dall'accaduto. Ma, a parte una quantità spropositata di manifesti, la cosa sembrava essersi arenata su se stessa. Fino a lunedì scorso”.
“Cos'è successo lunedì?”.
“Lunedì, non le saprei spiegare il perché o il come, Max e Chloe si sono… come dire, riavvicinate. Non so molto a proposito, non posso esservi utile. Quel che conta è che, stando alle mie scarne informazioni in merito, loro due si sono messe a indagare in maniera più approfondita sul fato di Rachel”.
La ruota gira.
“Fino a giovedì il tutto non mi riguardava neanche di striscio se devo essere sincera. Anzi, da parte mia non ho cambiato atteggiamento verso vostra figlia”.
“Aveva accennato al fatto che voi non andavate d'accordo...”.
“Esatto. Come ha intuito da sé, io e Max eravamo due persone molto diverse. Dai caratteri incompatibili, anche se forse è stata principalmente colpa mia. Comunque. Giovedì sera c'è stata la festa del Vortex Club, la clique esclusiva della Blackwell di cui mi vanto essere il capo indiscusso. E in contemporanea è avvenuta la premiazione del concorso Everyday Heroes, che sempre senza alcuna modestia ho vinto a mani basse. Terminata la cerimonia il professor Jefferson, il nostro insegnante di Fotografia, si è avvicinato a me e… mi ha baciata”.
“Scusi, non vedo cosa questo possa centrare con Max...”.
“Stavo solo cercando di farvi mettere nei miei panni. Proprio Max è giunta alle nostre spalle e l'ha scaraventato di peso in piscina, scatenando un vero e proprio putiferio. Mi ha pure presa per il polso e mi ha trascinata fuori, all'esterno. Lì sono scoppiate le polveri: mi ha detto che lei e Chloe avevano scoperto che il professor Jefferson...”.
La ruota gira.
“...il professor Jefferson si sarebbe reso responsabile di alcuni deplorevoli atti a danno del corpo studentesco femminile. Secondo il suo strampalato racconto rapiva le sue vittime, le drogava e le portava in un bunker per scattare delle foto… turpi. Non è scesa nei dettagli. Mi ha anche detto che io sarei stata la prossima e mi ha messa in guardia. A causa della sopracitata antipatia che correva fra di noi non le ho creduto, anche perché… santo cielo, mi vergogno a dirlo ora… io ero innamorata di Jefferson e ho pensato fosse solo gelosa. Però, a onor del vero, un leggero seme del dubbio me l'ha instillato”.
La ruota gira.
“Poi è fuggita, forse spaventata dai rumori che giungevano dall'interno dell'edificio. Io sono rimasta lì come una scema ed è accaduto il primo evento che mi ha fatto rivalutare la situazione. Jefferson si è lanciato al suo inseguimento, bagnato fradicio. Ve lo posso giurare su ciò che ho di più prezioso al mondo, la sua faccia veniva direttamente dalle profondità infernali. Mai visto uno sguardo tanto terrificante. Stonava del tutto con la sua usuale aria da belloccio affascinante. Era trasfigurato. Ora, prima di proseguire vorrei farvi una domanda: cosa vi è stato detto riguardo la causa di morte di Max?”.
“Secondo la polizia di Arcadia Bay si è trattato di un incidente. Non sono stati in grado di spiegarci cosa ci facesse all'aria aperta con quel maledettissimo tornado in piena attività, ma pare che sia stata incauta e le sia precipitata una trave addosso. Anche alla casa funeraria, pur con tutto il lavoro che avevano fatto per renderla presentabile, portava ancora dei segni dell'impatto”.
“Ok. Anche adesso, come prima, vi devo chiedere di credermi: io l'ho vista poco dopo e sì, le era caduto un palo addosso. Questo è innegabile. Ma a quanto pare non vi è stato riferito della ferita allo stomaco”.
“Ferita allo stomaco?”.
“Sulla sua pancia c'era una macchia rossa. Mi rendo conto che quanto sto per dire non è verosimile, ma nel quadro generale assume un suo senso. Ebbene, quella… quella era una ferita da arma da fuoco”.
“Le hanno sparato?”.
“Penso di sì. Capirete da voi che, se vogliamo ritenere vero quanto mi ha riferito la sera prima, la cosa assume contorni quantomeno sospetti. Personalmente ho ipotizzato che sia stato per mano di Jefferson. Una volta che l'ha scoperto con le mani nella marmellata delle sue malefatte, ha pensato bene di metterla a tacere. Per sempre. A conferma di ciò c'è anche un ulteriore fatto, cioè che nella notte fra giovedì e venerdì Max è stata in ospedale. La versione ufficiale dice per un'emorragia dal naso, ma a questo punto trovo lecito credere che possa essere stata aggredita”.
La ruota gira.
