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Autore: Annabel_Lee    09/11/2015    8 recensioni
Federico è sempre stato più assorbito dal suo dolore, dalla sua rabbia, per prestare attenzione a quella altrui: ma qualche volta succede, e ti ritrovi uno sguardo intrappolato in testa e non sai più che fartene, perché sembra che niente te lo possa strappare di dosso.
Lo sguardo, neanche a farlo apposta, è quello di Michael.
[Midez]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fedez, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’autrice non intrattiene con gli artisti citati nella storia alcuna relazione di tipo economico-collaborativo. Il testo narra eventi di pura fantasia, destinati al diletto e all’intrattenimento di altri fan: non persegue alcun intento diffamatorio o finalità lucrativa, e non pretende di fornire informazioni veritiere sulle persone di cui tratta. L’intreccio rappresenta copyright dell’autrice, salvo quanto espressamente indicato.
*



“Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza. L' amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina: e io divoro, divoro, divoro… Come andrà a finire, non lo so.”
-Pier Paolo Pasolini

I

Pale Blue Eyes

Le mattine di Milano sono grigie e pesanti. Ti si appiccicano addosso quando esci di casa al mattino, ti rimangono cucite ai vestiti fino a fine giornata, e anche a furia di lavare e smacchiare non si riesce più a distinguere il grigio della città da quello che ti sboccia dentro.
Giulia stamattina l'ha salutato con un bacio sulla guancia, le labbra sporche di marmellata e i capelli ancora umidi. L'ha trovata a capo chino su pagine e pagine di appunti scritti in grafia tondeggiante e ordinata, lo sguardo stanco e ogni ora di sonno perso disegnata nelle vene rossastre che le affioravano negli occhi, e l'ha costretta a prendersi una pausa.
Lei ha sorriso, e Federico si è convinto di star bene, guardandola sgranocchiare le sue fette biscottate e salutandola sulla porta.
E' questo che conta, no?
Fanculo, pensa Federico, che le mattine di Milano le vive poco e male, tra una sigaretta lasciata a metà e un caffè buttato giù troppo in fretta, quando di corsa scende le scale del suo appartamento, le chiavi dimenticate ancora una volta sul piano della cucina.
Le mattine di Milano vanno in fretta, tanto che alle sette del mattino la città già pulsa e freme. E tu ti ritrovi a camminare a passo svelto, la vita gettata sulle spalle e il grigio della città che ti entra nei polmoni.
E forse, solo forse, non sei felice come credi.

