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Autore: AriiiC_    06/11/2015    3 recensioni
Si parla di cancro, si parla di sclerosi, si parla ogni giorno di tante malattie gravi e terribili.
Perchè, sui giornali, non leggiamo mai di Fibrosi Cistica?
La Fibrosi Cistica è la malattia genetica più comune al mondo, causata da un doppio allele recessivo. Più di un quarto della popolazione mondiale ci convive e ci lotta ogni giorno.
Io sono in quelle persone, e questo è il mio diario.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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29 novembre 2014
(giorno che il mio computer ricorda come creazione del documento)

 

"La fibrosi cistica […] è una malattia genetica autosomica recessiva.[…] causata da una mutazione del gene CFTCR che codifica una proteina di 1480 aminoacidi situata sulla membrana cellulare delle cellule epiteliali, la cui funzione, normalmente, è quella di trasportare il cloro attraverso le membrane cellulari a livello della membrana apicale delle cellule epiteliali di vie aeree, del pancreas, dell'intestino, delle ghiandole sudoripare, delle ghiandole salivari e dei vasi deferenti. 
[…]
È la malattia genetica ereditaria mortale più comune nella popolazione caucasica."
 
 
Ho pochi ricordi dei miei due anni di vita, ma sono tutti legati ad un’aereosol. Mi ricordo un pallone verde rimbalzante in una stanza piena di giochi dai morbidi muri azzurri. Su e giù tra le braccia di un adulto con la medicina che mi entrava in corpo tramite vapore. Non piangevo per quello: era piacevole. In fondo, non faceva male e non dava neppure fastidio. La terapia, per me,  era solo una parte della giornata di gioco, in cui dovevo respirare un po’ di fumo e soffiare forte dentro un arnese che non sapevo neppure come definire. Alle volte, mi sentivo un po’ il lupo che cerca di buttare giù la casa dei porcellini con la sola forza dei suoi polmoni. Eppure i miei genitori avevano sempre un viso triste, quando arrivava il momento di sedersi sul pallone e rimbalzare.
 Rimbalzare e soffiare.
 Gran parte della mia infanzia fu così.
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 Ricordo quando avevo cinque anni.
 Cinque anni, un sondino nel caso e tante lacrime in viso. Avrei dovuto raccogliere il catarro per le analisi, ma non ero riuscita a sputarlo. Mi avevano portato al controllo tranquillamente, come se niente fosse. Non sapevo quale sarebbe stata la reazione delle dottoresse davanti alla mancanza dell’espettorato, e penso che neppure i miei lo sapessero. Altrimenti mi avrebbero obbligato ad espellere quella schifosa sostanza giallognola che mi ritrovavo nei polmoni, piuttosto che farmi subire quella “tortura”.
 Mi avevano fatto accomodare su quel lettino che tanto odiavo perché era sinonimo di prelievo – e io avevo paura (e continuo ad averne ancor oggi) del prelievo. Sotto loro ordine, mi coricai inconsapevole di ciò che stesse per accadere. Chiusi gli occhi tranquilla perché le conoscevo: mi avevano in cura da anni, ormai, non mi avrebbero fatto male. Invece sentii delle mani a tenermi ferma, e un orribile tubicino in plastica trasparente che aspirava qualcosa dal mio naso. Lo fecero scendere giù, fino alla gola. E io urlavo, scalciavo, provavo a supplicarli di smettere. Ma dalla mia bocca non uscirono parole. Mia madre mi lasciò i polsi e mi guardò piangendo. «Sei stata una bimba davvero coraggiosa. – disse – Ti faremo un regalo dato che sei stata brava.»
 Accettai sorridente. Ero felice che mia madre fosse fiera di me ed ero felice del regalo. Ma più del regalo. Mi passai la manica della maglietta sugli occhi asciugando le lacrime. Le strinsi un dito e ci avviammo fuori.
-
 Avevo sette anni quando nacque mio fratello.
 Era piccolo, era bello. Ed era sano.
 Sano al cento per cento.
-
 A otto anni venni ricoverata la prima volta.
 In realtà – a detta dei miei – non era la prima volta, ma di certo la prima in cui ero abbastanza consapevole delle circostanze da capire cosa stesse accadendo.
 Avevo ingenuamente detto a mio padre che avevo male al petto e lui s’era subito preoccupato. Che uomo, mio padre: sempre pronto a fare tutto per tutti. Peccato che io non abbia ereditato minimamente il suo altruismo e il suo amore per il prossimo. Mi ricordo le luci dei lampioni di Milano contro il riverbero della sera mentre la sua punto grigia – quella a cui è affezionato, ormai, e ancora non ha cambiato – correva verso il Pronto Soccorso. I medici mi avevano accolto dopo quelle che erano parse ore di attesa, e la prima cosa che avevano fatto era stato piantarmi un ago nella mano. Mi spogliarono e mi fecero una lastra ai polmoni, per poi farmi accomodare in una stanza spoglia e fredda nel piano dei bambini. Quel posto emanava solitudine. Anche i muri parevano urlare.
 E io rimasi lì, su quel letto spoglio senza lenzuola e con solo un materasso di spugna a coprirlo. Mi sedetti nell’attesa che i miei genitori tornassero con qualche vestito e dei giocattoli con cui passare il tempo.
 Quello che mi parve poco tempo dopo, tornarono. Mi misero indosso un pigiamone di almeno tre taglie più grande, in flanella blu. Mi addormentai così.
 A svegliarmi arrivò mia zia. Abita da sempre lontano, e la sua “gita” al nord non era prevista. Le sono saltata al collo, abbracciandola. Era venuta per me. Aveva prenotato l’aereo la sera prima per arrivare e riuscire a vedermi. Era preoccupata, ma io stavo bene.
Fu la prima volta in cui mi resi conto di quanto mia zia mi volesse bene.
-
 A undici anni presi in mano un giornale dal titolo “La Fibrosi Cistica spiegata ad un adolescente”. Sfogliai rapida l’indice. Poi aprii una pagina a caso. Non ricordo le parole precise, ma una frase mi rimase impressa:
“chi ha la Fibrosi Cistica spesso non supera i venticinque anni di età.”
 Piansi. Come per riflesso involontario, piansi.






 Adolf's corner:
Sono qui dopo più di due anni senza scrivere niente. Ho ritrovato questo documento in una chiavetta in cui avevo salvato ciò che avevo scritto quando avevo... quattordici anni? Circa.
 Ora ne ho diciassette suonati e, rileggendo ciò che la piccola me aveva scritto, mi sono emozionata. Ho deciso che valeva la pena di continuare questo progetto e di far conoscere, a chi vorrà leggere, un po' più su questa malattia. Non a livello scientifico, ma a livello umano, raccontato da una persona che ci convive e ci lotta ogni giorno.
 Il mio unico scopo è l'informare e il sensibilizzare riguardo questa realtà a me particolarmente vicina.
 Grazie a chiunque arriverà fin qui.
 Arii
  
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