“Dopo il tornado sono tornata a casa dai miei, qui a Seattle. La scuola è rimasta danneggiata e non avrei avuto un posto dove dormire. È stato lì che le ho telefonato, signor Ryan. E sempre lì ho scoperto l'altra cosa, quella su Chloe...”.
“Quale cosa?”.
Quale… cosa…
No, non mi dirai che non lo sanno.
Mi lascio scappare una bestemmia soffocata. Kate mi avrebbe appena tirato uno scappellotto, fosse stata qui.
Davvero? Davvero devo essere io a dire loro di Chloe?
Più forza ragazze, mi serve più forza.
“Non… non lo sapete?”.
“Cosa dovremmo sapere?”.
“La signora Joyce non vi ha detto nulla, dunque. Maledizione”.
Respiro rumorosamente.
“Chloe Price è morta”.
“Checcosa? Anche Chloe… è morta?”.
Ingoio acido.
“Sì. E al contrario di Max è fuori da ogni dubbio che sia stata uccisa. Trovata alla discarica di Arcadia Bay con un buco in testa. L'hanno giustiziata”.
E solo adesso Vanessa Caulfield si scuote dal torpore che l'ha permeata sin dal primo momento in cui l'ho vista e… dio, che scena straziante.
Si mette a piangere. In maniera assolutamente composta, oserei dire fiera.
“Quella bambina” dice a così bassa voce che faccio fatica a sentirla “l'ho vista crescere… le sono stata vicina quando è mancato suo padre… non… questo… è una bugia...”.
La reazione è comprensibile ma non mi serve incredulità adesso. È già abbastanza difficile così.
Ryan è catatonico, si è messo a guardare un punto indefinito nello spazio.
Che gioia aver appena spezzato lo spirito di 'sti due poveretti.
“Vi prego, riprendetevi. Potete controllare se non vi fidate. Il sito online dell'Arcadia Bay Beacon, dovrebbe esserci ancora l'articolo”.
Lo fanno entrambi, ognuno per conto suo.
Quando leggono sbiancano come due cenci.
La vita è sì assurda, ma sa anche fare un male porco.
Però dai, guarda il lato positivo Victoria. Riesci a soffrire come un comunissimo essere umano, non è poi tanto male.
E poi potrei essere morta, ora come ora. Non credo di fare eccezione per quello psicopatico di Jefferson.
Decido che è ora di riprendere con lo spiegone: “Se Chloe è stata uccisa per lo stesso motivo per cui è stata uccisa Max… io non sono Sherlock Holmes, ma credo sia evidente che le due cose sono collegate. E che la causa è quanto mi è stato raccontato da vostra figlia quella sera”.
La ruota gira.
“Signor Ryan, signora Vanessa. Come vi ho detto io e Max avevamo i nostri motivi d'attrito e non andavamo d'accordo. Questo non significa che sia una stronza al punto di non voler vedere il responsabile della sua morte gettato nella cella più sporca e maleodorante dell'intero universo. Ho un codice morale e questo mi impone di vedere Mark Jefferson degradarsi fino a quando non gli cadrà la pelle di dosso, mostrando il vomitevole verme che in realtà è. Ma ho bisogno del vostro aiuto per questo, da sola non ce la posso fare”.
“Victoria, lei...”.
CRASH.
Con un pugno incrino il vetro della cabina. O meglio, mi piacerebbe poter dire così. Mi devo solo essere fratturata tutte le dita della mano.
Mi gocciola sangue dalle nocche spellate.
“Vi prego! Aiutatemi! Vi prego! Quel bastardo schifoso deve pagare per quanto ha fatto! Non può passarla liscia. Ha ucciso Max! Ha ucciso Chloe! Forse ha ucciso Rachel! E potrebbe… potrebbe aver ucciso Nathan...”.
Mi guardano storti.
“Chi è Nathan?”.
“Un… un mio caro amico… che è svanito nel nulla da giovedì… non si hanno più sue notizie da allora...”.
“La sua mano...”.
“La mia mano non è importante ora! Non conta niente! L'unica cosa che conta è far condannare Jefferson a settanta ergastoli!”.
E finalmente il parapetto cede di schianto, lasciandomi in un mare di lacrime. Sarei esplosa se non l'avessi fatto.
Mi accascio per terra facendo ballare l'abitacolo.
Sono al limite.
Vi ringrazio per la forza. Non è bastata.
FRUSH.
Cosa? Mani sulla mia schiena?
Mi stanno… abbracciando?
“Victoria, può riposarsi. Non è più obbligata a sopportare tutto questo da sola. La schiaccerebbe. Siamo qui per aiutarla, proprio come ci ha chiesto. Non vogliamo niente di diverso. A Max forse non piaceva, ma noi capiamo che lei è una brava persona. Altrimenti non sarebbe qui adesso, ad assumersi l'onere di una prova così immensa con il suo solo coraggio. La dobbiamo ringraziare, con tutto il cuore...”.
Signora… Vanessa…
Regredisco a cinque anni, a quando quel piccolo indegno di Kevin Ford aveva rotto la mia bambola preferita all'asilo.
Grazie. Grazie. Grazie.
La ruota smette di girare.
Scendiamo lenti.
Il mio passo è malfermo, ma delle mani che sto imparando a riconoscere come amiche mi aiutano a sorreggermi.