La sera del primo Live è tutto un turbinare di luci, grida, e ansia che gli indurisce le vene e fa tremare le mani. Quando esce dal camerino qualcosa appena sotto il diaframma comincia a stringersi dolorosamente.
Certe cose non cambiano mai.
Neanche si rende conto della serata che scorre. La scena lo assorbe nelle sue luci e nelle sue lacrime. Lo inghiotte, e Federico non riesce più a ricordarsi niente quando le telecamere si spengono e viene risputato stanco, sudato, e senza più la voglia di tornare a casa.
Questo prova a non pensarlo.
E' diventato un maestro, Federico, a fingere che la sua sia solo una giornata no, che domani si sveglierà felice e che il cielo avrà di nuovo il colore azzurro pallido degli occhi di Giulia. Che amarla, senza se e senza ma, con le farfalle nello stomaco e senza tutte quelle grida che gli fanno scoppiare il cervello e il cuore, tornerà ad essere facile come respirare. Litigano, litigano troppo. Anche se al mattino tutto sembra andare bene.
La sigaretta ha un sapore amaro e pastoso, lo stesso del primo tiro quando aveva tredici anni. Quando non fumi del vero tabacco da un po', la sensazione che ti lascia in bocca fa sempre un po' schifo, ma Federico si accontenta e rimane seduto sul gradino del parcheggio, gli occhi persi nel cemento, la sigaretta accesa che sfrigola quando prende la seconda boccata.
“Pensavo tu avessi mollato quelle.”
Federico alza gli occhi e Michael lo guarda con un mezzo sorriso sulle labbra.
“Tu hai beccato un congiuntivo. E' una grande serata.”
L'altro sbuffa, sedendosi accanto a lui. È un po' ridicolo, pensa Federico, con quelle sue gambe lunghissime, accovacciato su un gradino di neanche cinquanta centimetri.
Almeno ha lasciato in camerino l'Unicorno.
“Smettila di prendere in giro il mio italiano. Ho molto migliorato.”
Federico ride, e una nuvoletta di fumo fluttua fra loro. Michael arriccia il naso, guardandolo accigliato. “Ora sì che ti riconosco.”
“Oh, shut up.”
La sigaretta viene lanciata lontano, nel buio. Arde più intensamente, un istante, prima di spegnersi.
“ 't was a good show tonight.” dice Michael, distendendo le gambe e poggiandosi sui gomiti. Federico lo guarda di sottecchi. Tiene la testa reclinata, e gli occhi socchiusi.
“Continuo a non essere d'accordo su quello che hai detto sui Moseek.”
“Ah, ma smettila. Vediamo cosa tira fuori a prossimo live.”
La gara è cominciata davvero. Fanno fatica a lasciarsela alle spalle, davanti al pubblico e lontana da loro, e si ritrovano a punzecchiarsi come due quattordicenni. Vecchia
e sana competizione.
Federico qualche volta la prende troppo sul serio. E' un errore che fanno tutti, prima o poi, perché improvvisamente ti trovi una carriera e una vita che non sono le tue fra le mani, e basta un azzardo sbagliato e tutto va a puttane.
Il mondo dello spettacolo è proprio come lo dipingono: splendente, dorato, e pieno di pezzi di merda pronti a rovinarti, anche se la colpa non è tua.
“Qualche volta mi dimentico di quanto sia massacrante.”
L'altro non risponde, limitandosi a guardare in alto, nella spirale luminosa dei lampioni giallastri. Dopo un attimo sospira. “Lo è. Quei ragazzi, in live vedono come realmente stanno le cose. You know, some of them are so young. They don't know what's like. You can be the best singer in the fuckin' world, but either the audience likes you or you're out.”
“Vacci piano con l'inglese, zio. Mi tocca trovarmi un interprete.”
“Volio solo dire che è dura. Più per loro che per noi.”
E' una conversazione che hanno avuto fin troppe volte. Le parole sono quasi le stesse, i pensieri pure. Sembrano due attori che hanno imparato la loro parte a memoria, ogni volta che l'argomento salta fuori, ma stasera Federico è stanco, e non riesce ribattere. A dire che non è d'accordo, che lui tutta quell'ansia addosso la sopporta a stento, fra risate nervose e sigarette che non dovrebbe fumare.
Si gode il silenzio rilassato che cade tra loro. Il ginocchio dell'altro gli sfiora la caviglia. La notte si fa un po' più fredda.
“Che hai Fede?”
La voce di Michael è diversa da quella che usa sul palco. L'accento è più marcato, il tono più caldo e arrochito, scuro come le occhiaie che ha sotto gli occhi e il disastro di ricci incrostati di gel che si ritrova in testa. Sembra più vecchio dei suoi trentadue anni.
Federico lo preferisce così, l'uomo nascosto sotto l'eterno ragazzino che ogni giorno si lascia scivolare addosso, e che paradossalmente aleggia sempre su di lui. Quando Mika viene lasciato appeso ad una gruccia in un camerino sterile, e quello che rimane è proprio lì al suo fianco, con quel tono un po' severo, con quello sguardo stanco e languido, nella luce industriale di un parcheggio di Milano.
Federico si guarda le scarpe. Non risponde.
“All right.”
La mano di Michael si posa insistente ed indesiderata sulla sua spalla, e improvvisamente quei suoi occhi penetranti lo guardano da pochi centimetri, sinceramente preoccupati.
Federico si sente per un attimo di nuovo un ragazzino, quando il sabato mattina bigiava per saltare le due ore di matematica, e appena tornato a casa sua madre lo guardava con due occhi grandi e tristi, fingendo di non sapere.
“It's what I think it is?”
Michael è ottuso. Cocciuto, testardo e alle volte non riesce proprio a capire che a certa gente servono solo due cazzo di minuti di silenzio e una sigaretta scroccata per rimettersi a posto la testa e fingere che tutto vada bene. Federico lo guarda da sotto le ciglia, e un po' gli gira la testa, nel gelo della notte, nel calore della mano che gli tocca la spalla.
Rivede il freddo degli occhi di Giulia. Il tono spezzato delle grida della ragazza, le sue, di grida, che gli avevano lasciato la voce graffiata e il petto pesante.
Alla fine parla.
“Mi ha più o meno buttato fuori di casa. Non ne sono sicuro.”
“Non hai posto dove stare stanotte?”
“A quanto pare.”
Michael annuisce, e la sua mano si muove piano sulla sua schiena. Sembra, per un attimo, alla ricerca delle parole giuste, e Federico si chiede come sia possibile creare una frase di senso compiuto in quel caos di lingue e culture che deve essere la sua testa. Lui le parole non le trova neanche nell'unica lingua che parla da ventisei anni, figuriamoci.
“Vieni,” dice alla fine. “You sleep at my place tonight. Ma prima io ti porto a prendere una Drink. You need it, man.”

Sono le quattro del mattino, e sono entrambi più ubriachi di quanto siano disposti ad ammettere.
Federico si sente la testa leggera e non ci pensa più, a Giulia, ai live, alla sensazione di merda che tutte le mattine gli si deposita nello stomaco e gli rende difficile respirare.
E' il grande pregio dell'alcol. Ti regala due ore di oblio e ti prende a cazzotti il giorno dopo, quando ti svegli con la testa che scoppia e la bocca impastata, e ti fa schifo persino guardarti allo specchio.
Michael sta raccontando una storia su un tale vrai connard con cui usciva quando aveva vent'anni e che l'ha lasciato fucking skint, ed è più o meno tutto quello che Federico riesce a capire prima di scoppiare a ridere come un cretino, perché l'altro ha cominciato a parlare anche in Dio solo sa che altra lingua, ed è tutto così assurdamente esilarante. La barista gli lancia uno sguardo a metà fra lo sconvolto e il sinceramente preoccupato. Chissà perché non ha ancora deciso di sbatterli fuori, spaiati, assurdi, e completamente andati come sono.
“Dio, Mic, ma che cazzo stai dicendo?”
Michael scuote la testa e punta un dito contro l'altro, quasi accasciandosi sul tavolo. Forse è persino più ubriaco di lui. “See? You're 'lready better. I always get wasted when I fight with Andy. Helps every fuckin' time.”
“Capita spesso?”
Federico si pente di averlo chiesto nel momento in cui la risata di Michael si congela sulle sue labbra, e un lampo di lucidità gli attraversa gli occhi. Si poggia allo schienale della sedia e si passa una mano tra i capelli.
La cosa preoccupante è che non parla subito, lui che è sempre pronto a mettere una parola dietro l'altra senza pensarci troppo. Si prende il suo tempo, e poi quando la risposta arriva lo fa a mezza voce, assieme ad uno sguardo perso nel vuoto e ad un ultimo sorso di birra scura.
“Siamo stati insieme per otto anni ora. It's okay, it's perfectly normal.” e sembra che ripeta per inerzia una preghiera imparata a memoria.
Non parla molto di sé, Michael, proprio mai, anche se è in grado di farti credere di conoscerlo meglio di te stesso dal primo momento in cui gli stringi la mano, e ti ritrovi davanti un sorriso tutto denti e una risata un po' sguaiata nelle orecchie.
Parla, parla, parla, non è mai in grado di chiudere la bocca e sembra quasi che abbia paura del silenzio, ma quello che c'è di lui, in tutte quelle parole, è solo una manciata di sguardi e un pugno di riccioli scuri. Poi qualche volta se ne esce con commenti del genere, e Federico si trova a guardarlo come se non l'avesse mai visto, uno sconosciuto dalla faccia familiare che, improvvisamente, di anni ne ha dieci di più e che lo lascia con un nodo nello stomaco che neanche con tutta la buona volontà del mondo riesce a sciogliere.
Quindi è imbarazzato, mortificato, e si sente pure un po' uno stronzo. Annuisce piano, e fissa gli occhi nel bicchierino vuoto che tiene fra le mani.
“Federico.”
Alza lo sguardo di scatto, e Michael è di nuovo proteso verso di lui, un paio di ricci che gli cadono sulla fronte. È più vicino di quanto si aspettasse, e il suo respiro gli sfiora le labbra. La testa gli gira e gli occhi dell'altro hanno una sfumatura ambrata che non aveva mai notato.
“You now, va bene. Relazioni, sono una cosa complicato, and you are young. Puoi avvere dubbi.”
Le dita di Michael gli sfiorano la guancia. Sono fredde, callose, e Federico sta trattenendo il respiro e non sa perché.
Poi l'incantesimo si spezza, l'altro si tira indietro e la barista finalmente si decide a buttarli fuori.