*


Domenica 17 novembre 2013. Seattle. Casa Chase.
“Taylor, ne sei… ne sei proprio sicura?”.
“Sicurissima, Victoria. L'hanno trovato oggi”.
“Non può trattarsi… non lo so, di uno scambio di persona? Di un sosia?”.
“Indossava la sua giacca e gli hanno preso le impronte digitali. Non c'è il minimo dubbio. È lui”.
“...”.
“Victoria! Per favore, so che ora ti sono venuti gli occhi vitrei e stai boccheggiando! Non farlo, ti scongiuro! Non lasciarti andare! Io e Courtney siamo qui per...”.
CLICK.
Mi lascio cadere sulle ginocchia, annichilita.
Il cellulare va in mille pezzi. Io subito dietro.
Nathan Prescott è morto. Ora è ufficiale.
Non voglio più vivere.
Basta. Basta. Basta!
“Vicky! Ho sentito un botto, che è successo?”.
Oh papà. Ho solo appena scoperto che il mio miglior amico è entrato nel club Accoppati da Jefferson. Nulla di che.
GLOMP.
“Piccola mia, che c'è? Che hai?”.
“...”.
“Parlami, ti prego parlami! Mi terrorizzi facendo così!”.
“...”.
“Ascolta, qualunque cosa sia… qualunque… io e tua madre siamo qui per te. Non ti permetteremo di autodistruggerti, mi senti? Sfogati, ti può far solo bene”.
In uno sprazzo di lucidità seguo il consiglio. In breve sono un grumo di lacrime.
“Papàààààààààààààààààààààààààààààààà! È morto! Nathan è morto!”.
“Nathan… Prescott?”.
“Luuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuui! Me l'hanno ammazzato come un cane!”.
“O mio dio figliola, è terribile! Com'è successo?”.
Non lo so. Non lo so. Non lo so.
Una cosa sola so. So che voglio Jefferson morto.
Sbudellato come un randagio.
Fatto a fettine e servito con un contorno di Chianti.
Perforato da mille lance acuminate.
Preso a calci fino a trasformarlo in una palla di carne deforme.
“Se conosco il sangue del mio sangue, in questo momento nella tua testolina stai architettando vendetta tremenda vendetta. Lascia che ti dica che sbagli a pensarla così. La violenza porta solo ad altra violenza, a miseria e carestia. Non è la via giusta. Pazienta, presto vedrai il metaforico cadavere del colpevole galleggiare sul fiume mentre tu sei lì seduta ad aspettarlo. Dai tempo al tempo e il karma mieterà la giusta punizione per chi se la merita”.

Non sapevo avessi studiato filosofia orientale, papà.
Ma hai ragione. Lasciarmi accecare dall'ira non serve. Avvelena solo il mio spirito, già provato a sufficienza in quest'ultimo mese di traversie.
Resistere Victoria, resistere. A oltranza. Devi arrivare integra al traguardo. Devi poter godere dell'attimo in cui il secondino ingoierà la chiave della cella di Jefferson davanti ai suoi occhi, ruttandogliela poi in faccia.
Volente o nolente ora porti in te le speranze, i sogni, le aspettative per il futuro di tutti gli sventurati periti per mano di quel pazzo dalla barba sexy.
Non puoi mollare. Non devi mollare.
Vergognati per il resto della tua esistenza se lo dovessi fare.
Il mio corpo brucia. Ogni singolo atomo che mi compone urla di dolore. Quello di Nathan è lo sfregio definitivo e se non mi uccide questo niente potrà farlo.
Dimostra a Jefferson che nulla di quanto possa fare è in grado di piegarti.
Tu sei più forte.
Sei acciaio. Inossidabile. 18/10. Col fondo fuso alto un centimetro.
E poi non sono sola. Ho papà, ho mamma, ho i Caulfield. Tutti loro mi stanno sostenendo, mi stanno tenendo in piedi. Non gettar via anche i loro sforzi oltre ai tuoi.
Lo scosto gentilmente, ringraziandolo. Nel vedermi in faccia si tranquillizza, segno che esterno quanto provo. Bene così.
“Stai bene?”.
“No, ma non fa niente. Ce la faccio”.
“Se ti serve una mano...”.
“Sì, mi serve. Grazie”.
“Prima o poi dovrai spiegarmi che diavolo è successo. E poi, da come ne parlavi… ti eri presa una cotta per lui, Vicky?”.
“Vai a cagare, papà”.
“Oh, eccola qui la risata della mia unica figlia. Sempre bella”.


*


Lunedì 5 maggio 2014. Seattle. Casa Chase.

Non smette di suscitare scalpore l'eclatante notizia dell'arresto di Mark Jefferson per quadruplo omicidio, occultamento di cadavere e possesso di foto illegali. Il preside Wells si è rifiutato di commentare. I parenti delle vittime si dicono soddisfatti perché giustizia è stata fatta. Vanessa Caulfield, madre di una delle vittime, ha dichiarato che “questo grande risultato è stato possibile solo grazie al sacrificio morale di una persona, che per rispetto lascerò anonima, la quale si è sobbarcata il rischio con ammirevole sprezzo del pericolo personale che ciò comportava”.

Ho gli occhi lucidi.
Quando Ryan, fuori di sé dalla gioia, mi ha telefonato raccomandandomi di visitare il Beacon… beh, onestamente non me lo aspettavo.
Sapevo che si erano mossi con la polizia di Portland, dato che quella di Arcadia Bay non era esattamente una strada percorribile. Immagino che il padre di Nathan non volesse rendere nota la cosa, per motivi che non intendo indagare.
Io… io… non ho parole, davvero.
Forse sono troppo boriosa, ma penso di meritarmi il titolo di eroina. Anzi, togliamo pure il “forse”. Me lo merito ampiamente.
Ma a parte le sparate da egocentrica, che comunque non rinnegherò mai, un simile epilogo per questa storiaccia brutta è il più soddisfacente.
Jefferson ha chiuso. Col lavoro, con la vita, ha chiuso e basta. Pezzo di merda putrida.
BEEP BEEP.
Un messaggio.

Allora Victoria, ha visto?

Sorrido.
Gli rispondo svelta.

Ho visto, ho visto. Posso solo ringraziarvi.

No Victoria, no. Siamo noi a doverla ringraziare. Grazie per aver creduto a Maxine. Grazie per non essersi arresa. Grazie per aver saputo superare la paura. Grazie per aver messo in gioco la sua stessa vita. Lei è un'eroina.

Visto? Non sono l'unica a dirlo.
Mi lascio cadere sul letto, sopraffatta dall'emozione.
Nathan. Max. Chloe. Rachel.
Finalmente potete riposare in pace.


Per gentile concessione di Mana Sputachu
   
 
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