Federico non si regge in piedi.
Si appoggia al muro e preme la testa contro il cemento freddo. Michael ridacchia qualcosa in inglese e lui vorrebbe girarsi e sfidarlo, dirgli che si azzardi a ripeterlo in una lingua che in questo momento può capire, se ne ha il coraggio, il grande stronzo.
Ha la bocca intorpidita e piena del sapore acido della bile, e il problema non è soltanto la sua ridicola tolleranza all'alcol, che alla veneranda età di ventisei anni si ferma ancora alla terza chiara, e che stasera forse avrebbe fatto meglio a non ignorare. Il problema è che ha una voglia matta di gridare e piangere, e tutto quello che riesce a fare è cercare di non vomitare sulle scarpe dell'altro, che gli tiene un braccio intorno alla vita e che non è messo poi così meglio rispetto a lui. Il corpo caldo che lo circonda gli fa venire anche un'altra voglia, ma un conato lo costringe a riconsiderare.
“Come Here.” dice Michael e, appena ha finito di vuotarsi lo stomaco sul marciapiede, si ritrova col viso premuto contro il suo petto. È scomodo, camminare così, ma almeno non rischia di scivolare e trovarsi faccia in giù nel suo stesso vomito.
Chiude gli occhi. Il corpo di Michael è poco familiare, e la sua presenza gli riempie la testa dell'odore di profumo costoso e gel per capelli. Gli stringe un fianco con una mano gelata, accenna una risata roca al suo orecchio, quando inciampano nell'androne di uno dei palazzi più eleganti di tutta Milano, rischiando di cadere. C'è anche il modo in cui un cuore che non conosce gli rimbomba nelle orecchie, veloce ed esaltato, e il sospiro frustrato che sfugge dalle labbra dell'altro, quando manca per la seconda volta il buco della toppa, che scivola sulla guancia di Federico, e lo fa rabbrividire.
Non ricorda troppo, di quello che viene dopo.
Si risveglia in un letto sconosciuto con le lenzuola azzurre, che profuma di pulito e che non ha il tempo di apprezzare, perché il sonno gli è stato strappato di dosso dal doloroso pulsare di un'emicrania che ha il sapore amaro di una bocca impastata.
C'è un istante, che corre tra il momento immediatamente successivo a quello in cui apre gli occhi e quello in cui la luce penetrante della tarda mattinata lo costringe a serrarli, in cui non ricorda neanche il suo nome: annaspa nella coscienza appena ritrovata alla ricerca di se stesso, e trova soltanto stracci di conversazioni abbozzate e il profumo sconosciuto di una pelle che non è la sua.
Cazzo, una sbornia del genere non se la prendeva da mesi.
Si tira su piano, grugnendo, ricordandosi pian piano del letto non suo, di Michael mentre ride, della conversazione al bar, delle grida di Giulia e della sigaretta fumata a metà, lanciata nel buio del parcheggio dell'Arena; ed è costretto a ributtarsi sul materasso, perché la nausea gli afferra le viscere e lo lascia senza respiro.
Prova a sollevarsi ancora, più lentamente, e la testa gli pulsa e...
Grida. Rabbiose, frustrate, che rimbombano tra le mura e gli perforano il cervello.
Grida che non sono solo ricordi, perché qualcuno che urla c'è davvero, e la voce giunge ovattata attraverso le pareti della stanza
Federico si alza lentamente, avvicinandosi alla porta lasciata socchiusa.
La luce dell'attico gli riempie gli occhi e lo costringe a chiuderli di scatto, la bile che gli gratta la gola e un giramento di testa che lo costringe a poggiarsi allo stipite della porta. Quando riesce a mettere a fuoco quello che ha intorno, vede una sala grande e luminosa, Michael dall'altra parte, e per poco non lo riconosce.
Non è tanto il vestiario scombinato, con la cintura sganciata che pende dai pantaloni e la camicia stropicciata, o i capelli umidi e la barba incolta. Federico lo guarda e vede solo la rabbia che gli accende lo sguardo e arrossa le guance, le parole pronunciate in un inglese spezzato e incomprensibile che gli sfuggono dalle labbra come insulti e si infrangono nel silenzio dell'appartamento, come vetro scheggiato. A un certo punto scaglia il telefono lontano, e Federico può sentire il suono secco di qualcosa che si frantuma. Lo guarda stringere il pugno nei capelli, imprecando, e per un attimo sembra quasi che voglia strapparli.
"Mic?"
Si volta di scatto verso di lui, come una bestia spaventata. “I-I'm sorry.” balbetta “ Io ho svegliato...?”
La sua voce trema.
Federico si sente un coglione. Perché non sa cosa dire, né cosa fare. Perché ieri sera non doveva bere così tanto e perché di certo lui queste cose non le sa gestire manco da sobrio, quindi è inutile provare a farlo adesso. E poi Michael è quello che ride, scherza, che se ne frega del mondo. Gli occhi di Michael, ne è sicuro, sono grandi e scuri e non lo guardano pieni di riflessi ambrati e pianto, come se si aspettassero qualcosa. Qualsiasi cosa.
Apre la bocca e poi la richiude. “Mi sa che hai bisogno di un telefono nuovo, zio.” articola alla fine, perché altro da dire non trova , e il silenzio sceso nella stanza lo fa rabbrividire. Tanto vale sparare la prima stronzata che gli viene in mente.
Michael abbassa gli occhi e ride, istericamente, la mano ancora intrecciata nei capelli. Il cellulare è rimbalzato contro il muro ed è andato in mille pezzi sul pavimento.
Ha colpito una fotografia, lasciando un segno scuro sull'intonaco bianco. Frammenti di vetro costellano il parquet chiaro, e due uomini abbracciati restano congelati nella cornice scheggiata.
Non è una sfuriata che ha a che fare col lavoro, questo è piuttosto chiaro, ma Federico fa finta di niente, e forse è più facile.
“Look,” dice l'altro, dopo un istante. “Devo prendere un aereo in due ore. Se hai bisogno puoi...”
Il respiro gli si blocca in gola, e Federico fa di tutto per non sentire.
“Non importa.” risponde subito, senza permettergli di continuare. “Vado a casa e vedo di...”
“All right.”
Michael lascia finalmente cadere il braccio. Inspira profondamente, e poi espira, e la tensione nelle sue spalle si allenta un po'.
“Mic?”
“Mhm?”
“Vuoi parlare?”
L'altro scuote piano la testa, un sorriso tirato sul viso. “Lascia stare,” dice. “Sto bene. Succede, è normale.”
No, vorrebbe dire Federico. Non è un cazzo normale, Michael.
Gli occhi dell'altro sono grandi e ambrati nella luce del mattino. Sono così pieni di lacrime che sembrano fatti di vetro, e Federico abbassa i suoi, perché anche solo a guardarli ha paura di frantumarli.

Si sente una merda più del solito, Federico Lucia.
Milano è sempre la stessa. Grigia, efficiente, implacabile.
Se la sente addosso ovunque, che preme fra le scapole, che tenta di scaraventarlo a terra sotto un cielo color piombo macchiato dalle guglie del Duomo.
Anche Federico è lo stesso, con i vestiti della sera prima addosso e la testa che gli esplode. Ha il cuore pesante e dello stesso color piombo del cielo, e come sempre cerca di non pensare.
Ci mette quasi un'ora ad arrivare a casa, un piede davanti all'altro e il viso nascosto nel cappuccio della giacca. Tra le altre cose Milano in ottobre è fredda, e Federico si stringe un po' di più nel calore del suo stesso respiro.
Quando Giulia apre la porta si porta una mano alla bocca e lo guarda senza parlare. È bella e pallida, e ha gli occhi gonfi di sonno e di pianto.
“Fede,” la voce è flebile e sottile. “Dio Fede. Io non..”
Federico la abbraccia e nasconde il volto nella sua spalla, perché non vuole parlare, non vuole spiegare, e le parole gli si bloccano in gola. Puzza d'alcol e di notte insonne, e lei, se anche se ne accorge, non dice niente, e lo stringe piano.
“Abbiamo esagerato ieri” mormora quando si separano, e i suoi occhi sono grandi e azzurri e lucidi e Federico li guarda sorridendo stanco.
“Già.”
Le posa piano una mano sul viso, e il peso che sente nel cuore è grande quanto quegli occhi che non riesce a smettere di guardare: gli manca il respiro, perché c'è stato un momento in cui tutto il suo mondo era in quello sguardo, che ora è lucido e spezzato.
Guarda Giulia, e solo quando in quel blu pallido comincia a vedere un paio d'occhi Ambrati distoglie lo sguardo, e si pianta le unghie nelle palme delle mani.

Thought of you as my mountain top
thought of you as my peak
Thought of you as everything
I’ve had but couldn’t keep.



Note:
Buonasera, Buonasera. 
Cominciamo dal titolo: Pale Blue Eyes è una bellissima canzone dei Velvet Underground, che potete trovare qui. Ascoltatela, perchè ne vale veramente la pena. 
Che dire, su questa storia. E' una sfida, per me, e soprattutto è la prima cosa che pubblico dopo anni. Sono un po' in ansia, ad essere sincera, ma sono dettagli. 
Tornando a noi, volevo pubblicare questa storia anche su wattpad. Ma a quanto pare io e quel sito non andiamo d'accordo: appena riesco a capire come funziona quella dannata schermata arancione la metto anche lì.
Visto che i primi capitoli sono già scritti, cercherò di aggiornare in modo regolare, una volta a settimana. Recensite, anche per insultare, fa bene tutto. 
Un bacio, e alla prossima. 


Edit 16/12/15: Il Capitolo come lo vedete adesso è tale grazie alla fantastica emitea, che l'ha betato. Un grazie sincero a lei, alle sue virgole, e alla sua meravigliosa e brutale onestà.  

 

  
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